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j.m.j.
Domenica in Albis – Domenica della Divina Misericordia – Anno “A” Omelia
“PACE A VOI!”
Carissimi fratelli e sorelle,
ogni anno in questa Domenica dell’ottava pasquale ci incontriamo con questa pagina stupenda di Giovanni che ci racconta le prime due domeniche della cristianità in cui il Risorto appare agli Apostoli nel Cenacolo, la prima volta assente Tommaso, la seconda presente anche lui. Una volta era comunemente conosciuta come la Domenica in Albis, cioè in biache vesti, perché nella Chiesa primitiva i neo battezzati della Veglia Pasquale venivano alla convocazione liturgica vestiti con la veste bianca ricevuta nel santo battesimo. Oggi, dopo l’istituzione, da parte del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, della Festa in onore della Divina Misericordia (sulla scia del messaggio di speranza diffuso dalla santa sua compatriota, Faustina Kowalski), è comunemente chiamata Domenica della Misericordia e proprio in questa domenica la Chiesa ha voluto celebrare anche la sua beatificazione.
Questa evangelica è ricchissima di contenuti spirituali, cerchiamo, aiutati dallo Spirito Santo, di coglierne alcuni che possano fecondare di Vangelo vivo la nostra esistenza quotidiana. Vi propongo essenzialmente due punti di riflessione.
1. Primo punto: LA PACE.
In così pochi versetti per tre volte il Risorto si rivolge ai suoi con l’augurio della sua pace.
La pace è il dono per eccellenza del Risorto il quale è morto appunto perché ci fosse pace, anzi “Egli stesso è la nostra pace” e ha realizzato la nostra pace sulla croce dove ha riconciliato in sé l’umanità e il Padre: “Egli è venuto ad annunziare la pace” (cf Ef 2,14-18).
Ma, attenti, come tutte le parole umane, anche questa, la pace, è soggetta ad equivoci e fraintendimenti. Lui stesso ci aveva messo in guardia quando disse: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27). La sua è una pace diversa, particolare, spirituale che solo le persone spirituali la capiscono, l’apprezzano, la amano, la custodiscono. Paolo parla dell’“uomo naturale” e dell’“uomo spirituale” (cf 1Cor 2,14), l’uomo naturale è quello i cui criteri di vita sono naturali, terra terra, l’uomo spirituale è l’uomo che innalzato dallo Spirito Santo alla figliolanza con Dio vede le cose con una luce diversa, spirituale che l’uomo naturale non ha perché l’uomo naturale non ha la fede, noi sì, quella fede di cui ci parla oggi la seconda lettura, fede “nella quale siamo custoditi dalla potenza di Dio per la nostra salvezza”. La nostra fede è quindi “potenza di Dio”, potenza che vince cioè i giudizi del mondo, i falsi valori del mondo, le illusioni e le vanità dell’uomo naturale che confida e fonda la sua esistenza solo sulle cose materiali: “Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4)
La pace del mondo è l’effimera pace identificata con la soddisfazione e l’appagamento delle proprie voglie e desideri, è la pace psichica risultante dall’armonia di una esistenza totalmente protesa a ricercare e soddisfare se stessi, a perseguire ogni piccolo desiderio della propria affettività e sensualità. È una specie di appagamento sensuale-affettivo che spinge la persona a fuggire ogni sacrificio, ogni impegno pesante e scomodità per scegliere sempre il più facile e comodo. Quando la persona si trova tutta orientata a soddisfare se stessa in tutte le sue dimensioni, sia intellettiva che affettiva che sensuale, vive così un’armonia, certamente si tratta di un’armonia falsa, negativa, ma la persona trova in quell’armonia una certa unificazione di sé che le dà pace, è una pace psichica, sentimentale, è un senso di quiete e di benessere che non ha nulla a che vedere con la pace di Gesù che viene appunto a distruggere questa falsa armonia e falsa pace. Infatti la pace di Gesù passa attraverso la lotta, l’impegno faticoso, lo sforzo, tutti elementi ripudiati dalla pace falsa che gode nel disimpegno e nella soddisfazione di sé. Sotto questa particolare angolazione possiamo quindi anche leggere Mt 10, 34: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”. E a questa dimensione ci rimanda anche la seconda lettura di oggi che parla di una gioia grande posseduta dal cristiano seppur in mezzo a gravi prove.
La pace di Gesù non è quella del mondo, non è neanche lontanamente paragonabile a quella del mondo, la pace di Gesù è il dono dello Spirito strettamente legato alla remissione dei peccati. La persona non può avere pace, pace in profondità, pace vera senza il perdono dei propri peccati. Il perdono dei peccati non è una riconciliazione della persona che si basa sulla cancellazione del ricordo del peccato, né si tratta di uno scusare il peccato minimizzandolo o attribuendolo semplicemente a invincibili condizionamenti psico-sociali, oppure coprendolo come fa una povera mamma nei confronti delle mancanze del figlio viziato. No, Dio non è una mamma che copre i nostri sbagli con la sua bontà. Il perdono di Dio è un atto creatore, si tratta di una nuova creazione, di una nuova, assolutamente nuova creatura che nasce come frutto del perdono, per cui il passato non le appartiene più: “Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (Is 43,18-19; Ap 21,4). Per questo la domenica di Pasqua apparendo ai suoi apostoli Gesù Risorto “alita” su di loro, gesto che chiaramente richiama l’atto creatore di Dio che creò l’uomo alitando sul fango (cf Gen 2,7). Questo dunque è un gesto solenne, cosmico, ricchissimo di significato. Gli Apostoli quindi ricevono questo dono dei doni da amministrare: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” e con questo dono frutto della sua morte e risurrezione il Risorto dona agli Apostoli la capacità di edificare la Chiesa, l’insieme dei riconciliati, di coloro che hanno ricevuto il dono della pace e che quindi vivono una dimensione diversa di vita, quella dei figli di Dio.
2. Secondo punto: L’INCREDULITÀ DI TOMMASO.
Certamente Tommaso con la sua incredulità e il suo ricredersi è uno degli Apostoli che sentiamo più vicino a noi, insieme a Pietro con il suo rinnegamento e il suo pentimento. È bello che il Signore abbia voluto mostrarci nei suoi Apostoli delle persone con le nostre stesse problematiche, gli stessi limiti, le stesse debolezze, per darci modo di avere la serena fiducia che, come loro riuscirono a superarsi, a vincersi permettendo all’Amore di Dio di plasmarli e foggiarli, così possiamo anche noi, guardando il loro esempio, lasciarci lavorare dallo stesso Amore, per diventare come loro testimoni del Vangelo per gli uomini del nostro tempo che incontriamo lungo il cammino della nostra vita.
La salvezza che il buon Padre del Cielo ci offre, è una salvezza che ha una dimensione intrinseca ecclesiale, sociale. Non ci salva da soli in un intimistico incontro con Lui. Egli ha mandato il suo Figlio a morire per noi per fare di noi la sua famiglia, la sua casa (cf 1Tm 3,15). Gesù è il “Primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29) e ci porta al Padre insieme agli altri fratelli e sorelle, nella Chiesa che “è il suo Corpo” (Col 1,24; Ef 1,23. 5,23.30). Ogni vero incontro con il Risorto porta la persona non a staccarsi dalla Comunità, ma a farvi parte maggiormente. È nella Comunità della Chiesa che riceviamo il dono della fede ed è nella Comunità che questa fede cresce e matura. L’allontanarsi dalla Comunità comporta necessariamente un decadimento della fede stessa.
Tommaso non credette perché quel giorno non era con gli altri, era assente e divenne incredulo. Una domanda che mi sono sempre divertito a fare alla Messa dei bambini in questo giorno, quando ero parroco, era: “Ditemi ragazzi: dov’era Tommaso quel giorno della domenica di Pasqua?”. E di fronte ai loro visetti perplessi, aggiungevo: “Forse era a veder la partita di calcio o forse era…” e enumeravo così i vari modi di trascorrere la domenica per i molti per i quali l’appuntamento con la Comunità non esisteva più.
Per un dono di grazia del Signore, la domenica successiva Tommaso fu presente e superò la sua incredulità credendo. Il Signore gli concesse quel segno che egli pretese per credere: poté mettere il suo dito nei fori dei chiodi e la sua mano nella ferita del costato, ma quel segno gli fu concesso sempre lì nel Cenacolo, con gli altri. Se Tommaso anche quella domenica fosse stato assente non avrebbe visto il Risorto!
Tommaso venne rimproverato da Gesù per aver preteso questo segno, ma l’ottenne! Vide e credette! Ma quello che credette fu più di quello che vide, per questo anche Tommaso seppur vide, ebbe fede e la sua fu la più alta espressione di fede del Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio!”. Sì, infatti vide il Cristo Risorto e affermò essere Lui il suo Dio: “Mio Signore e mio Dio”. Tommaso e gli altri Apostoli non videro Dio, Dio non si può vedere in questa terra, per vedere Dio in un faccia a faccia senza nubi (cf Es 33,9-11) bisogna necessariamente morire (cf Es 33,20-23).
Attenti quindi a non sottovalutare la professione di fede di Tommaso. Pur avendo visto, la sua è una vera professione di fede, anzi – come abbiamo detto – è addirittura la più alta del Nuovo Testamento. La divinità non possiamo vederla in questa vita se non con la fede. Ed era sempre la fede quello che Gesù pretendeva dai suoi discepoli (cf Mc 4,40; 5,36; Gv 14,1; Lc 8,25; Gv 6,29). “Filippo, chi vede me vede il Padre, credi tu questo?” (cf Gv 14,8ss). Gli Apostoli non vedevano il Padre, vedevano Lui il Figlio, vedevano Gesù e venivano invitati a credere che vedendo Lui vedevano il Padre. L’umanità del Verbo incarnato è il segno visibile della sua divinità, ma la divinità in sé non si vede né si può vedere in questa vita. Tommaso non vide dunque la divinità di Gesù, vide il suo corpo risorto, non la sua divinità, ma affermò di crederLo Dio, il suo Dio.
La fede è vedere Dio senza vederlo, toccarlo senza toccarlo, per questo è sempre dono e lotta. Dono di Dio e lotta continua contro l’incredulità. Una fede che crede tranquillamente non esiste: la fede è sempre lotta contro l’incredulità. Gesù rimprovera Tommaso perché ha chiesto un segno e proclama beata la fede che non chiederà di vedere segni! Siamo “beati” quindi se non chiediamo “segni” e ancor più lo saremo se non andremo a caccia di segni strabilianti (visioni, rivelazioni, ecc.), ci basti il segno della Chiesa, la Chiesa è il vero segno di Gesù. Quanto più la Chiesa si rifà al suo modello apostolico che risplende nella prima lettura di oggi (At 2,42-47) e si edifica come comunità di fratellanza e di amore, quanto più essa è segno di Gesù Risorto.
Gesù loda la fede di chi non ha bisogno di segni, ma questi segni sono un suo dono d’amore con cui viene incontro alla nostra debolezza e a tutti vengono dati segni sufficienti per credere. Anche alla Vergine Maria il Padre concesse il segno di sua cugina Elisabetta incinta nell’anzianità per poter più facilmente credere che Lei lo potesse diventare nella sua verginità (cf Lc 1,36). Ognuno di noi se rilegge la propria vita troverà diversi momenti in cui ha potuto mettere “la sua mano nel costato e il suo dito nel posto dei chiodi”, dobbiamo custodire gelosamente quei momenti nella nostra memoria e ricordarli spesso per poterci rinnovare nella stessa professione di fede di Tommaso: “Mio Signore e Dio della mia vita!”.
Amen.
j.m.j.
Terza Domenica di Pasqua – Anno “A” Omelia
“Non ci ardeva forse il cuore nel petto?”
Carissimi fratelli e sorelle,
abbiamo ascoltato oggi nella prima lettura il discorso che Pietro insieme agli altri Apostoli, il giorno di Pentecoste, mosso dallo Spirito Santo, fece pubblicamente in Gerusalemme affermando senza paura e con forza che Gesù di Nazareth, il Crocifisso, l’Uomo che avevano inchiodato al legno e avevano visto morirvi sopra spargendo tutto il suo “prezioso sangue” (seconda lettura), era risorto “perché non era possibile che la morte Lo tenesse in suo potere” e di questo ne sono stati costituiti testimoni gli Apostoli.
Bisogna che capiamo bene la risurrezione di Gesù. Essa non fu come quella di alcuni che furono risuscitati da Lui per poi ritornare a morire: la figlia di Giairo (Lc 8,54-55), il figlio della vedova di Nain (Lc 7,14-15), l’amico Lazzaro (Gv 11,43-44) e altri (Mt 11,5).
La risurrezione pone Gesù in una nuova e totalmente diversa dimensione, il suo corpo ora è glorificato, cioè vive nella dimensione dello spirito e partecipa pienamente alle prerogative dello spirito, non più soggetto alle limitazioni della materia, ora è un “corpo spirituale glorioso” (1Cor 15,44). Cosa voglia dire esattamente “corpo spirituale glorioso” nessuno quaggiù lo sa, nessuno!
Sì, Gesù appare e scompare, si rende visibile, fa vedere qualcosa come quel giorno sul Tabor quando si trasfigurò (Mt 17,2), ma i nostri occhi quaggiù possono solo cogliere qualcosa, vedono un’apparenza corporea che è solo un lontano segno di ciò che ora è il Risorto, per vedere il quale oggi è molto più utile ed efficace la vista della fede che quella degli occhi.
Sì, come domenica scorsa vi dicevo, in realtà l’incontro con il Risorto da parte di chi Lo vide, non poteva definirsi propriamente come un’esperienza fisica, ma ci fu sempre un qualcosa che faceva dire a chi Lo incontrava: “È Lui! È il Signore!” (Gv 21,7). Anche oggi nel racconto dei “Due di Emmaus” cogliamo precisamente questo: Gesù viene riconosciuto allo spezzar del pane e una volta riconosciuto, scompare!
In realtà Gesù apparve agli Apostoli per due motivazioni fondamentali:
La prima fu quella di aiutare la loro stessa poca fede a credere. Apparire, fu umanamente necessario al Signore Risorto per convincere i suoi scettici Apostoli (cf Mc 16,9-14). Solo uno tra i suoi discepoli non ebbe bisogno di vederLo risorto per credere nella sua risurrezione, a questo discepolo bastò il segno del sepolcro vuoto e delle bende e del sudario riposti di lato per credere (Gv 20,8). Non è un caso che lui (Giovanni) fu l’unico ad “entrare con Gesù” (Gv 18,15) nella sua Passione e a stare insieme al suo Maestro fin sotto la croce (Gv 19,26).
La seconda motivazione fu perché gli Apostoli potessero affermare a tutti di averLo visto e così conferire affidabilità alla fede di chi avrebbe creduto alla loro testimonianza. Infatti, se non Lo avessero visto e mangiato con Lui dopo la risurrezione, coloro che avessero sentito il loro annuncio della sua risurrezione, avrebbero potuto pensare di trovarsi davanti a degli illusi. Infatti, come umanamente affermare che Gesù sia risorto dalla morte senza averLo visto né toccato? Sarebbero stati scambiati per dei poveri ingenui sognatori. Se, infatti, non Lo avessero visto e se non avessero potuto dire: “Abbiamo visto il Signore!” (Gv 20,18.25) come avrebbero potuto far capire a tutti che Lui, il Crocifisso, era Risorto e che, quindi, la morte non è l’ultima parola sulla vita?
Per questi motivi, una volta che gli Apostoli ebbero ben capito e creduto che Lui era risorto e vivo, dopo diverse apparizioni, non fu più necessario per Gesù mostrarsi loro esteriormente, perché altrimenti avrebbero potuto essere tentati di pensare e di credere che Lui stesse permanendo ancora in una dimensione fisica che in realtà non possedeva più, perché il suo Corpo, con la risurrezione, non appartiene più alla dimensione fisica e terrena, ma gloriosa e celeste.
È, inoltre, sintomatico che nei Vangeli non si accenni ad apparizioni del Risorto alla sua dolcissima Madre, la devozione popolare ha sempre supposto quest’incontro. S. Ignazio di Loyola, erede di questa devozione, nel suo cammino degli Esercizi Spirituali, inizia la tappa della risurrezione proponendo la contemplazione di “Come Cristo nostro Signore apparve a nostra Signora” (Es. Sp. 218).
È bello anche vedere come – nei paesi del Sud – l’apparizione del Risorto alla Vergine Madre, venga celebrata con grande commozione e amore con quella che viene chiamata la “Processione dell’incontro”: al mattino di Pasqua partono due processioni, normalmente da due chiese diverse, in una si accompagna festosamente il Risorto, nell’altra si accompagna mestamente, con i segni ancora del lutto, la Madonna Addolorata che, alla vista dell’altro corteo, viene spogliata dei segni del lutto e viene portata di corsa incontro al Figlio.
Quando queste devozioni vengono vissute con vero spirito di fede, sono molto commoventi e intense ed esprimono quella speranza cristiana, fondata sulla certezza di fede, che “il Signore eliminerà la morte per sempre e asciugherà le nostre lacrime” (Is 25,8; cf Ap 7,17).
Certamente Maria è stata la prima persona ad incontrarsi con Gesù Risorto, ma l’incontro – a mio giudizio – probabilmente è avvenuto nella dimensione dello spirito e non della fisicità. Alla Vergine Santa, infatti, come a Giovanni, bastò il segno del sepolcro vuoto (cf Gv 20,8), non occorse per Lei vederLo per crederLo e saperLo risorto. Sì, Maria non ebbe bisogno di vederLo per crederLo risorto e con il suo Figlio Risorto si incontrò nella dimensione della fede nell’intimo del suo Cuore Immacolato. D’altra parte se fosse apparso anche a Lei, Gesù l’avrebbe privata di quella beatitudine della fede che è solo di chi non Lo vede né ha bisogno di vederLo per credere (cf Gv 20,29).
L’incontro con il Risorto dunque non avviene più nella dimensione della carne, ma in quella dello spirito. La sua presenza pervade ogni cosa e ci accompagna lungo il cammino della nostra vita, così come accompagnò i Due discepoli di Emmaus afflitti e sconsolati. Essi, quando Lo riconobbero allo “spezzare del pane” capirono perché “ardeva il loro cuore lungo il cammino quando Egli spiegava loro le Scritture”: reinterpretarono la loro esperienza alla luce della fede e capirono la sua presenza! È così anche per noi oggi: abbiamo bisogno della fede per reinterpretare la nostra vita e scoprire in essa la presenza nascosta del Risorto che sempre ci accompagna rincuorandoci, consolandoci e fortificandoci proprio in quei momenti che – umanamente – sembrerebbe fossimo soli e abbandonati.
Il Risorto è essenzialmente il nostro “Compagno di viaggio” troppo spesso sconosciuto e disatteso perché, come i Due di Emmaus siamo troppo presi dalle nostre speranze deluse. I Due sognavano una liberazione materiale e politica d’Israele, era una speranza ben piccola che non corrispondeva ai disegni di Dio che erano molto più grandi e che attuava una liberazione ben più profonda e importante: liberazione dal peccato, dalla morte, dalla dannazione eterna.
Se, dunque, sapremo ergerci da questo orizzonte terreno, che tenta continuamente di chiuderci e soffocarci, anche noi come i Due di Emmaus potremo capire che “erano necessario che il Cristo patisse” e tanti misteriosi e inspiegabili “perché” della nostra vita in cui siamo stati segnati e travolti dal dolore fisico e morale, dal fallimento e dalla solitudine, dalla fragilità e dall’impotenza, si spiegherebbero alla luce di Gesù Risorto che è risorto solo perché è morto, infatti non si può risorgere senza prima morire! Quella passione di umiliazione di sangue, che aveva subito e che Lo aveva schiacciato, Lo ha accomunato a tutti i “poveri Cristi” che attraverso i secoli subiscono la sorte di una vita infame e crudele, senza senso né valore, che solo in Lui Crocifisso, ma Risorto, trova un senso e un valore.
L’invocazione dei Due al Viandante sconosciuto: “Resta con noi, che il giorno ormai declina” frutto di quei cuori riscaldati dalla sua presenza nascosta, sia fatta propria da ciascuno di noi che nell’oggi del mondo è accompagnato dallo stesso Amico e Compagno di viaggio, misteriosamente, ma realmente presente, nell’intimo più intimo di noi stessi, nel più profondo del “pozzo” del nostro cuore dove Lui attende di essere scoperto e dissetato (cf Gv 4,7; 19,28). Ed è Lui, Ospite nascosto, che fa ardere il nostro cuore muovendolo all’amore facendoci gustare quell’Amore con cui Lui stesso è amato eternamente dal Padre e che Lui, il Risorto, ha la missione di rivelarci e di comunicarci per mezzo del dono “del suo stesso Spirito che abita in noi” (2Tm 1,14).
Basta così poco per far ardere il nostro cuore! Basta così poco, perché il fuoco è già lì presente e vorrebbe incendiarci tutti (cf Lc 12,49), l’incredulità e lo scetticismo causati dall’attaccamento a noi stessi e ai nostri peccati ci rendono incapaci di ardere. Basta uno sguardo anche fuggevole al cielo…, basta un pensiero all’eternità di Dio…, basta l’ammirazione della bellezza del creato…, basta la lettura di una sua parola…, ma soprattutto basta “uno sguardo a Colui che hanno trafitto per i nostri delitti e schiacciato per le nostre iniquità” (Zc 12,10 e Is 55,5; cf Gv 12,32) per infiammarlo d’amore e fargli sentire quella profonda e immensa fame e sete di Dio che solo l’Eucaristia può alleviare quaggiù, nell’attesa di quella sazietà definitiva che potremo avere solo lassù, quando Lui ci farà sedere alla mensa del Regno dei Cieli e ci servirà Lui stesso cibandoci d’Amore per l’eternità (cf Lc 12,37).
Sì, l’Eucaristia è il nostro viatico nel cammino di questa vita, dove il Risorto continua a spezzare per noi il pane del suo Corpo e a versare il vino del suo Sangue perché i nostri cuori possano ardere nella memoria e nel contatto con tanto amore. Nutriti da Essa, anche noi siamo spinti a uscire dalle nostre case per ritornare dai nostri fratelli con la gioia di annunciare un’esperienza, scoprendo così, come i Due di Emmaus, che non siamo i soli ad averLo incontrato, perché “Lui è veramente risorto ed è apparso a Simone”.
La Vergine Maria, la “Donna Eucaristica” (come ce l’ha saputa indicare il nostro amato beato Giovanni Paolo II), ci insegni a saper riconoscere nella fede il Risorto suo Figlio misteriosamente presente attorno a noi e in noi e a cogliere, nell’amore, le esigenze di questa sua ineffabile presenza, perché Gesù, Crocifisso e Risorto, possa ricevere da ciascuno di noi quell’accoglienza di attenzione e d’amore che Lui desidera e che, forse, sta attendendo da troppo tempo.
Amen.
j.m.j.
Quarta Domenica di Pasqua – Anno “A” Omelia
“Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”
Carissimi fratelli e sorelle,
ogni anno in questa quarta domenica di Pasqua la Chiesa ci spezzetta il decimo capitolo di Giovanni presentandoci “Gesù Buon Pastore” e invitandoci a pregare per le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa.
Per svelarci il mistero della sua Persona e della sua relazione con noi, il Signore Gesù, nel quarto Vangelo, ha usato molte immagini: ha detto di essere “il pane della vita” (6,48); “la luce del mondo” (12,46); “la vite” (15,1); “la via, la verità, la vita” (14,6) e “la risurrezione” (11,25). In questo capitolo decimo le immagini sono due: Gesù afferma di essere “il buon pastore” (v. 11 – non riportato in questo anno “A”, la traduzione letterale è “bel pastore”) e “ la porta” del recinto dell’ovile.
Gesù Buon Pastore
È tra le immagini più care alle prime comunità cristiane come testimoniano le diverse raffigurazioni delle catacombe romane. Essa è ricchissima di significato, rimanda ad un personale e confidente rapporto d’amore con Gesù: “Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce”.
Egli le “chiama una per una”: che forza questa espressione, “una per una”! Il suo amore è personale, Egli chiama ciascuno per nome, anzi solo Lui conosce il vero nome di ciascuno (cf Ap 2,17), solo Lui conosce cosa c’è nel cuore di ciascuno (cf Gv 2,25) ed è solo quando ci sentiamo chiamati da Lui che troviamo noi stessi e la gioia di vivere. L’esperienza cristiana autentica può iniziare solo quando si è udita la sua voce che ci chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito che oggi debbo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5; cf Gv 20,16). È attraverso la sua voce che ci chiama per nome che percepiamo la bellezza, il valore e la dignità della nostra persona, del nostro essere figli del Padre che “in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore” (Ef 1,4). Chiamandoci per nome Gesù fa’ echeggiare nel nostro cuore l’amore del Padre, Gesù stesso lo spiega: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono Me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (vv. 14-15). Si tratta di una conoscenza intima che parte dall’amore e porta all’amore. Lui le ama con quello stesso Amore con cui è amato Lui stesso dal Padre, Egli riversa su di esse tutto l’amore che riceve dal Padre (cf Rm 5,5) e le pecore sapendosi e sentendosi amate, Lo seguono attratte da quest’immenso amore (Ct 1,3-4).
Egli conosce le sue pecore, ma anche le sue pecore conoscono Lui (v. 14) e Lo seguono. Come fanno a riconoscerlo? La Maddalena al sepolcro non Lo riconobbe finché Lui non la chiamò per nome (cf Gv 20,16)! Le pecore riconoscono il buon pastore quando Lui le chiama per nome! Lo riconoscono perché la sua voce è carica, impregnata, intrisa d’amore! Lui infatti ama le sue pecorelle e loro lo sanno perché le cerca quando si smarriscono e invece di punirle le prende in braccio e le riporta a casa stringendosele al cuore, le fascia quando sono ferite e le conduce con amore a lieti pascoli (cf Lc 15,4-6; Gv 10; Ez 34). Ma soprattutto, Lo riconoscono perché “il buon Pastore offre la vita per le sue pecore” (Gv 10,11; cf seconda lettura) perché le ama ed desidera “che abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. L’amore di Gesù, appunto perché è divino (cf Os 11,9) è sovrabbondante (cf Rm 5,20), il proprio dell’amore di Dio è di essere eccessivo, perché ci ama troppo, la misura dell’amore di Gesù per noi è di essere “traboccante” (Lc 6,38), esagerata ed immisurabile:
«Il Signore Gesù è generoso nei suoi doni: nell’elargire le sue grazie è di una straordinaria magnanimità. Ha cambiato in vino un quantitativo eccezionale di acqua, a Cana, ben oltre le necessità degli invitati alle nozze (cf Gv 2,6ss). Ha moltiplicato i pani per 5000 persone con una tale abbondanza che se ne sono avanzati dodici ceste piene (cf Gv 6,11ss). E così Egli è venuto perché l’uomo abbia la vita, non in una misura limitata, ma "in abbondanza". "Entrerà, uscirà e troverà pascolo": in Lui c’è la gioia di una libertà piena, perché la persona gioisce e gusta la pienezza della vita ("il mio calice trabocca" – Salmo)»
– Mons. Carlo Caffarra.
Sì, Gesù ci conosce e ci chiama per nome e noi Lo seguiamo, ma anche noi chiamiamo per nome Lui, possiamo farlo perché, come Lui conosce noi, anche noi conosciamo Lui. Lo possiamo conoscere perché il Padre ci attira a Lui (cf Gv 6,44) e ci invita ad ascoltarLo e seguirLo: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!” (Mc 9,8). E come nostra indicibile gioia è sentirsi chiamati per nome da Gesù, ineffabile gioia di Gesù è quella di sentirsi chiamato per nome da noi: “Tu lo chiamerai Gesù” (Mt 1,21), cioè “Dio che salva”, ”Salvatore”. Chissà che gioia nel cuore del Figlio di Dio ogni volta che sua Mamma e il suo Giuseppe Lo chiamavano per nome: “Gesù”. Chissà quale gioia nel cuore del Figlio di Dio quando qualcuno Lo chiamava o Lo chiama per nome: “Gesù!”. Come Bartimeo che a Lui gridò con forza: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10,47) ottenendo così la vista che implorava, ma soprattutto come quel povero ladro e mascalzone che Lo commosse così tanto chiamandoLo “Gesù” dall’alto della croce, che gli regalò seduta stante il paradiso!
Sì, come noi gioiamo intimamente quando ci sentiamo chiamati per nome da Gesù, percependo tutta la carica di amore con cui ci chiama, così Lui, Gesù, gioisce intimamente quando noi Lo chiamiamo per nome, cogliendo compiaciuto ogni minima nota d’amore di cui è carica la nostra voce. È la vista stupita e commossa del troppo amore di Dio per noi manifestatoci dal suo Figlio crocifisso, morto e risorto (cf Zc 12,10; Gv 20,27-28), che fa sì che dalle mie labbra non possa non uscire l’amorosa invocazione del santissimo e dolcissimo nome di Gesù, “il mio Signore e il mio Dio” (Gv 20,28)
“Io sono la porta”
È l’altra immagine suggestiva e forte di questo Vangelo. Gesù è la “Porta”. Bisogna passare attraverso Lui se si vuole essere liberi, perché è Gesù la “stretta porta che conduce alla vita” (Mt 7,14). Quanto spesso l’uomo si sente prigioniero: prigioniero dei propri limiti, prigioniero delle proprie debolezze, prigioniero della propria impotenza, prigioniero della morte. Solo Gesù può liberarci da questa condizione miserevole (cf Rm 7,24-25) e Lui non solo può, ma “desidera ardentemente” (Lc 22,15) farlo, Egli è venuto nel mondo per condurci a libertà, alla vita vera. “Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12; cf prima lettura), “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,5-6).
Egli ha offerto la sua vita perché tutti “abbiano vita in abbondanza”, vita che si ottiene solo “seguendo le sue orme” (seconda lettura), cioè imparando ad amare come Lui ci ha insegnato, offrendo la propria vita per noi. Egli “cammina innanzi a loro, e le pecore Lo seguono”. Che bella quest’immagine di Gesù battistrada trascinatore dell’umanità nuova che ha imparato da Lui ad amare dando la vita!
Possa quest’immagine di Gesù buon Pastore conquistare il cuore di tanti giovani in cerca di senso, in cerca di amore, in cerca della propria vocazione, possano conoscere Gesù e innamorarsi di Lui. Possano sentirsi toccati dal suo amore smisurato ed eccessivo e, in mezzo agli uomini e alle donne di oggi, sempre più simili a “pecore senza pastore” (cf Mc 6,34), decidere di permettere a Gesù buon Pastore di continuare, attraverso la loro persona, a commuoversi per questa nostra povera umanità affamata di verità e di amore, e quindi a nutrirla spezzando per essa il pane della sua Parola e del suo Corpo.
La Vergine Maria, a cui Giovanni Paolo II aveva affidato se stesso e la Chiesa, Madre di ogni vocazione, ci ottenga la gioia di vedere in mezzo a questo nostro mondo, una nuova fioritura di vocazioni alla vita religiosa e sacerdotale.
Amen.
j.m.j.
Quinta Domenica di Pasqua – Anno “A” Omelia
“Io sono la Via, la Verità e la Vita!”
Carissimi fratelli e sorelle,
in questo tempo pasquale siamo accompagnati dall’evangelista Giovanni che tocca con soavità, dolcezza e forza la nostra anima per muoverla all’amore verso il Signore Gesù. Giovanni scrive il suo Vangelo con questa intenzione: far sentire a chi legge il battito del cuore di Gesù come lo sentì lui nella Notte dell’Amore quando posò il capo sul petto di Lui (cf Gv 13,25).
Qual è il desiderio più profondo, vivo e pulsante del Cuore divino-umano di Gesù? Egli è “la Via, la Verità e la Vita”: è “la Via” che desidera essere seguita; è “la Verità” che desidera essere creduta; è “la Vita” che desidera germogliare, crescere ed espandersi in ciascuno di noi”!
Gesù è la Via!
Colui che è la meta di ogni cosa ci ha indicato la strada per poter essere raggiunto da tutti!
La meta è il Padre: tutto ha origine da Lui nell’Amore eterno per il Figlio e tutto torna a Lui nello stesso circuito d’Amore. Perché ritornassimo a Lui (cf Ger 3,14.22; Gl 2,12-13; Is 31,16; Ml 3,7; Lc 15,18), “il Padre ha mandato il suo Figlio” (1Gv 4,10.14). Lo ha mandato a cercarci (cf Gen 3,9; Lc 15,4; 19,10) “per strapparci da questo mondo perverso” (Gal 1,4), e “trasferirci nel suo regno” (Gal 1,13) con la forza potente del suo Amore che “ha riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5).
Sì, la salvezza dell’uomo non poteva avvenire che per la potenza dell’amore, infatti l’uomo non si smuove se non per amore. Dio non poteva e non può costringere l’uomo a ritornare a Lui perché se lo facesse distruggerebbe la sua libertà e allora ha usato la forza dell’amore, l’unica che può piegare la libertà dell’uomo senza violentarlo. Per questo il Padre mandò il suo Figlio, “il suo Figlio prediletto” (Mc 1,11 e paral.), “il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3) perché gli uomini si innamorassero di tanta bellezza e tanta bontà e decidessero di seguirLo e ritornare a Lui per la via dell’Amore.
E così Lui, il Figlio, si mostra a noi “Bello” [S. Agostino]
“Bello” quando cresce nel seno della Vergine sua Madre… “Bello” quando nasce lì a Betlemme, tra tanta povertà e umiltà… “Bello” quando piange nella mangiatoia… “Bello” quando la Mamma Lo allatta al suo seno… “Bello” quando gioca con gli altri bimbi di Nazareth… “Bello” quando lì lavora nella bottega di Giuseppe… “Bello” quando abbraccia la Vergine Madre lasciando il suo paese… “Bello” quando si mette in fila con i peccatori e si fa battezzare da Giovanni… “Bello” quando percorre in lungo e in largo la Palestina parlando a tutti del Padre e del suo regno d’amore… “Bello” quando caccia i demoni, guarisce gli infermi, risuscita i morti… “Bello” quando sta lì seduto al pozzo, affaticato e stanco e chiede da bere a me che ho una brocca vuota (cf Gv 4,7)… “Bello” quando “mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori” (Lc 5,30)… “Bello” quando si inginocchia a lavare i piedi agli apostoli… “Bello” quando suda sangue nel Getsemani… “Bello” quando “Gli mettono le mani addosso e Lo arrestano” Mc (14,46). “Bello” quando Gli sputano addosso, quando Lo vestono da re da burla, lo flagellano e l’incoronano di spine… “Bello” quando porta la croce per me… “Bello” quando Lo inchiodano al legno… “Bello” quando muore assetato d’amore (cf Gv 28,30)… “Bello” quando è sepolto inerme e freddo… “Bello” quando scende agli inferi a liberare Adamo ed Eva (cf 1Pt 3,19)… “Bello” quando risorge da morte… “Bello” quando ascende al Cielo e siede alla destra del Padre… “Bello” quando insieme al Padre “manda il suo Spirito nei nostri cuori” (Gal 4,6)…
Sì, Lui “è il più bello” e ci attira a sé con la sua bellezza (cf Gv 12,32) e immensa bontà e ci invita a seguirLo, Lui corre per primo, davanti a noi verso il Padre suo, perché noi Lo inseguiamo mettendo i nostri piedi sulle sue orme (cf 1Pt 2,2; Ct 1,4) e impariamo da Lui ad amare (cf Gv 13,34) facendo nostri i suoi sentimenti (cf Fil 2,5).
Non potendo costringerci ad amarLo, il Padre ha voluto conquistare il nostro cuore facendoci vedere e toccare un amore così grande (cf Ef 2,4) da conquistare ogni cuore e renderlo capace di staccarsi da tutti i legami (cf Fil 3,7-12) per correre libero incontro a Lui.
Gesù è “la Verità”
La Verità si è fatta carne per poter essere vista, toccata e creduta! Gesù è il Verbo, la “Parola eterna del Padre”. Cosa può mai desiderare la “Parola” che essere ascoltata, accolta e creduta? Un giorno alcuni chiesero al Signore che cosa dovessero fare per compiere le opere di Dio e Gesù rispose che “l’opera di Dio è credere a Colui che Egli ha mandato” (Gv 6,29). Chi di noi nella vita non ha subito l’amarezza di non essere creduto, di essere preso per bugiardo, di aver mentito mentre avevamo detto la verità? La sfiducia nella persona porta a non crederle. La fede è frutto di affidamento, di adesione fiduciosa alla persona di Gesù Cristo. Quanta gioia dà a Lui la nostra fede! Quanto ricerca dei cuori che credano in Lui! Quante volte fu amareggiato per la poca fede riposta in Lui (cf Lc 12,28; Mt 14,31; 16,8, 17,20; Gv 20,29) e come gioiva nell’incontrarsi con qualcuno che, invece, a Lui si affidava (cf Mt 15,28; Lc 7,9; Mc 5,34, ecc.). A chi crede in Lui, promette di vedere la gloria di Dio (cf Gv 11,40), assicura che “non avrà più sete” (Gv 6,35), che non “morrà in eterno” (Gv 11,26) e che non deve avere paura di nulla (vangelo odierno), infatti “tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4), essa “è lo scudo con cui possiamo spegnere ogni dardo infuocato del maligno” (Ef 6,16), è la chiave che ci apre la porta del Regno dei Cieli e ci permette di accostarci a Dio con fiducia (cf Eb 4,14-16) e così di “possedere la vita eterna” (1Gv 5,13). Chi, invece, non ha fede in Lui, “fa di Dio un bugiardo” (1Gv 5,10) e “sarà condannato” (Mc 16,16).
Gesù è “la Vita”
La Vita ha voluto morire perché noi vivessimo per sempre!
Gesù è la “Vita”: senza di Lui nessuna vita ha senso e, sarebbe preferibile non essere nati, piuttosto che vivere senza Gesù (cf Mc 14,21).
Gesù è la “Vita”:“tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3).
Gesù è la “Vita” che si dona, si consegna per amore, nessuno aveva il potere di togliere la vita alla “Vita” (Gv 10,18), consegnò la sua vita alla morte perché noi vivessimo per Lui (cf Gv 6,57) e qualunque cosa facciamo, “sia che vegliamo, sia che dormiamo vivessimo insieme con Lui” (1Ts 5,10), ormai Lui è “la nostra vita” (Col 3,4), per noi “il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21) e non siamo più noi a vivere, bensì Lui in noi (cf Gal 2,20): Lui in noi e noi in Lui per essere insieme nel Padre (cf Gv 14,20).
Carissimi fratelli e sorelle, “noi siamo la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di Lui che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (seconda lettura). Sì, il Padre ci ha chiamato a questo per mezzo del suo Figlio, unica nostra “Via, Verità e Vita” e quanto bisogno ha il nostro povero mondo di oggi e di sempre di ascoltare questa parola di salvezza e di conoscere a quale grande vocazione il Padre ci chiama in Gesù (cf Ef 1,4-5).
Chiediamo alla Vergine Santa, Regina e Madre degli Apostoli, che interceda per noi e ottenga la grazia di vedere moltiplicati nel mondo gli annunciatori del Vangelo, i ministri della Parola che salva, uomini pienamente e totalmente consacrati alla Parola, capaci di annunziarla a tutti con la forza di convinzione di chi annunzia quanto prima ha assimilato e gustato nell’intimo incontro d’amore con Lui nella preghiera (prima lettura).
Amen.
j.m.j.
Sesta Domenica di Pasqua – Anno “A” Omelia
“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti!”
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa domenica la lettura degli Atti degli Apostoli, che ogni anno ci accompagna lungo tutto il Tempo Pasquale, vuole introdurci nella grande attesa dell’evento fondante la Chiesa: la Pentecoste. Infatti, domenica prossima festeggeremo l’Ascensione e domenica l’altra concluderemo il Tempo Pasquale con la Solennità di Pentecoste. Per questo abbiamo letto di Pietro e Giovanni che si recano in Samaria a conferire il Sigillo dello Spirito Santo (cf 2Cor 1,21-22) a dei cristiani che avevano ricevuto solo il s. battesimo.
Continua poi, anche in questa domenica l’immersione in Giovanni che – come vi dicevo settimana scorsa – vuole comunicarci qualcosa della sua esperienza di intimità con il suo Maestro sul cui petto la Notte dell’Amore appoggiò il proprio capo. Così Giovanni ha scritto il suo Vangelo per farci cogliere i fremiti nascosti, i desideri profondi, i sospiri silenziosi del Cuore Divino-Umano di Gesù.
Siamo proprio nel contesto di quella “Notte” in cui Lui “li amò sino alla fine” (Gv 13,1), Giuda è uscito inghiottito dalle tenebre (cf Gv 13,30) e con Gesù sono rimasti gli Undici: sono i suoi intimi amici a cui apre il suo Cuore svelandone i segreti più reconditi (cf Gv 15,15).
Gli Undici hanno paura: sentono attorno il gelido freddo dell’odio che circonda il loro Maestro e il vento di morte che soffia attorno a Lui e quindi anche a loro. Gesù li rassicura, lo abbiamo sentito domenica scorsa – ricordate? – dice loro: “ Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Il capitolo 14 di Giovanni inizia con questo invito di Gesù ai suoi a non aver paura e si chiude rinnovando le stesse parole: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore!” (Gv 14,27).
Bisogna che queste frasi le teniamo presenti perché il nostro brano odierno è da esse incorniciato: “Non abbiate paura… Non abbiate paura e non sia turbato il vostro cuore”. È appunto perché i suoi non abbiano più paura che Gesù promette di far mandare dal Padre“un altro Consolatore”.
“Un altro Consolatore”, cioè una Persona amica che sostiene, difende, protegge, consola, aiuta, cioè Qualcuno che li difenderà, proteggerà, consolerà e aiuterà, cioè Uno che li amerà. Gesù dice che è “un Altro Consolatore”, un Secondo Consolare, un secondo Amico che ancora non conoscono, ma il Primo Lo hanno conosciuto bene! Il Primo Consolatore, il Primo Amico e loro Difensore è Gesù ed è proprio Gesù a mandarLo loro dal Padre, perché non si sentano “orfani”: “Io pregherò il Padre perché vi mandi un altro Consolatore che rimanga con voi per sempre. Perché i suoi amici Lo potessero ricevere Gesù deve andarsene: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16,7).
Gesù è “la Via” (Gv 14,6), “il Maestro” (Gv 13,13) che è venuto nel mondo per portarci al Padre, per mostrarci in Se Stesso la strada che ci porta a Lui. Per questo il Padre Gli ha dato un “Corpo” (Eb 10,5) perché noi potessimo vederLo, sentirLo, toccarLo (cf 1Gv 1,1) e ha attirato la nostra attenzione verso di Lui (cf Gv 6,44) innalzandoLo sul legno della croce (cf Gv 12,32) perché toccati, inteneriti e commossi da tanto amore riprendessimo la strada che porta a Lui (cf Lc 15,20) e stessimo sempre con Lui (cf Gv 14,3; Lc 15,31).
“È giunta l’ora” (Gv 12,23; 17,1) che il Maestro termini la sua lezione, è stata una lezione teorico-pratica: non sono state solo parole, c’era molto di più! Già in quella notte l’“Agnello” (Gv 1,29) si consegnò immolato nell’Eucaristia alla quale li preparò lavando loro i piedi (cf Gv 13,5). La lezione si chiude: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Gv 16,28). Una lezione che Gli è costata un “caro prezzo” (1Cor 6,20: 7,23)!
Gesù sta per lasciarli, ora loro devono dimostrare che hanno capito bene la lezione. L’orgoglio e il vanto di ogni buon maestro è quello di avere dei buoni alunni, e Gesù Maestro non è da meno e lasciando i suoi discepoli li invita e li incoraggia ad attuare quanto Lui aveva insegnato loro: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti”. Ecco il segreto del perfetto discepolo di questo Divino Maestro: l’amore! “Se mi amate…!”. Ma perché dobbiamo amarLo? Perché non possiamo farne a meno, infatti, noi Lo amiamo perché Lui ci ha amati per primo” (1Gv 4,19)!
E l’amore di Gesù per noi ha un duplice aspetto. Il primo è quello che ha fatto per noi: “si è fatto carne” (Gv 1,14), ha spogliato se stesso per rivestirci di Lui, è morto perché noi vivessimo per sempre (cf Fil 2,7-8; Gal 3,27; 1Pt 2,24-25; Gv 10,10-11; ecc.)
Il secondo è il dono dello Spirito Santo. Chi è lo Spirito Santo? È il suo Amore per il Padre! È l’Amore sostanziale del Figlio e del Padre. Nell’esperienza umana l’amore è un’aspetto della persona stessa, nell’esperienza di Dio, l’Amore è una Persona, Una delle Tre che sono l’Unico ed Eterno Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.
È proprio quest’Amore che ci lascia lasciandoci che ci permetterà di “osservare i suoi comandamenti”, Gesù ha non svolto una lezione ideale e astratta, la sua fu una lezione concreta e pratica e desidera che noi la realizziamo concretamente, per questo ci ha mandato lo Spirito Santo, Consolatore e Amico intimo e nascosto, appunto perché noi potessimo essere capaci di “osservare i suoi comandamenti. Senza di Lui nessuno può attuare gli insegnamenti di Gesù, perché la sua è una lezione troppo alta, troppo difficile, ardua (cf Mt 7,14), chi potrà mai realizzarla? Per questo il mondo non può né potrà mai capire Gesù: perché non ha ricevuto lo Spirito Santo! Solo alla luce dello Spirito Santo, cioè alla luce della di un Amore Divino forte e potente, possiamo capire il Vangelo di Gesù, possiamo capire quell’amore immenso e incredibile che Lo ha trafitto e ucciso, senza di Lui cosa possiamo capire? Guardate questo povero nostro mondo che rifiutandosi di accogliere il Vangelo di Gesù, va sempre più alla deriva (cf 1Cor 1,18-25) inseguendo l’effimero e riempiendosi di vuoto nell’assillante brama di avere sempre più cose, di godere e soddisfare sempre più le proprie voglie e pulsioni, di fare tutto quello che pare e piace. Il mondo tutto preso dal suo rincorre il nulla, il vuoto, il non-senso, questo mondo che “non può ricevere lo Spirito Santo”, non può! È incapace di riceverLo! Perché? Ce lo ha spiegato Gesù: “Perché non lo vede e non lo conosce”., perché Lui è “Spirito di Verità” che non può risiedere in chi vive nella menzogna.
Quando si è troppo presi dalle cose che si vedono e attraggano i nostri sensi e le nostre voglie…, quando ci fermiamo alla conoscenza dell’apparenza, della superficialità e non scendiamo mai nel profondo…, quando non andiamo mai oltre…, limitati e chiusi da un ristretto orizzonte terreno incapacitati a guardare verso altri orizzonti perché attratti e conquistati da ogni bellezza che passa…, come possiamo ricevere lo Spirito Santo? Anche se Lui venisse a noi, noi non ci accorgeremmo della sua invisibile e nascosta presenza.!
Occorre “rientrare in se stessi” (cf Lc 15,17) per ricevere lo Spirito Santo e iniziare così ad amare come Gesù, “osservando i suoi comandamenti”, amando come Lui ha amato noi (cf Gv 13,34). È in quest’esperienza d’amore che Lui si manifesta a noi, si fa conoscere da noi e ci introduce nell’intimità con il Padre, “Dio infatti è Amore” (1Gv 4,8.16) e solo amando possiamo conoscerLo!
Conoscere l’“Amore” significa scoprire che Esso è “presenza”, nel momento stesso in cui Gesù ci lascia per tornare “al Padre suo e Padre nostro” (Gv 20,17) promette l’invio dello Spirito Santo perché ci introduca nella comprensione e nell’esperienza della sua presenza invisibile e nascosta. Non ci ha lasciati orfani, tutt’altro! L’“Altro Consolatore” è il suo stesso Spirito che ci comunica la sua presenza viva in noi. Appunto perché noi potessimo cogliere questa sua presenza, Lui deve necessariamente andarsene: se ne va per rimanere!
Sì Gesù se ne è andato per rimanere per sempre con noi “fino alla fine dei secoli” (Mt 28,20), Ospite Divino dell’anima, Ospite nascosto, ma vivo e presente in noi. È Lui che dobbiamo adorare nei nostri cuori, è Lui che dobbiamo testimoniare (seconda lettura), è Lui che dobbiamo annunciare: “Gesù in noi speranza della gloria!” (cf Col 1,27).
La Vergine Maria, ci comunichi il suo spirito di fede perché possiamo cogliere in qualunque momento della nostra vita, nella gioia o nel dolore, nella luce o nell’oscurità, la consolante presenza del suo Figlio che con il Padre e nello Spirito Santo ha preso stabile dimora nei nostri cuori e ci comunichi anche il suo spirito d’amore perché possiamo dare a sì grandi Ospiti una degna accoglienza.
Amen.
j.m.j.
Sesta Domenica di Pasqua – Anno “A” Omelia
“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti!”
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa domenica la lettura degli Atti degli Apostoli, che ogni anno ci accompagna lungo tutto il Tempo Pasquale, vuole introdurci nella grande attesa dell’evento fondante la Chiesa: la Pentecoste. Infatti, domenica prossima festeggeremo l’Ascensione e domenica l’altra concluderemo il Tempo Pasquale con la Solennità di Pentecoste. Per questo abbiamo letto di Pietro e Giovanni che si recano in Samaria a conferire il Sigillo dello Spirito Santo (cf 2Cor 1,21-22) a dei cristiani che avevano ricevuto solo il s. battesimo.
Continua poi, anche in questa domenica l’immersione in Giovanni che – come vi dicevo settimana scorsa – vuole comunicarci qualcosa della sua esperienza di intimità con il suo Maestro sul cui petto la Notte dell’Amore appoggiò il proprio capo. Così Giovanni ha scritto il suo Vangelo per farci cogliere i fremiti nascosti, i desideri profondi, i sospiri silenziosi del Cuore Divino-Umano di Gesù.
Siamo proprio nel contesto di quella “Notte” in cui Lui “li amò sino alla fine” (Gv 13,1), Giuda è uscito inghiottito dalle tenebre (cf Gv 13,30) e con Gesù sono rimasti gli Undici: sono i suoi intimi amici a cui apre il suo Cuore svelandone i segreti più reconditi (cf Gv 15,15).
Gli Undici hanno paura: sentono attorno il gelido freddo dell’odio che circonda il loro Maestro e il vento di morte che soffia attorno a Lui e quindi anche a loro. Gesù li rassicura, lo abbiamo sentito domenica scorsa – ricordate? – dice loro: “ Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Il capitolo 14 di Giovanni inizia con questo invito di Gesù ai suoi a non aver paura e si chiude rinnovando le stesse parole: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore!” (Gv 14,27).
Bisogna che queste frasi le teniamo presenti perché il nostro brano odierno è da esse incorniciato: “Non abbiate paura… Non abbiate paura e non sia turbato il vostro cuore”. È appunto perché i suoi non abbiano più paura che Gesù promette di far mandare dal Padre“un altro Consolatore”.
“Un altro Consolatore”, cioè una Persona amica che sostiene, difende, protegge, consola, aiuta, cioè Qualcuno che li difenderà, proteggerà, consolerà e aiuterà, cioè Uno che li amerà. Gesù dice che è “un Altro Consolatore”, un Secondo Consolare, un secondo Amico che ancora non conoscono, ma il Primo Lo hanno conosciuto bene! Il Primo Consolatore, il Primo Amico e loro Difensore è Gesù ed è proprio Gesù a mandarLo loro dal Padre, perché non si sentano “orfani”: “Io pregherò il Padre perché vi mandi un altro Consolatore che rimanga con voi per sempre. Perché i suoi amici Lo potessero ricevere Gesù deve andarsene: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16,7).
Gesù è “la Via” (Gv 14,6), “il Maestro” (Gv 13,13) che è venuto nel mondo per portarci al Padre, per mostrarci in Se Stesso la strada che ci porta a Lui. Per questo il Padre Gli ha dato un “Corpo” (Eb 10,5) perché noi potessimo vederLo, sentirLo, toccarLo (cf 1Gv 1,1) e ha attirato la nostra attenzione verso di Lui (cf Gv 6,44) innalzandoLo sul legno della croce (cf Gv 12,32) perché toccati, inteneriti e commossi da tanto amore riprendessimo la strada che porta a Lui (cf Lc 15,20) e stessimo sempre con Lui (cf Gv 14,3; Lc 15,31).
“È giunta l’ora” (Gv 12,23; 17,1) che il Maestro termini la sua lezione, è stata una lezione teorico-pratica: non sono state solo parole, c’era molto di più! Già in quella notte l’“Agnello” (Gv 1,29) si consegnò immolato nell’Eucaristia alla quale li preparò lavando loro i piedi (cf Gv 13,5). La lezione si chiude: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Gv 16,28). Una lezione che Gli è costata un “caro prezzo” (1Cor 6,20: 7,23)!
Gesù sta per lasciarli, ora loro devono dimostrare che hanno capito bene la lezione. L’orgoglio e il vanto di ogni buon maestro è quello di avere dei buoni alunni, e Gesù Maestro non è da meno e lasciando i suoi discepoli li invita e li incoraggia ad attuare quanto Lui aveva insegnato loro: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti”. Ecco il segreto del perfetto discepolo di questo Divino Maestro: l’amore! “Se mi amate…!”. Ma perché dobbiamo amarLo? Perché non possiamo farne a meno, infatti, noi Lo amiamo perché Lui ci ha amati per primo” (1Gv 4,19)!
E l’amore di Gesù per noi ha un duplice aspetto. Il primo è quello che ha fatto per noi: “si è fatto carne” (Gv 1,14), ha spogliato se stesso per rivestirci di Lui, è morto perché noi vivessimo per sempre (cf Fil 2,7-8; Gal 3,27; 1Pt 2,24-25; Gv 10,10-11; ecc.)
Il secondo è il dono dello Spirito Santo. Chi è lo Spirito Santo? È il suo Amore per il Padre! È l’Amore sostanziale del Figlio e del Padre. Nell’esperienza umana l’amore è un’aspetto della persona stessa, nell’esperienza di Dio, l’Amore è una Persona, Una delle Tre che sono l’Unico ed Eterno Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.
È proprio quest’Amore che ci lascia lasciandoci che ci permetterà di “osservare i suoi comandamenti”, Gesù ha non svolto una lezione ideale e astratta, la sua fu una lezione concreta e pratica e desidera che noi la realizziamo concretamente, per questo ci ha mandato lo Spirito Santo, Consolatore e Amico intimo e nascosto, appunto perché noi potessimo essere capaci di “osservare i suoi comandamenti. Senza di Lui nessuno può attuare gli insegnamenti di Gesù, perché la sua è una lezione troppo alta, troppo difficile, ardua (cf Mt 7,14), chi potrà mai realizzarla? Per questo il mondo non può né potrà mai capire Gesù: perché non ha ricevuto lo Spirito Santo! Solo alla luce dello Spirito Santo, cioè alla luce della di un Amore Divino forte e potente, possiamo capire il Vangelo di Gesù, possiamo capire quell’amore immenso e incredibile che Lo ha trafitto e ucciso, senza di Lui cosa possiamo capire? Guardate questo povero nostro mondo che rifiutandosi di accogliere il Vangelo di Gesù, va sempre più alla deriva (cf 1Cor 1,18-25) inseguendo l’effimero e riempiendosi di vuoto nell’assillante brama di avere sempre più cose, di godere e soddisfare sempre più le proprie voglie e pulsioni, di fare tutto quello che pare e piace. Il mondo tutto preso dal suo rincorre il nulla, il vuoto, il non-senso, questo mondo che “non può ricevere lo Spirito Santo”, non può! È incapace di riceverLo! Perché? Ce lo ha spiegato Gesù: “Perché non lo vede e non lo conosce”., perché Lui è “Spirito di Verità” che non può risiedere in chi vive nella menzogna.
Quando si è troppo presi dalle cose che si vedono e attraggano i nostri sensi e le nostre voglie…, quando ci fermiamo alla conoscenza dell’apparenza, della superficialità e non scendiamo mai nel profondo…, quando non andiamo mai oltre…, limitati e chiusi da un ristretto orizzonte terreno incapacitati a guardare verso altri orizzonti perché attratti e conquistati da ogni bellezza che passa…, come possiamo ricevere lo Spirito Santo? Anche se Lui venisse a noi, noi non ci accorgeremmo della sua invisibile e nascosta presenza.!
Occorre “rientrare in se stessi” (cf Lc 15,17) per ricevere lo Spirito Santo e iniziare così ad amare come Gesù, “osservando i suoi comandamenti”, amando come Lui ha amato noi (cf Gv 13,34). È in quest’esperienza d’amore che Lui si manifesta a noi, si fa conoscere da noi e ci introduce nell’intimità con il Padre, “Dio infatti è Amore” (1Gv 4,8.16) e solo amando possiamo conoscerLo!
Conoscere l’“Amore” significa scoprire che Esso è “presenza”, nel momento stesso in cui Gesù ci lascia per tornare “al Padre suo e Padre nostro” (Gv 20,17) promette l’invio dello Spirito Santo perché ci introduca nella comprensione e nell’esperienza della sua presenza invisibile e nascosta. Non ci ha lasciati orfani, tutt’altro! L’“Altro Consolatore” è il suo stesso Spirito che ci comunica la sua presenza viva in noi. Appunto perché noi potessimo cogliere questa sua presenza, Lui deve necessariamente andarsene: se ne va per rimanere!
Sì Gesù se ne è andato per rimanere per sempre con noi “fino alla fine dei secoli” (Mt 28,20), Ospite Divino dell’anima, Ospite nascosto, ma vivo e presente in noi. È Lui che dobbiamo adorare nei nostri cuori, è Lui che dobbiamo testimoniare (seconda lettura), è Lui che dobbiamo annunciare: “Gesù in noi speranza della gloria!” (cf Col 1,27).
La Vergine Maria, ci comunichi il suo spirito di fede perché possiamo cogliere in qualunque momento della nostra vita, nella gioia o nel dolore, nella luce o nell’oscurità, la consolante presenza del suo Figlio che con il Padre e nello Spirito Santo ha preso stabile dimora nei nostri cuori e ci comunichi anche il suo spirito d’amore perché possiamo dare a sì grandi Ospiti una degna accoglienza.
Amen.
j.m.j.
Domenica della Misericordia – Anno “B” Omelia
“Pace a voi!”
Carissimi fratelli e sorelle,
ogni anno in questa Domenica dell’ottava pasquale ci incontriamo con questa pagina stupenda di Giovanni che ci racconta le prime due domeniche della cristianità in cui il Risorto appare agli Apostoli nel Cenacolo, la prima volta assente Tommaso, la seconda presente anche lui. È una pagina ricchissima di contenuti spirituali, cerchiamo, aiutati dallo Spirito Santo, di coglierne alcuni che possano fecondare di Vangelo vivo la nostra esistenza quotidiana. Vi propongo essenzialmente due punti di riflessione.
1. Primo punto: La Pace.
In così pochi versetti per tre volte il Risorto si rivolge ai suoi con l’augurio della sua pace.
La pace è il dono per eccellenza del risorto il quale è morto appunto perché ci fosse pace, anzi “Egli stesso è la nostra pace” e che ha realizzato la nostra pace sulla croce dove ha riconciliato in sé l’umanità e il Padre, “Egli è venuto ad annunziare la pace” (cfr. Ef 2,14-18).
Ma, attenti, come tutte le parole umane, anche questa, la pace, è soggetta ad equivoci e frainten-dimenti. Lui stesso ci aveva messo in guardia quando disse: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27). La sua è una pace diversa, particolare, spirituale che solo le persone spirituali la capiscono, l’apprezzano, la amano, la custodiscono. Paolo parla dell’“uomo naturale” e dell’“uomo spirituale” (cfr. 1Cor 2,14), l’uomo naturale è quello i cui criteri di vita sono naturali, terra terra, l’uomo spirituale è l’uomo che innalzato dallo Spirito Santo alla figliolanza con Dio vede le cose con una luce diversa, spirituale che l’uomo naturale non ha perché l’uomo naturale non ha la fede, noi sì, quella fede di cui ci parla oggi Giovanni nella seconda lettura, fede “che vince il mondo”(1Gv 5,4), che vince cioè anche i giudizi del mondo, i falsi valori del mondo, le illusioni e le vanità dell’uomo naturale che confida e fonda la sua esistenza solo sulle cose materiali.
La pace del mondo è l’effimera pace identificata con la soddisfazione e l’appagamento delle proprie voglie e desideri, è la pace psichica risultante dall’armonia di una esistenza totalmente protesa a ricercare e soddisfare se stessi, a perseguire ogni piccolo desiderio della propria affettività e sensualità. È una specie di appagamento sensuale-affettivo che spinge la persona a fuggire ogni sacrificio, ogni impegno pesante e scomodità per scegliere sempre il più facile e comodo. Quando la persona si trova tutta orientata a soddisfare se stessa in tutte le sue dimensioni, sia intellettiva che affettiva che sensuale, vive così un’armonia, certamente si tratta di un’armonia falsa, negativa, ma la persona trova in quell’armonia una certa unificazione di sé che le dà pace, è una pace psichica, sentimentale, è un senso di quiete e di benessere che non ha nulla a che vedere con la pace di Gesù che viene appunto a distruggere questa falsa armonia, falsa pace. Infatti la pace di Gesù passa attraverso la lotta, l’impegno faticoso, lo sforzo, tutti elementi ripudiati dalla pace falsa che gode nel disimpegno e nella soddisfazione di sé. Sotto questa particolare angolazione possiamo quindi anche leggere Mt 10, 34: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”.
La pace di Gesù non è quella del mondo, non è neanche lontanamente paragonabile a quella del mondo, la pace di Gesù è il dono dello Spirito strettamente legato alla remissione dei peccati, che ci perdona i peccati. La persona umana non può avere pace, pace in profondità, pace vera senza il perdono dei propri peccati. Il perdono dei peccati non è una riconciliazione della persona che si basa sulla cancellazione del ricordo del peccato, né si tratta di uno scusare il peccato minimizzandolo e coprendolo come fa una povera mamma nei confronti delle mancanze del figlio viziato. No, Dio non è una mamma che copre i nostri sbagli con la sua bontà. Il perdono di Dio è un atto creatore, si tratta di una nuova creazione, di una nuova, assolutamente nuova creatura che nasce come frutto del perdono, per cui il passato non gli appartiene più: “Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (Is 43,18-19; Ap 21,4). Per questo la domenica di Pasqua apparendo ai suoi apostoli Gesù Risorto “alita” su di loro, gesto che chiaramente richiama l’atto creatore di Dio che creò l’uomo alitando sul fango (cfr. Gen 2,7). Questo dunque è un gesto solenne, cosmico, ricchissimo di significato.
Gli Apostoli quindi ricevono questo dono dei doni da amministrare: “a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” e con questo dono frutto della sua morte e risurrezione il Risorto dona agli Apostoli la capacità di edificare la Chiesa, l’insieme dei riconciliati, di coloro che hanno ricevuto il dono della pace e che quindi vivono una dimensione diversa di vita, quella dei figli di Dio. Ecco perché il S.P. Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse la Domenica della Misericordia, quella misericordia che in questi ultimi tempi aveva trovato in s. Faustina uno piccolo, ma efficacissimo strumento, per farla conoscere al mondo
2. Secondo punto: L’incredulita’ di Tommaso.
Alcuni flash.
- Tommaso non era con gli altri e quando gli dissero che era venuto il Signore, non credette. L’allontanamento dalla comunità porta sempre come conseguenza un decadere della fede. La nostra fede ha bisogno per sostenersi della testimonianza degli altri.
- Dov’era Tommaso quando venne Gesù? Cosa stava facendo di così importante? quante volte la storia di Tommaso si ripete nelle nostre vite, nelle nostre assenze che ci fanno perdere l’espe-rienza dell’incontro con il Risorto.
- Tommaso vuole vedere per credere, non gli basta la testimonianza degli altri, vuole l’esperienza personale di mettere il suo dito nelle piaghe, l’avrà, il Signore gli concederà quest’esperienza e si mostrerà a lui, si manifesterà a lui perché possa credere. Quanto è vicino a noi questo Tommaso!
- Gesù lo rimprovera dolcemente perché ha chiesto un segno e proclama beata la fede che non chiederà di vedere! Siamo “beati” quindi se non chiediamo “segni” e ancor più lo saremo se non andremo a caccia di segni strabilianti, ci basti il segno della Chiesa, la Chiesa è il vero segno di Gesù. Quanto più la Chiesa si rifà al suo modello apostolico che risplende nella prima lettura di oggi tratta dagli Atti degli Apostoli (4,32ss) e si edifica come comunità di fratellanza e di amore, quanto più essa è segno di Gesù Risorto.
- Attenti però a sottovalutare la professione di fede di Tommaso. Pur avendo visto, la sua è una vera professione di fede, anzi è la più alta del Nuovo Testamento. Infatti in questa vita non ci è dato di vedere Dio senza morire (cfr. Es 33,20). La divinità non possiamo vederla in questa vita se non con la fede. Ed era sempre la fede quello che Gesù pretendeva dai suoi discepoli (cfr. Mc 4,40; 5,36; Gv 14,1; Lc 8,25; Gv 6,29). “Filippo, chi vede me vede il Padre, credi tu questo?” (cfr. Gv 14,8ss). Gli Apostoli non vedevano il Padre, vedevano Lui il Figlio, vedevano Gesù e venivano invitati a credere che vedendo Lui vedevano il Padre. L’umanità del Verbo incarnato è il segno visibile della sua divinità, ma la divinità in sé non si vede, non si vede, non si può vedere: neanche Tommaso vide la divinità di Gesù, vide il suo corpo risorto, non la sua divinità. La fede è vedere Dio senza vederlo, toccarlo senza toccarlo, per questo è sempre dono e lotta. Dono di Dio e lotta continua contro l’incredulità. Una fede che crede tranquillamente non esiste: la fede è sempre lotta contro l’incredulità.
- Tommaso vede il Risorto, ma non vede Dio, Dio non si può vedere, per questo la sua è la più alta testimonianza di fede del Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio!”
- Tommaso riconosce il Figlio di Dio nella fede vedendo il segno del suo Corpo Risorto. Gesù loda la fede di chi non ha bisogno di segni, ma questi segni sono un suo dono d’amore che viene incontro alla nostra debolezza e a tutti vengono dati segni sufficienti per credere.
- Ognuno di noi se legge la propria vita troverà diversi momenti in cui ha potuto mettere “la sua mano nel costato e il suo dito nel posto dei chiodi”, dobbiamo custodire gelosamente quei momenti nella nostra memoria e nel continuo ricordo per poterci rinnovare nella stessa professione di fede di Tommaso: “Mio Signore e Dio della mia vita!”.
La Vergine Maria, Donna della Fede, che conservò integra la fede della Chiesa nelle ore buie del sepolcro e mai dubitò, venga in soccorso della nostra poca fede perché anche noi possiamo con Tommaso e tutti i credenti proclamare e acclamare il suo Figlio Gesù come nostro Signore e nostro Dio.
Amen. j.m.j.
Terza Domenica di Pasqua – Anno “B” Omelia
“Per la grande gioia non potevano credere ”
INTRODUZIONE.
Il tempo della Pasqua, sette settimane che, partendo dal giorno della Risurrezione che abbiamo celebrato domenica 16 aprile, conducono fino al giorno della Pentecoste, che celebreremo domenica 4 giugno, è il momento più intenso dei giorni in cui la nostra vita si svolge. È in esso, in questo tempo, che ci è donato di vivere in modo unico l’esperienza centrale della nostra fede: l’incontro con Gesù Risorto. Rivivere la stessa esperienza vissuta dagli Apostoli, così come ci è descritta nel Vangelo.
È una grande, entusiasmante, splendida, bellissima esperienza! È un’esperienza “troppo bella”: “Per la grande gioia non potevano credere”!
È possibile vivere anche noi questa stessa esperienza, di incontro col Signore risorto? Oppure a noi è dato solo di leggere il racconto di una esperienza altrui? Nel suo nucleo essenziale, cioè appunto l’incontro col Signore, è dato anche a noi di rivivere la pagina del Vangelo.
Certamente: a noi non è concesso di vederLo fisicamente. Ma anche gli Apostoli incontrarono il Signore non a causa semplicemente del fatto che Lo videro fisicamente: quante persone Lo videro nel suo passaggio lungo le strade della Palestina, quanti Lo toccarono, eppure la propria esistenza non cambiò? Vi ricordate quell’episodio di quando Gesù era stretto e toccato dalla folla e Lui disse – meravigliando per questo gli Apostoli –: “Chi mi sta toccando?” (Lc 8,45), perché qualcuno Lo stavo toccando non fisicamente, ma Lo stava toccando dentro, nell’intimo ferendo il suo Cuore divino-umano con una fede sincera, genuina, bella. È il vederLo mediante la fede che ci fa incontrare Gesù Risorto!
LA FEDE NEL RISORTO
Chiediamoci: cos’è la fede? È qualcosa, magari, che si impara ad avere con molta fatica oppure la fede è qualcosa che c'è o non c'è? La risposta del Vangelo è questa: la fede è un dono del Risorto che chiama la persona ad un cammino graduale di approfondimento. Per questo nella vita di fede ci sono dei gradi, dei passaggi, dei livelli. Nell’incontro degli Apostoli con Gesù Risorto di cui ci ha parlato il Vangelo, possiamo intravedere questi livelli con i loro relativi passaggi.
PRIMO LIVELLO DELLA FEDE
Come comincia il Vangelo? Dove stanno gli Apostoli? In casa, chiusi, dopo quello che è successo hanno paura. Che cosa stanno facendo gli Apostoli? Che cosa piace spesso anche a noi? Stanno a chiacchierare, parlano. Parlano di quello che è successo alle donne quella mattina, a Maria Maddalena, a Pietro, ai due che sono tornati da Emmaus (cfr. Lc 24,33-35). Parlano di cose accadute ad altri, loro non sono coinvolti, sembra quasi che quelle cose non li tocchino, non li coinvolgano nella loro vita. Questo è il primo livello della fede, lo potremmo chiamare il livello delle parole, o se siamo un pochino meno buoni, lo dovremmo chiamare il livello delle chiacchiere, quello che si fa spesso in televisione o nei salotti, per esempio, quando si parla di Dio. Ed è possibile pure – purtroppo! – che al catechismo si chiacchieri, così anche è possibile che negli incontri dei gruppi delle comunità tante volte si chiacchieri ed io stesso qui, al momento dell’omelia, invece di offrire una meditazione profonda, potrei anch’io darvi solo delle chiacchiere.
Anche se parliamo di cose grandi e vere della fede, le nostre parole possono essere solo delle “chiacchiere” . Questo è il primo livello e si realizza quando noi siamo fuori da quelle cose di cui parliamo, quelle cose non ci toccano né l’anima, né la carne e nemmeno la pelle.
SECONDO LIVELLO DELLA FEDE
Mentre stanno a parlare, che cosa succede? Arriva Gesù e si fa vedere, fa vedere i segni della passione; si mostra e i discepoli non sanno se crederci o non crederci, sono dubbiosi, dicono: ma sarà Lui, non sarà Lui? Ma è un fantasma! Ma no è Lui! Questo è il secondo livello della fede: il livello della visione.
A tutti gli uomini sulla faccia della terra, Dio mostra qualche cosa per poterli spingere a credere. Ci sono dei segni per tutti nella vita, segni che ci avrebbero potuto davvero spingere alla fede, che magari ci hanno spinto davvero alla fede. Segni che a volte per altri sono insignificanti e invece per noi sono stati importantissimi. Basta una parola, una intuizione su qualcosa, una pagina del Vangelo o più spesso forse l'incontro con una persona particolare, particolare proprio in questo campo della fede. A tutti Dio mostra qualche cosa per spingerli alla fede.
Questo vedere però è mescolato ai dubbi: ma sarà vero, ma è proprio così, ma le cose belle che ci ha detto oggi il prete alla Messa, saranno proprio vere? Ma qui nella vita quotidiana le cose sono così diverse! Quelle cose sono tutti fantasmi, tutte fantasie, troppo belle per essere vere!
TERZO LIVELLO DELLA FEDE
Gesù si è accorto che quel segno della sua presenza non basta, quel farsi vedere non basta. I suoi amici sono pieni di dubbi. Che cosa fa allora? Dice loro: “Sentite amici miei, venite qui toccatemi! I fantasmi hanno un corpo, hanno le ossa? Anzi, sapete che vi dico: avete qualcosa da mangiare, mettiamoci a tavola, i fantasmi non mangiano! Mettiamoci insieme a tavola, mangiamo insieme!” E questo è il terzo livello della fede, è quello del rapporto corpo a corpo con il Signore.
Il Suo era un corpo glorioso che poteva entrare a porte chiuse, mangiare senza avere bisogno di mangiare e così via. Il corpo glorioso, è completamente diverso per le sue caratteristiche da quelle che ha il nostro corpo nella sua esistenza terrena, lungo questo pellegrinaggio verso il Cielo. E dov'è oggi il corpo glorioso di Cristo? Dove Lo incontriamo, dove Lo possiamo toccare, addirittura mangiare? Innanzi tutto nel sacramento dell’Eucaristia dove il Risorto ci dice “Venite sediamoci a tavola, toccate con mano quello che Io sono, fate esperienza della mia presenza in mezzo a voi”, ma anche nel sacramento della Confessione dove anche ci incontriamo con Gesù in persona che ci tocca e ci guarisce nella persona del suo ministro.
È bellissimo questo! Questo è uno dei motivi fondamentali per cui il cristianesimo è la religione vera: perché noi possiamo avere con Dio un rapporto corpo a corpo!
QUARTO LIVELLO DELLA FEDE
È il livello più profondo, quello in cui la fede diventa più vera ed è anche il livello più difficile. Che cosa fa Gesù durante quella Cena, l’ultima cosa che fa? Apre la mente dei discepoli alla comprensione delle Scritture. E qual è la comprensione delle Scritture? Che cosa dice loro Gesù, che cosa c'era scritto in tutta la Bibbia? C'era scritta questa unica cosa: “Bisognava che il Cristo patisse, che il Cristo soffrisse”. E questo verbo “bisognava” nel Nuovo Testamento c'è settantasette volte e la maggior parte delle volte è legato alla passione di Gesù: doveva soffrire, non si poteva fare altrimenti, non c'era un'altra strada per salvare l'umanità, era necessario.
Qual è dunque il quarto livello della fede? Quello in cui la fede diventa veramente fede è quello in cui impariamo a capire e a vivere la necessità e il valore infinito della sofferenza, del dolore. Quali sono le persone di fede che davvero ci toccano? Quelle che hanno imparato a vivere la sofferenza abbandonati tra le braccia di Dio. Quelle che anche nei problemi e nelle difficoltà, dentro hanno una pace infinita. Di solito queste persone io le riconosco dal fatto che sono quelle alle quali mi viene istintivo chiedere di pregare per me. Si sente, si tocca con mano chi di noi è a questo livello. Mi rendo conto che io stesso non sono capace di capire tutti i giorni il valore della sofferenza, delle ingiustizie, delle contraddizioni e non tutti i giorni riesco ad unirle alla sofferenza di Gesù Cristo con la consapevolezza che è questo ciò che redime me stesso e l'umanità intera.
CONCLUSIONE
Come vi dicevo all’inizio, queste sette settimane ci sono donate perché accada in noi questo incontro. In vista di che cosa? Ci sono incontri che cambiano la vita, interamente! Ha cambiato la vita degli Apostoli. Può cambiare veramente la nostra vita. In che senso? Le tre letture di oggi insistono tutte sul legame strettissimo fra Risurrezione di Gesù e perdono dei peccati. Ecco il cambiamento! Attraverso i s. sacramenti noi incontriamo il Risorto, e ci sono rimessi i nostri peccati. Con la sua Risurrezione, il Signore ci ha trasferiti dal potere delle tenebre nella luce del suo Regno (cf Col 1,13).
La celebrazione del mistero pasquale durante queste settimane ci fa capire che cosa è il cristianesimo e che cosa significa essere cristiani. Esso non è una dottrina religiosa e morale insegnataci da una grande personalità ormai defunta e passata: essere cristiani non significa apprendere questa dottrina e impegnarci a viverla! Il cristianesimo è incontrare Gesù Cristo crocifisso e risorto: al centro sta la sua Persona. Ed essere cristiani significa incontrare il Risorto e mettersi al suo seguito, nella vita quotidiana con la forza dello Spirito a lode e gloria di Dio Padre.
Ecco in questo il compito della Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, la quale ci sollecita, ci aiuta e ci facilita quest’incontro con la sua materna intercessione e con l’esempio della sua vita. Amen. j.m.j.
Quarta Domenica di Pasqua – Anno B Omelia
“ECCO IO SONO CON VOI TUTTI I GIORNI”
INTRODUZIONE.
Carissimi fratelli e sorelle, ogni anno nel cuore del tempo pasquale in questa quarta domenica la Chiesa in tutto il mondo prega per le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa.
Il Santo Padre nel suo consueto messaggio in questa giornata di preghiera per le vocazioni orienta la sua riflessione sulla chiamata come chiamata servizio, vocazione al servizio, sull’esempio di Gesù Servo del Padre che ha donato la sua vita per amore. Vocazione che si contrappone al clima culturale individualistico e edonistico che vede nel servizio una diminuzione della propria persona e non una sua realizzazione. Ecco noi cristiani siamo chiamati ad affrontare con slancio questa sfida culturale realizzando nelle nostre persone una effettiva donazione di amore al Padre che testimoni con la nostra gioia che la persona si costruisce e matura solo quando è capace di donarsi nell’amore di un concreto servizio agli altri sull’esempio di Gesù Servo con la forza del suo Spirito.
A conclusione del suo messaggio il Santo Padre si rivolge a Maria, l’Umile Serva del Signore,
Maria Serva della Parola all’annuncio dell’Angelo,
Maria Serva del Figlio a cui donò la sua vita,
Maria Serva della Redenzione accanto al Servo e Agnello sofferente,
Maria Serva della Chiesa nella Pentecoste, perché aiuti i nostri giovani a comprendere come solo servire Dio può appagare quella sete di vita vera che è presente nel cuore di tutti.
IL VANGELO DI OGGI: GESÙ BUON PASTORE
Ogni anno in questa domenica la Chiesa nella Liturgia della Parola spezzetta – nei tre anni A – B – C – il decimo capitolo di Giovanni, il capitolo di Gesù Buon Pastore.
Parlando di questo meraviglioso capitolo di Giovanni così ricco di messaggio spirituale penso che sia prima di tutto opportuno mettere in risalto come questa analogia del BUON PASTORE non sia un’originalità di Gesù, ma sia una Sua appropriazione e sviluppo di quella commuovente figura biblica del Buon Pastore che sia i Salmi (23,1; 80,2) che Isaia (40,11), Geremia (31,10), Zaccaria (1,9) e – soprattutto – Ezechiele (34) avevano già proclamato nel VT.
Quando gli apostoli e ogni ebreo che ascoltava Gesù Lo sentì parlare di sé come il “Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore” non poteva non pensare a questi Scritti Sacri – in particolare a Ez 34 – in cui il profeta parla di Dio d’Israele come un Buon Pastore che ama le sue pecore, le raccoglie, le difende, le cura con affetto e va in cerca di quelle smarrite.
Autoproclamandosi il “Buon Pastore” Gesù quindi implicitamente proclama di essere il Dio di Israele, non a caso proprio in questa circostanza Egli affermerà solennemente che nessuno può toglierGli la vita, ma che è Lui che la offre per poi riprendersela quando vuole.
Detto questo vediamo, con l’aiuto dello Spirito Santo, di entrare in profondità in questa parte del capitolo decimo di Giovanni che la Chiesa oggi ci dona come cibo spirituale per la nostra anima.
Gesù ci dice che Lui è il “Buon Pastore” perché dà la vita per le sue pecore e si contrappone quindi alla figura del “mercenario” a cui importa poco delle pecore, non dà la vita per esse, mentre Lui sì.
Com’è bello soffermarsi in preghiera, in contemplazione davanti a Gesù che fa a ciascuno di noi questa solenne dichiarazione d’amore: “Io offro la mia vita per te” perché “ti amo di amore eterno” (Ger 31,3), “non c’è un amore più grande di questo: dare la vita per chi si ama”(Gv 15,13).
Vedete, se un semplice uomo può conquistare il cuore di una donna a tal punto che questa lasci tutto per seguirlo, non potrà il Signore Gesù, che è Dio, conquistare ancora oggi il cuore di tanti, uomini e donne, con la forza di questa sua dichiarazione d’amore, affascinarli e sedurli con la forza di un amore che è troppo grande per poter essere ricambiato abbastanza?
Carissimi fratelli e sorelle, bisogna che poniamo attenzione a questa dichiarazione d’amore di Gesù tutti, tutti. Il nostro essere cristiani infatti non può spiegarsi semplicemente come un fatto culturale o sociale o come l’assenso del nostro giudizio ad una tavola di valori e di criteri di vita. L’esser cristiano non può avere altre motivazioni che la risposta a questa dichiarazione d’amore di Dio in Gesù rivolta a tutti e ciascuno.
È in questo orizzonte di risposta che poi si innesterà quella risposta totale, assoluta e piena che alcuni sono chiamati a dare nella donazione sacerdotale o religiosa.
Gesù, è chiaro: “Io conosco le mie pecore ed esse mi conoscono, come il Padre conosce me e io conosco Lui”, vedete, non si tratta di una conoscenza intellettuale e esteriore, Lui ci conosce e si fa conoscere di una conoscenza intima, amorosa. Perché non ci siano equivoci Gesù paragona la conoscenza reciproca nostra con Lui con quella che Lui stesso ha con il Padre. Qui si apre un campo di contemplazione ricchissimo: come Gesù conosce il Padre? Tutti i Vangeli non sono che una solenne dichiarazione d’amore del Figlio al Padre, al Padre che Lui ama (cfr. Gv 4,31), dal Quale tutto riceve (cfr. Gv 13,3) e con il Quale è una cosa sola (cfr. Gv 10,30) e dichiarazione d’amore del Padre al Figlio che Egli ama (cfr. Gv 3,35), al quale ha dato ogni cosa e ogni potere (cfr. Gv 3,35; 5,27; 17,2) del quale Egli si compiace (cfr. Mc 1,11; Mt 12,18; 17,5).
Come non possiamo stupirci e commuoverci per il fatto che Gesù assimili la nostra reciproca conoscenza con Lui con quella che Egli ha con il Padre? Ma interroghiamoci seriamente su questo punto: “Io conosco le mie pecore ed esse mi conoscono”. Vedete Giovanni ha scritto il suo Vangelo non per coloro che non conoscevano Gesù. Marco e Luca scrivono il Vangelo per far conoscere Gesù ai pagani, Matteo per aiutare la catechesi di chi veniva battezzato, Giovanni scrive il suo Vangelo perché coloro che sono già stati catechizzati e vivono nella Chiesa entrino in un rapporto più intimo con Gesù e in Lui con il Padre. Questa è la finalità di Giovanni, farci entrare in intimità con Gesù, con Gesù che ci conosce intimamente (cfr. Gv 2,25) e che si offre alla nostra conoscenza come Amico nostro (cfr. Gv 15,15).
Interroghiamoci dunque sul livello di intimità che viviamo con Gesù, solo nel Quale abbiamo la salvezza (Ia lettura) e nel Quale siamo diventati veri figli di Dio (IIa lettura). Sarà proprio nell’incontro intimo con Gesù, nell’esperienza esistenziale del Suo donarmi la vita che non potrò non sentire il fascino e la bellezza di un amore che sa donare la vita, di un amore che sa assumere la morte per dare la vita.
Gesù Maestro d’Amore questo ci insegna nell’intimo, ci insegna ad amare donando la vita. Dopo il peccato originale non è possibile alla persona umana amare nella verità senza donare la vita. In seguito al peccato originale la persona umana era incapace di amare nella verità perché incapace di donare la vita, Gesù ci salva dandoci la sua capacità di donare la vita e quindi di amare nella verità.
La tentazione che incalza sempre l’umanità di tutti i tempi è quella di credere possibile la realizzazione della persona umana nella felicità e nella gioia ricercando e vivendo un amore senza donare la vita, un amore senza fatica, senza responsabilità, senza sacrificio, senza donazione, un amore dove solo si riceve senza dare.
A questa grande illusione Gesù risponde insegnandoci a donare la vita. Per far questo Lui, Dio, ha voluto farsi uomo per poter morire. In quanto Dio non poteva insegnarci ad amare dando la vita, allora ha voluto assumere la nostra natura umana per insegnarci come si ama e si ama dando la vita.
Giustamente Gesù, nel brano evangelico odierno, ci fa notare che “nessuno poteva togliergli la vita”, nessuno poteva e può uccidere Dio, ma che è Lui che “offre la vita per riprendersela di nuovo”.
No, – lo abbiamo già detto nelle omelie precedenti – non furono i chiodi ad uccidere Gesù, ma l’Amore che porta per noi, quello Lo fece morire, morì d’Amore! Per questo le guardie non gli spezzarono le gambe come agli altri due (cfr. Gv 19,32-34) e Pilato se ne stupì fortemente (cfr. Mc 15,44). Chi avrebbe potuto infatti uccidere Dio?
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, noi che abbiamo conosciuto Gesù, noi che siamo stati istruiti da Gesù, noi che abbiamo conosciuto il suo amore, siamo chiamati a testimoniare a questo mondo che non sa amare, la forza, la bellezza, il fascino, il profumo di un amore che sa donare la vita, come? È molto semplice. Come Lui ha assunto la nostra natura umana per poterci donare la vita, così noi – per amore Suo e nel Suo Amore – siamo chiamati per la gloria del Padre e per la salvezza delle nostre persone ad assumere tutte le pesanti realtà della nostra esistenza quotidiana, le nostre impotenze, le nostre fatiche e i pesi della vita, le solitudini, malattie, dolori, disgrazie, incomprensioni, prove, per donare la vita e quindi AMARE.
Qui è tutta la forza del Risorto, forza che Egli ci comunica nei sacramenti, la capacità di trasformare le nostre situazioni di morte in vita donata e quindi in AMORE. Non esiste, dunque, né può esistere nella concretezza della nostra esistenza di figli di Dio, una situazione di morte tale, una prova così grande, una croce così pesante che possa schiacciarci, infatti quello stesso e identico Amore che ha tenuto stretto Gesù alla croce “è stato riversato nei nostri cuori”(Rm 5,5) e quindi è data a tutti noi la possibilità di amare come Gesù, dando la vita per amore sulla croce e senza scendere da essa.
Carissimi fratelli e sorelle, concludo, a questa concretezza di Amore il Padre chiama ciascuno di noi in Cristo perché il mondo creda, e il mondo crederà, sì crederà, quando ci vedrà amare come ci amò Gesù dando la vita, il mondo aspetta solo questo per credere, non lasciamolo aspettare troppo!
Amen.
j.m.j.
Quinta Domenica di Pasqua – Anno B Omelia
“Io sono la vite, voi i tralci”
Carissimi fratelli e sorelle,
domenica scorsa il Signore Gesù ci ha parlato di sé come il “Buon Pastore” che ama e conosce le sue pecore e dà la sua vita per ciascuna di esse e da queste pecore è conosciuto, seguito e amato. Abbiamo visto come l’accento veniva messo in relazione a questa conoscenza reciproca, non semplicemente intellettuale e superficiale, bensì amorosa, profonda e intima. Inoltre, perché noi potessimo capire bene a quale intimità divina siamo chiamati, Gesù paragonò la sua intima e reciproca conoscenza del Padre con quella che ciascuno di noi, nella fede, è chiamato a realizzare con Lui: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (Gv 10,14-15).
Ma un’immagine sola non basta per farci comprendere chi è Gesù e quale relazione profonda ciascuno di noi è chiamato a realizzare nella fede. Infatti i MISTERI DELLA NOSTRA FEDE non possono essere mai chiusi in categorie e definiti ermeticamente, perché in quanto appunto MISTERI, trascendono sempre ogni nostra umana categoria. Ecco allora la necessità delle analogie, delle figure, dei simboli per poter cogliere e penetrare il MISTERO. Ogni simbolo o figura o analogia ci dirà qualcosa del MISTERO senza però rinchiuderlo e inscatolarlo ed esaurirlo.
E così, Gesù dopo averci parlato di sé come il “Buon Pastore” e di noi come “le sue pecore”, oggi ci parla di sé come “la vera Vite” e di noi come “i suoi tralci”.
Come abbiamo fatto domenica scorsa in riferimento al Buon Pastore, chiediamoci anche in questa domenica cosa riecheggiasse nei cuori di chi ascoltava Gesù quando Egli parlava di sé come della “vera Vite”. Vedete, anche questa figura della vigna e della vite è prettamente biblica. Il Salmo 80 che inizia con un’invocazione a Dio “Pastore d’Israele” continua parlando di Dio come “Vignaiolo” che ha “divelto una vite dall’Egitto e l’ha trapiantanta altrove” e tutto il popolo d’Israele viene rappresentato da questa vite che “ha esteso i suoi tralci fino al mare”.
Tra i profeti, Isaia (5,1-7), Geremia (2,21; 8,13; 12,10) e Naum (2,2) parlano della “Vigna d’Israele”. In particolare, quando Gesù diceva “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”, i suoi ascoltatori, Giudei imbevuti di Sacra Scrittura, non potevano non ricordare all’accorato “Cantico d’amore per la vigna” di Isaia 5:
“Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica. Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica?”
Lo stesso concetto esprimerà Geremia 2,21
“Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?”
Gesù quindi autoproclamandosi la “vera Vite” ci dice, in altre parole, che in Lui si realizza quel desiderio del Padre che fu deluso dai nostri progenitori (cfr. Gen 2,17) e dal suo popolo che, pur amato, non seppe corrispondere all’amore di Dio. Finalmente il Padre può essere soddisfatto! Il Padre ritorna finalmente a compiacersi dell’opera delle sue mani, ora può ritornare a guardare l’opera del suo amore creatore e ritornare ad esclamare di gioia: “Veramente, è cosa molto buona!” (Gen 1,31), “Tu sei il mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22).
Detto questo, torniamo al nostro Vangelo:“Io sono la vite, voi i tralci”, con questa immagine Gesù ci dice qualcosa che l’immagine del “Buon Pastore” non includeva: L’ESSERE IN. Pecore e Pastore rimandano a amore, conoscenza intima, cammino, guida, pascoli eterni, ma non rendono l’aspetto del MISTERO DEL NOSTRO ESSERE IN, NOI IN LUI E LUI IN NOI: “Il Padre è in me e io nel Padre” (Gv 10,38),“Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11), “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola” (Gv 17,20).
L’analogia della vite e dei tralci ci rimanda a questo ESSERE IN, si tratta di un’intimità trascendente che supera ogni altra possibile intimità di relazione: come Lui è nel Padre e il Padre è in Lui, noi siamo in Lui e Lui è in noi, e poiché Lui è nel Padre e il Padre è in Lui, anche il Padre è in noi e noi nel Padre: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,22). Questo reciproco dimorare l’uno nell’altro viene espresso da Giovanni nel verbo greco “menein”, “rimanere” così tanto spesso ripetuto nel brano odierno.
Carissimi fratelli e sorelle, qui siamo nel cuore della spiritualità della Chiesa, non mi stancherò mai di gridarlo dappertutto: noi non siamo cristiani perché conveniamo nella bontà di una certa dottrina e di una certa tavola di valori, ma noi siamo cristiani perché abbiamo conosciuto l’amore di Gesù, abbiamo creduto in questo “Grande Amore” (Ef 2,4) e vogliamo ricambiarlo.
Ricambiare questo “Grande Amore” non è cosa a noi possibile staccati da Gesù, fuori di Gesù, lontani da Gesù. Senza Gesù noi non possiamo che produrre “uva selvatica”, senza Gesù noi non possiamo fare nulla di buono, di valido, di vero, di bello. È solo in Lui, in Gesù, che la nostra esistenza diventa buona, valida, vera, bella, produttiva di frutti, significativa. Senza Gesù nulla ha significato, in Gesù tutto trova un significato, anche il passato di frustrazioni o di sbagli, di debolezze, di peccato in Gesù trova un nuovo significato di redenzione e di amore.
E se siamo in Gesù e Gesù è in noi la nostra vita non può non dare frutto perché invasa, immersa, assorbita, travolta dall’Amore di Dio che “viene riversato continuamente nei nostri cuori” (Rm 5,5). Venendo infatti in noi con il Padre suo, Gesù insieme al Padre ci coinvolge nel Loro reciproco Amore che viene da Loro Due spirato nei nostri cuori: il Padre e il Figlio si amano in noi e attraverso noi e noi così veniamo a partecipare dell’effusione del loro Amore Trinitario: tutto l’Amore del Padre verso il Figlio e tutto l’Amore del Figlio verso il Padre viene “riversato in noi” per cui diventiamo capaci di amare come il Padre ama il Figlio e come il Figlio ama il Padre: riceviamo una potenza infinita d’Amore, questa potenza infinita d’Amore è lo Spirito Santo!
Ma, voi direte: “Padre, che belle parole che dite…, ma la vita è così diversa! Noi ci scontriamo ogni giorno con le nostre debolezze e mancanze, con le nostre quotidiane incapacità d’amare. Se lei dice questo come mai noi ogni giorno viviamo il mistero della nostra debolezza?”
Avete ragione a farmi questa domanda, cercherò di rispondervi, ma non è facile. Le motivazioni sono essenzialmente tre.
La prima è la nostra mancanza di FEDE e la superficialità della nostra fede, non crediamo seriamente a Dio e al suo Figlio. Ecco, vedete, avere fede non significa semplicemente credere in Dio e, tanto meno, come spesso purtroppo ho sentito dire da persone che si dicono cristiane, credere in Qualcosa. No, anche il diavolo crede in Dio, sa benissimo che c’è (cfr. Gc 2,19) eppure non ha fede salvifica. Avere fede in Dio significa credere che Lui c’è, sì, e che mi ama: “Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16).
La seconda è la nostra mancanza di SPERANZA. Credere che Dio mi ami implica infatti anche la certezza che Egli voglia fare “in me grandi cose grandi e belle” (Lc 1,49). Ho questa fiducia nella potenza infinita dell’Amore di Dio per me che in me desidera fare cose belle e grandi? Ho questa confidenza nell’Amore di Dio che per me “ha progetti di pace e non di sventura, per concedermi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11)?
La terza è la nostra mancanza di AMORE. Poiché “noi amiamo, perché Egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19), la nostra capacità di amarLo deriva dalla nostra capacità di accogliere il Suo Amore. In altre parole noi amiamo poco Dio perché non permettiamo a Lui di amarci in profondità. Se permettessimo a Dio di amarci come Lui desidera amarci, “nulla sarebbe impossibile a Lui” (Lc 1,37) in noi come “nulla fu impossibile” a Lui in Maria. Per questo la Chiesa ripete con Paolo: “Lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20), cioè: “Lasciatevi amare da Dio. Permettete a Dio di amarvi”.
Non è facile permettere a qualcuno di amarci, perché quell’amore che ci manifesta ci fa sentire in obbligo, ci rende debitori e noi non vorremmo avere debiti con nessuno, neanche con Dio. Noi vorremmo sì che Dio ci amasse, ma dopo di noi, come risposta al nostro amore, vorremmo essere creditori dell’amore di Dio e invece il suo è un amore assolutamente gratuito per cui solo i poveri, solo gli umili, solo le persone piccole sanno riconoscere e accettare il Suo Amore e diventano così capaci di amare come Lui ama, e Lui ama gratis!
Accettare e accogliere l’Amore di Dio per noi significa accettare e accogliere la nostra povertà e la nostra incapacità di amarLo senza il Suo Amore. Significa accettare e accogliere il fatto che Dio non mi dica “Io ti amo perché sei stato bravo” oppure “Io ti perdono perché te lo sei meritato”, ma ci dica semplicemente “Io ti amo d’amore eterno” (Ger 31,3). Accettare l’amore gratuito di Dio non è facile, per questo Pietro non voleva farsi lavare i piedi da Gesù (cfr. Gv 13,8). Finché anche noi non permetteremo a Gesù di lavarci i piedi, non una volta, ma ogni giorno, non saremo capaci di portare frutti d’amore nella nostra vita.
E, concludo, non possiamo terminare questa omelia sulla “vite e i tralci” senza ricordare come questo nostro “essere in” Gesù che è iniziato nel nostro Battesimo, trovi nell’Eucarestia la sua maturazione e pienezza. Infatti, carissimi fratelli e sorelle, come il tralcio secco viene gettato via e non serve ad altro che ad essere bruciato perché la linfa vitale non circola in esso, così noi senza Gesù Eucarestia siamo secchi, senza vita, morti, non possiamo dare frutti di vita vera:
“Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita……… chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Gv 6, 53.56-57
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, ci aiuti a inserirci sempre più nel mistero d’amore del Figlio suo che ha donato la sua vita ed è risorto perché noi non vivessimo più per noi stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi (cf Rm 14,8-9)
Amen. j.m.j.
Sesta Domenica di Pasqua – Anno B Omelia
Il nuovo comandamento
Prima Lettura: At 10,25.27.34-35.44-48
Seconda Lettura: 1Gv 4,7-10
Dal Salmo 97
Acclamazione al Vangelo: Gv 14,23
Vangelo: Gv 15,9-17
Carissimi fratelli e sorelle,
siamo giunti alla sesta Domenica di Pasqua e siamo accompagnati, come sempre in questo tempo, da Giovanni, Apostolo ed Evangelista, che ci illumina con il suo Vangelo. Oggi continuiamo la lettura del capitolo 15 iniziato domenica scorsa con l’allegoria della “Vera Vite e dei suoi tralci” e della sua Lettera dell’Amore. Nelle poche righe che abbiamo ascoltato, Giovanni, tra Vangelo e Lettera, ha ripetuto 18 volte la parola “amore” o il verbo “amare”, invitandoci così a rimanere nel Suo amore. La nostra riflessione odierna non può quindi non essere orientata da questo amore approfondendo così anche quanto abbiamo detto nelle domeniche passate su questo argomento (e non è stato poco!)
Nella prima lettura abbiamo ascoltato il racconto di come Pietro comprende che la nuova realtà della Chiesa fondata dal Risorto è qualcosa non di riservato a qualcuno, popolo o gruppo, bensì Essa è aperta ad ogni uomo. Sappiamo come questa apertura al mondo pagano sia stata tanto sofferta e combattuta negli inizi della cristianità, si tratta del passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento.
Oggi vogliamo chiederci, di fronte a questa parola così ripetuta da Giovanni qual è l’originalità cristiana del comandamento dell’amore in confronto a quell’amore che veniva comandato dal Vecchio Testamento. Infatti tutte le leggi e i comandamenti del Vecchio Testamento, sappiamo bene, potevano e possono essere riassunte semplicemente ed efficacemente da quell’unico riassuntivo: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso" – Lc 10,27.
Gesù è venuto poi non per abolire la Vecchia Legge di Dio: “Non son venuto per abolire, ma per dare compimento” – Mt 5,17. Gesù è venuto per dare “compimento”, cioè realizzazione piena di quelle indicazioni amorose del Padre per i suoi figli che sono espresse nei suoi Dieci Comandamenti.
I Dieci Comandamenti erano la base costitutiva del vecchio popolo di Dio che si riconosceva come tale in quanto viveva quelle norme ricevute da Dio. Vivere i comandamenti di Dio per il popolo ebreo non era semplicemente un’osservanza giuridica esteriore, era un fatto d’amore. Con Dio aveva infatti un rapporto di amore: era stato scelto da Dio, amato da Dio e doveva rispondere a questo amore. Il Signore stesso attraverso Mosè propone al popolo quest’Alleanza libera d’amore: il popolo è libero di scegliere se amare o no il suo Dio, quegli uomini erranti nel deserto diverranno “popolo di Dio” accettando la sua offerta d’amore sulla base dell’esperienza di essere stati da Lui liberati dalla schiavitù (cfr. Es 24,1-11). Accettando l’offerta d’amore di Dio, il popolo s’impegna a ricambiarLo osservando e vivendo i suoi comandamenti che abbiamo riassunto in quell’unico “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) e “il prossimo come te stesso”(Lv 19,18)
Ora cerchiamo di andare in profondità. Se l’osservanza dei comandamenti di Dio significa l’espressione concreta dell’amore dell’uomo per Dio e per il prossimo e se Gesù nel Nuovo Testamento non è venuto ad abolire nulla di questi comandamenti, ma continua ad invitarci ad osservarli, quale sarà lo specifico cristiano? Quale sarà la pecularietà del popolo del Nuovo Testamento? Questa pecularietà non potrà consistere nel comandamento dell’amore in sé perché l’amore era già comandato dal Vecchio Testamento, come è stato detto.
Dunque una vita cristiana improntata tutta sul dovere dell’amore verso Dio e verso il prossimo espresso dall’osservanza dei Dieci Comandamenti, non ha nulla di specificamente cristiano. L’insistenza sul dovere di osservare i comandamenti ci accomuna non solo agli Ebrei che sono fermi al Vecchio Testamento, ma anche ad ogni uomo che porta scritta nel cuore quella legge di Dio di amarLo e di amare tutti. Viviamo quindi il rischio oggettivo di dirci di essere membri del popolo del Nuovo Testamento e di non avere nulla di nuovo e di diverso da coloro che non hanno accolto Gesù o non lo conoscono. Forse sarà anche per questo perché tanti cristiani – purtroppo! – parlano della fede come un “credere a Qualcosa” e non tanto in “credere in Qualcuno che mi ha amato e dato se stesso per me” (cfr. Gal 2,20).
Lo specifico, dunque, che fa di me un cristiano, che fa di ciascuno di voi dei cristiani non sarà quindi il fatto che ciascuno di noi osserva i Dieci Comandamenti così come li osservano gli Ebrei e molta brava gente nel mondo che vive la legge di Dio conosciuta nel cuore, no, non è questo il nostro specifico.
Il nostro specifico cristiano è pensare, vivere, relazionarsi, amare come Gesù ha pensato, vissuto, si è relazionato, ha amato. Proprio nel Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù ci ha detto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati” (Gv 15,12): Amare come Lui, amare come Gesù! Il contesto da cui è stato estratto questo brano è quello immediatamente successivo all’Ultima Cena. In questa circostanza Gesù parlerà espressamente ai suoi Apostoli di un “suo comandamento” che chiama anche “nuovo”: “Amare come Lui ci ha amati”. Gesù stesso è quindi la novità del “nuovo comandamento”, non si tratta cioè di conoscere e mettere in pratica delle norme, ma di conoscere una Persona, Gesù Cristo, e impegnarsi a vivere in quelle linee su cui si è distesa la sua vita terrena: “Come Lui ci ha amati!”.
Ora, possiamo identificare quel “come”, cioè quella modalità peculiare di “come” Gesù ci ha amato in quel “compimento” della legge mosaica realizzato da Gesù e di cui Lui stesso – come abbiamo visto – ne ha parlato: “… sono venuto per dare compimento” (Mt 5,17). Dunque noi suoi seguaci siamo chiamati a realizzare nelle nostre persone questo compimento perfetto dei comandamenti del Padre sulla scia di Gesù. Per cui, scrutando la vita di Gesù per cogliere le modalità di questo suo compimento perfetto della volontà del Padre vediamo come esso si manifesta in tutto ciò che Egli ha fatto, detto, subito, vissuto, esperimentato, ma in modo particolarissimo si manifesta con luce sfolgorante nella sua morte di Croce.
Gesù crocifisso è l’espressione più alta di ogni possibile amore al Padre, perché Gesù è mandato dal Padre a morire sulla croce, volontà divina che farà tremare e sudar di sangue l’umanità di Gesù, vero Dio e vero uomo che nell’Orto degli Ulivi si è immerso liberamente e pienamente in quel calice amaro offertoGli dal Padre nonostante che Lui chiedesse che passasse lontano da sé (cfr. Lc 22,39ss).
Gesù crocifisso è l’espressione più alta di ogni possibile amore all’umanità perché ciò che inchioda Gesù a quella croce non è solo l’amore per il Padre, ma anche, o meglio in quell’amore per il Padre, l’amore per tutta l’umanità, tutta e ciascun membro di essa. Gesù, infatti, “vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2), Gesù “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Se è così, ed è cosi, ogni cristiano che vuole essere tale non solo di nome o perché ha ricevuto qualche Sacramento, deve sforzarsi per quanto può di conoscere Gesù in profondità, la sua mentalità, i suoi modi di ragionare, di relazionarsi con gli altri, il suo modo di vivere e di essere. Senza questa conoscenza viva di Gesù, della sua Persona, dei suoi affetti, dei suoi sentimenti (cfr. Fil 2,5) e soprattutto senza una conoscenza profonda di quell’amore che Lo ha inchiodato alla croce, nessuno può dirsi in verità suo discepolo.
Questo è l’impegno unico che abbiamo preso quando abbiamo ricevuto il Battesimo: vivere come Gesù, ragionare come Gesù, amare come Gesù. Per questo non può esistere un cristiano tranquillo che si sente a posto perché “non ammazza, non ruba, non fa del male a nessuno”! Ogni vero cristiano è una persona sempre e perennemente in crisi perché ogni giorno si confronta con Gesù e con quell’amore con cui è stato amato, ogni giorno si chiede se ha corrisposto a quell’amore ricevuto gratis, e se quindi ha saputo amare gratis chi in quel giorno ha incrociato il suo cammino.
Certamente nessuno di noi potrà mai amare il Padre e i fratelli con quell’intensità d’amore e di perfezione che ebbe e che ha Gesù, ma ciascuno di noi può, così com’è nella sua piccolezza, fragilità e povertà lasciarsi coinvolgere dal dinamismo intrinseco di quell’amore che ha condotto Gesù a dare la sua vita per noi. Si tratta allora di scoprire le modalità intrinseche della dinamica della vita di Gesù, quali sono state le linee interiori di crescita, di sviluppo, di maturazione umana (cfr. Lc 2,52) con cui Egli ha vissuto la sua esistenza in mezzo a noi, perché possiamo acquisirle ed assimilarle per la realizzazione di un’autentica nostra vita cristiana.
E allora, se sapremo leggere bene nella vita di Gesù troveremo quella legge interiore che Lo ha sempre mosso e condotto in una direzione ben precisa, si tratta di delineare quel “come”, quella modalità particolare con cui Egli, il Verbo incarnato, ci ha amato. Scopriremo così che l’intimo dinamismo della vita di Gesù ha un nome particolare che in greco si chiama “kénosi”, abbassamento, spogliazione, umiliazione. Infatti, Egli, “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9).”Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Si tratta dunque di un “come” difficile, alto, esigente, ma è l’unica modalità di vita che può dare al nostro cuore fatto per amare, pace vera. “Dio è Amore” ci ha detto Giovanni e noi siamo stati creati da Dio “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,26), se Dio quindi è AMORE PER ESSENZA, noi siamo AMORE PER PARTECIPAZIONE e la nostra stessa intima struttura tutta, le fibre più interiori del nostro essere persone umane e tutte le nostre dimensioni personali sono state create da Dio per amare e sono violentemente frustrate se non amano nella verità.
Siamo creati per amare e ogni nostra infelicità ha la sua causa nascosta nella nostra incapacità di amare. Salvandoci, il Verbo Eterno di Dio ci libera anche da questa incapacità donandoci il suo Spirito e con Esso la sua stessa capacità di amare, il suo stesso Cuore. Lo Spirito realizza così l’antica profezia di Ezechiele: “Toglierò dal loro petto il cuore di pietra ed darò loro un cuore di carne” (Ez 11,19).
Certamente come ogni trapianto non è indolore e non è esente da crisi di rigetto da parte dell’uomo vecchio (cfr. Col 3,9): è un trapianto che richiede del tempo, che non si realizza in un attimo, ma in un lungo cammino di conversione che si identifica in un cammino di amicizia con Gesù. Sì, di amicizia, amicizia intima con Lui che ci ha scelti come “amici”, ci ha scelti Lui, non siamo stati noi a sceglierLo, ci ha scelti Lui perché Lui vuole la nostra amicizia, vuole stare con noi (cfr. Mc 3,14). E sarà lì, nell’intimità con Gesù nella preghiera, in quel tempo che sapremo donare a Chi ci ha donato tutto, che Lui c’insegnerà i segreti del suo amore, ci insegnerà come si ama, cioè come si dona la vita, come si fa a tenere ferme le mani, fermi i piedi quando vengono trafitti, ci insegnerà come fare ad avere il cuore sempre aperto per tutti e chiuso per nessuno, ci insegnerà a stare fermi sulla croce, anche quando vorremmo fuggire e scendere giù da essa è così tanto facile! Ci insegnerà a dare la vita e ci farà capire che solo un amore così è degno di questo nome, perché un amore che non sa dare la vita non è autentico e vero.
In questo cammino in cui impariamo ad amare come Gesù, dobbiamo aver pazienza con noi stessi e tanta umiltà e mai stancarci ogni giorno di rialzarci dalle nostre cadute nel non-amore, e quando – finalmente! – avremo ben capito che Lui ci ama proprio senza alcun nostro merito, allora e solo allora Lui ci darà la gioia di poter amare fino in fondo come Lui ci ha amato.
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, interceda per noi perché possiamo presto realizzare e esperimentare una nuova e più grande capacità di amare. Amen.
j.m.j.
Seconda Domenica di Pasqua – “Domenica in Albis” – Anno C Omelia
«MIO SIGNORE E MIO DIO!»
Carissimi fratelli e sorelle,
ogni anno in questa domenica in albis ci incontriamo con Tommaso l’incredulo, lo scettico a noi tanto caro perché lo sentiamo così tanto vicino a noi, alla nostra poca fede, così vicino alla nostra incredulità.
Ma prima di parlare di lui, diamo uno sguardo generale al resto della Liturgia della Parola odierna.
Gli Atti degli Apostoli ci hanno mostrato un quadro della Chiesa primitiva trainata dal grande Pietro che fa miracoli e prodigi a tutta forza, addirittura la sua stessa ombra diventa causa di strepitosi miracoli. Mettiamoci un attimo nel cuore di questo Apostolo, nel cuore di Pietro. Chissà cosa provava nel cuore Simon Pietro mentre vedeva i miracoli che il Signore Gesù compiva attraverso di lui, lui che lo aveva tradito, rinnegato, lui che non aveva voluto accettare la croce, l’umiliazione, il fallimento pubblico del suo Gesù, perché pretendeva di vederLo solo glorioso e trionfante. Chissà come si sentiva piccolo piccolo ogni volta che era protagonista di qualche miracolo! Infatti sapeva bene che non era per la sua santità o fedeltà che il Signore Risorto operava attraverso Lui, ma solo per la sua misericordia infinita.
Nella prima parte del Vangelo abbiamo ascoltato del primo dono del Risorto ai suoi che è il dono della pace comunicato da Gesù agli Apostoli alitando su di loro. L’alitare richiama fortemente la potenza creatrice di Dio che creò l’uomo alitando sul fango (cf Gen 2,7), ora lo stesso Dio alita sulla Chiesa comunicandole nel suo Santo Spirito la potenza di rimettere i peccati dell’umanità. La redenzione voluta dal Padre, operata da Gesù, Morto e Risorto, e comunicata all’umanità dallo Spirito Santo, è realmente una nuova creazione in cui Dio Trinità d’Amore fa nuove tutte le cose (cf Ap 21,5) che aveva creato. E come la creazione stessa non fu un qualcosa che Dio fece in un tempo che fu, ma è continuamente realizzata e sostenuta dalla sua potenza divina che mantiene nell’essere tutto ciò che esiste (cf At 17,28), così anche la redenzione è una creazione nuova che continuamente Dio Trinità d’Amore opera rinnovando l’umanità e tutto il cosmo in essa, attraverso l’opera sacramentale della Chiesa che riceve lo Spirito Santo per la remissione dei peccati (Vangelo).
Inoltre, abbiamo anche il tema del “Giorno del Signore”, tema che viene evidenziato sia dalla lettura del libro dell’Apocalisse dove l’Apostolo Giovanni racconta della visione avuta proprio in questo santo giorno; sia dal Vangelo dove il Risorto appare agli Apostoli in questo giorno due volte, la domenica di Pasqua, assente Tommaso, e la domenica successiva, presente anche questi. È triste oggi vedere come così tanto spesso noi cristiani non comprendiamo l’importanza della fedeltà a questo appuntamento con il Risorto. Appuntamento nel suo giorno, giorno in cui il Risorto continua a rendersi presente a noi riuniti nel cenacolo per farsi toccare e mangiare nell’Eucaristia. È proprio l’assenza a questo appuntamento la causa principale dell’incredulità di tanti che crederebbero se fossero presenti e che, come Tommaso, avrebbero anche loro l’esperienza di sentirLo e toccarLo: sentirLo nell’ascolto della sua Parola, toccarLo, nutrendosi di Lui nell’Eucaristia.
Ecco, ciò premesso vediamo di approfondire un po’ di più il messaggio che ci arriva attraverso Tommaso l’incredulo.
È nello stile di Giovanni porre significati nascosti a livelli di lettura più profondi del suo Vangelo. Non possiamo parlare di Tommaso con pienezza di comprensione staccandolo da tutto il contesto del racconto, infatti, Giovanni lo pone a conclusione di una serie d’apparizioni di Gesù Risorto, apparizioni che diventano – a nostro parere -, nell’intenzione dell’evangelista, espressive del percorso di fede del credente.
L’affermazione di fede di Tommaso, «mio Signore e mio Dio», infatti, è la più alta e completa del Nuovo Testamento. Molti di voi a questo punto potrebbero dire: «Facile per Tommaso credere se poté toccare il Risorto». Ecco, questa è un’affermazione apparentemente scontata, ma, in effetti, molto superficiale perché non tiene conto del fatto che Tommaso vide il Risorto, ma non vide Dio, vide cioè l’umanità del Figlio di Dio Risorto dalla morte, ma non ne vide la sua divinità, quella rimane sempre nascosta in questa vita, perché nessuno, finché vive, può vedere Dio. Eppure Tommaso affermò di averlo fatto, e lo affermò quindi non per visione, bensì per fede, per quella fede che gli diceva con forza che quel Gesù che era morto in croce e sepolto e che ora era vedeva risorto da morte, è Dio, sì, quell’uomo che tutti hanno visto come un Fallito, Straziato, Crocifisso e Morto, è Dio! Uomo e Dio, quindi «mio Signore e mio Dio!».
Ma come si arriva a questa affermazione di fede totale, piena e completa in Gesù, Uomo-Dio? È un cammino che parte dal sepolcro vuoto dove giunge la Maddalena (cf Gv 20,1ss) per ungere il corpo morto del suo Gesù. Maria cerca un corpo da abbracciare per l’ultima volta e ungere, ma non lo trova. È profondamente delusa della scoperta che la tomba è vuota: «Dove hanno portato il mio Gesù?». Questo è il primo passo verso la fede, aver subito il fascino della persona di Gesù, avere esperimentato la dolcezza, la forza, la luminosità, la bellezza della sua parola e cercare quindi un contatto con Lui. La persona è tutta presa dal “profumo olezzante del suo Nome” (Ct 1,3).
La Maddalena corre allora dagli Apostoli ad avvertirli che hanno rubato il suo Gesù e accorrono al sepolcro Giovanni e Pietro, Giovanni arriva per primo, ma lascia passare Pietro: vedono la tomba vuota e il sudario con le bende, l’evangelista racconta che questo discepolo, che era lui stesso che scriveva, “vide e credette” (Gv 20,8), ma non dice questo di Pietro, il quale, come ci riporta Luca, tornò al cenacolo “pieno di stupore” (Lc 24,12) e non tanto “pieno di fede” nel Risorto, ma solo stupore, meraviglia, perplessità perché il corpo del suo Gesù era sparito: Chi lo aveva portato via? E lo stesso evangelista Giovanni dopo aver detto che “vide e credette” prosegue dicendo che gli apostoli “non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9),” (Gv 20,9), come quasi a scusare Pietro della sua incredulità.
Ora, si può rimanere fermi a questo primo stadio del cammino di fede o si può proseguire. Pietro, tornando a casa, diventa un’icona, un’immagine di chi si ferma a questo stadio: si sente un certo fascino emanare da questo Gesù, c’è una certa perplessità, stupore, ma non c’è un vero coinvolgimento interiore perché si torna alla vita di prima come prima, nulla è cambiato! Allora si è un po’ come quei curiosi che chiedevano informazioni su come mai quel cieco che era cieco dalla nascita ora ci vedeva, ma non è che importasse loro gran che (cf Gv 9,8-12), o come Erode che cercava di vedere Gesù solo per la curiosità di essere spettatore di qualche miracolo (cf Lc 23,8) e nulla di più. Cioè, si passa accanto a Gesù, a qualcosa di grande e misterioso, si è sfiorati da qualcosa di travolgente e immensamente importante, ma si è troppo presi dalle preoccupazioni di questo mondo per scomodarsi più di tanto, come quegli invitati al banchetto che non vi parteciparono chi perché doveva fare una cosa, chi per un’altra (cf Lc 14,18-20).
La Maddalena invece non torna a casa, continua la ricerca, Pietro e Giovanni se ne tornano a casa perplessi e stupiti, ma la Maddalena rimane lì a piangere e a cercare il suo Gesù da abbracciare per l’ultima volta, non se ne torna a casa come gli Apostoli, non si accontenta dire: “Ma…!” o “Chissà…!”, o “Bhò…!”.
Questo è il secondo passo del cammino della fede: aver capito che non si può tornare a casa e continuare la vita di sempre dopo aver conosciuto Gesù, bisogna ritrovarLo, uscir fuori e chiedere a tutti: “Avete visto l’Amato del mio cuore?” (Ct 3,3). In questo passo la vita ha un solo significato: cercare Gesù.
La Maddalena persiste nella sua ricerca e viene premiata. Non troverà il corpo morto del suo Gesù, ma il suo Gesù, Risorto e Vivo che la chiamerà per nome, facendosi così riconoscere in quell’uomo da lei scambiato per il giardiniere. Questo è il terzo passo del cammino di fede: Gesù che ti chiama per nome. Quando cioè Gesù non è più né un qualcuno che disse qualcosa di bello e di importante, né un’ideale astratto che affascina, ma Lo si scopre come Persona viva che ti chiama e interpella, e ti chiama per nome, capisci che solo Lui ti chiama per nome, solo Lui ti conosce veramente (cf Gv 2,24-25; 10,3) e solo Lui, quindi, può rivelarti il mistero della tua esistenza (cf Ef 1,4). Questa è la tappa della scoperta dell’intimità con Gesù, è il tempo delle grandi consolazioni, delle gioie profonde e intime con cui Lui ci attira a sé e ci fa gustare la dolcezza e la tenerezza del suo abbraccio d’amore (cf Ct 2,6). Il credente allora vorrebbe rimanere in questa situazione come Pietro, Giovanni e Giacomo sul monte della trasfigurazione quando volevano fare le tende per rimanere sempre lì (cf Lc 9,33), per questo la Maddalena vorrebbe trattenerlo (Gv 20,17), ma Lui scompare.
Infine ecco Tommaso, egli rappresenta il quarto passo nel cammino di fede del credente che deve entrare nelle piaghe del Risorto, deve mettere il suo dito nel posto dei chiodi e la sua mano nella ferita del costato di Gesù (cf Gv 20,27), solo allora la fede del credente raggiunge la sua pienezza, quando cioè comprende il significato della sofferenza nella propria vita ed entra dentro il mistero della croce partecipandovi con gioia e amore, “completando così nella propria carne quello che manca alla passione di Gesù, a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). A questo stadio del cammino, che è quello ultimo, il credente non ricerca più le dolcezze delle consolazioni divine e non cerca più neanche di trattenere il suo Signore perché non lo lasci solo. Qui il credente non cerca più il suo Gesù, non Lo cerca perché qualunque situazione viva, ne sa cogliere la presenza gridando con gioia: “È il Signore!” (Gv 21,7). Non Lo cerca perché in qualunque situazione egli viva, la vive in Lui, con Lui e per Lui: nel silenzio della solitudine come nel vociare della compagnia, nell’amarezza dell’incomprensione come nella gratificazione del successo, nello strazio della sofferenza fisica come nella serenità della buona salute, nell’angoscia della tentazione come nella pace della consolazione, tutto vive in Gesù, con Gesù e per Gesù, non Lo cerca dunque più, perché il credente ormai vive in Lui e Lui in questi: “In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in Me e Io in voi” (Gv 14,20). Il credente non cerca più il suo Gesù perché Gesù ormai è come “un sacchettino di mirra che riposa sul proprio petto” (Ct 1.13)
Sì, lì, nella cella sigillata del proprio cuore, nel fondo della propria anima, il credente coglie la soave presenza del suo Gesù con la fede, Gli serra la mano nella speranza e L’abbraccia nella carità, senza vederLo, senza toccarLo, senza abbracciarLo, vivendo di fede, speranza e carità, senza nulla pretendere di vedere, sentire, toccare, e tutto preso e conquistato dalla sua intima presenza di Grazia, ripete senza sosta con dolcezza e commozione immensa: "Mio Signore e mio Dio!"
Maria SSma, Donna della fede, ci accompagni passo passo nel nostro cammino e ci ottenga la gioia di entrare con Tommaso nelle piaghe del Risorto.
Amen.
Terza Domenica di Pasqua – Anno C Omelia
«Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?»
Prima Lettura: At 5, 27b-32
Dal Salmo 29
Seconda Lettura: Ap 5, 11-14
Vangelo: Gv 21, 1-19
Carissimi fratelli e sorelle,
in questa liturgia pasquale risplende in modo particolare davanti ai nostri occhi il gruppo degli Apostoli capitanato da Pietro.
Nella lettura dagli Atti degli Apostoli, vediamo il Collegio Apostolico dare testimonianza al Risorto davanti al sommo sacerdote e affermare con forza e coraggio, attraverso la voce di Pietro, la fede nel Risorto per la quale subiranno la fustigazione, “lieti di essere stati oltraggiati per il nome di Gesù” (prima lettura).
Nel Vangelo incontriamo un gruppo di Apostoli, sempre con a capo Pietro, mentre pesca sul lago di Tiberiade. Il contesto è quello dei giorni successivi alla risurrezione, si tratta infatti della terza apparizione del Risorto ai suoi Apostoli. Andare a pescare, faceva parte del mestiere ordinario di Pietro e di altri Apostoli prima di incontrare Gesù. Il Signore, quando li chiamò promise loro di farli diventare “pescatori di uomini” (Mt 4,19) e non più di pesci. Sembra dunque strana questa scena di ritorno all’attività di una volta, a pochi giorni dall’inizio dell’attività missionaria universale che li avrebbe portati ad annunciare il Vangelo ovunque nel mondo. Sembra evidente che Giovanni dia a questo momento di relax degli Apostoli – che li porta a ritornare al lavoro di un tempo, presumibilmente anche per la necessità di avere qualcosa da mangiare -, un significato simbolico riferito proprio a quella “pesca di uomini” che aveva preannunciato loro il Signore Gesù quando li chiamò a sé.
Possiamo dunque guardare questa scena della barca apostolica che pesca nel mare di Tiberiade come la raffigurazione simbolica della Chiesa nella sua missione ricevuta dal suo Fondatore di essere nell’universo mondo “pescatrice di uomini”. Vediamo dunque di entrare dentro questo Vangelo per assimilarne il messaggio nascosto.
Innanzi tutto c’è la centralità di Pietro, l’evidenza del suo primato apostolico, della sua presidenza del Collegio degli Apostoli: è lui infatti che va a pescare, gli altri si uniscono a lui e pescano sotto la sua direzione, ma non prendono nulla tutta la notte. Pietro e gli altri non poterono non pensare a quell’altra nottata di pesca infruttuosa che fu vigilia dell’incontro con il Maestro (cf Lc 5,5). Ma ora non si tratta più di pesci, ma di uomini, di donne, di giovani, di fanciulli che sfuggono a quelle reti spirituali con cui la Chiesa vorrebbe catturare all’amore divino tanti, ma quelle reti sono spesso vuote.
Chi non ha mai sentito il lamento di parroci, di catechisti, di operatori pastorali per via della inutilità di tanti sforzi, tanti sacrifici, tante fatiche per gettare quelle benedette reti che riemergono così tanto spesso vuote, mentre il mondo con le sue reti trascina le masse? Eppure basta gettarle dalla parte destra della barca per riempirle!
Appare un uomo sulla riva che chiede loro se hanno qualcosa da mangiare, non hanno nulla. Gli Apostoli devono sottoporsi all’amara constatazione dell’inutilità dei propri sforzi: Dio non ha benedetto la loro pesca! Perché? Perché hanno gettato le reti senza di Lui, senza prima aver chiesto a Lui dove e come gettarle! L’importanza delle verifiche in cui si prende atto dei propri fallimenti, fallimenti personali, fallimenti di gruppo, fallimenti di comunità: non abbiamo preso nulla! Abbiamo le reti vuote, che senso ha il nostro stare insieme su questa barca da pesca se le nostre reti sono vuote? Se non abbiamo preso nulla, significa che non c’era il Signore nel nostro lavoro apostolico, perché quando si gettano le reti dove e come Lui ci indica, i pesci si prendono sempre, ma Egli vuole che sia ben chiaro che le reti non si riempiono per la nostra maestria o esperienza, ma solo per la potenza del suo amore per noi.
Ma ecco che lo Sconosciuto li invita a gettare le reti dalla parte destra, loro Lo ascoltano e prendono così una quantità enorme di pesci: 153 grossi pesci. [Il numero è evidentemente simbolico ed esprime totalità e pienezza (1 + 5 + 3 è uguale a 9, che, essendo multiplo di 3 (= pienezza), sottolinea la pienezza in sommo grado. Un altro modo di spiegare il valore pieno e totale di questo numero è il seguente: 12 (= totalità) è 12 x 12 = 144; se a 144 sommiamo 9, otteniamo 153. È una maniera di accentuare ancora di più la totalità].
Quando gli Apostoli vedono le reti piene capiscono che quello sconosciuto “è il Signore!”, sì, “è il Signore!”, il primo a riconoscerLo è Giovanni, quello che aveva posato il suo capo sul petto di Gesù nell’Ultima Cena (cf Gv 13,25):
«Domenica scorsa, la storia di S. Tommaso ci ha insegnato che per riconoscere il Signore risorto, per avvertire la sua Presenza fra noi è necessaria la fede: “non essere più incredulo, ma diventa credente” aveva detto a Lui il Signore. Oggi, il quadro delle disposizioni umane necessarie per “vedere” la presenza del Signore, si completa. Se fate bene attenzione alla pagina evangelica, vedete che, come sempre, all’inizio il Signore non è riconosciuto. Il primo a riconoscerlo è il discepolo che Gesù amava: è l’amore che rende il discepolo prediletto capace di riconoscere Colui che è sulla riva, come il Signore. È l’amore che dona all’uomo la capacità di vedere Gesù. Tommaso ha creduto dopo che ha messo la mano nel costato di Cristo: dopo che ha sentito l’amore del Signore. È l’amore che dona alla nostra anima gli occhi per vedere. Quando si tratta di qualcosa, tu puoi conoscere pur restando del tutto indifferente nei suoi confronti. Quando si tratta di qualcuno, di una persona, la si può conoscere solo nella misura in cui la si ama: il mistero di ogni persona di apre solo agli occhi del cuore di chi lo ama. Lo stesso accade nella nostra esperienza di fede: il primo a riconoscere il Signore è colui che aveva amato di più il Signore» – .
Mons. Carlo Caffarra – Omelia Terza Domenica di Pasqua 1998
Quando Pietro sente che quell’uomo è Gesù si getta in acqua e raggiunge a nuoto più in fretta degli altri la riva, non prima però di essersi cinto “ai fianchi la sopravveste perché era spogliato” per via della pesca, Pietro non può presentarsi spogliato davanti a Gesù! Deve vestirsi. La veste è simbolo della dignità della persona. Nell’Ultima Cena il Signore Gesù si era tolto la veste per lavare i piedi dei suoi discepoli con un gesto carico di significato (cf Gv 13,4): si tolse la veste di Dio per rivestire noi di essa! (cf Fil 2,6-7; 2Cor 8,9). Pietro ha ricevuto una dignità particolare da Gesù: è il suo Vicario in terra, la sua è una dignità alta, unica, ma anche lui come il suo Maestro deve levarsi la tunica per lavare i piedi ai fratelli e deve stare in mezzo alla Chiesa come colui che serve: il servo dei servi di Gesù Cristo. Per questo Pietro sulla barca era senza la veste, perché doveva dare l’esempio del servizio, ma ora che è sulla riva con il Risorto, la deve rimettere perché deve essere investito ufficialmente della presidenza.
La pesca si conclude a mensa con il Risorto che “spezza il pane” per loro, per questo il Signore li ha mandati a pescare nel mondo, perché tutto si concluda lì, nella partecipazione a quella mensa divina. Tutti coloro che si sono lasciati impigliare nelle divine reti dell’amore gettate nel mare del mondo dalla barca di Pietro sono invitati a sedersi a quella mensa con il Risorto e a partecipare così attraverso i segni sacramentali, alla liturgia celeste, unendo il proprio “Amen” all’”Amen” che risuona nel santuario del Cielo dove l’Agnello Immolato riceve “potenza, ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” dalle schiere dei santi e degli angeli (seconda lettura).
Dopo aver spezzato loro il pane, il Risorto chiama in disparte Pietro e gli chiede per tre volte se L’ama e se L’ama di più degli altri. Chiede a colui che l’aveva pochi giorni prima rinnegato spudoratamente davanti a tutti, se l’ama! E anche se L’ama più degli altri, più anche di Giovanni! Pietro gli risponderà sfacciatamente di sì, che L’ama e L’ama di più. Sapeva di averLo amato meno di tutti, eppure afferma di amarLo più di tutti, perché? Perché l’amore a Gesù è essenzialmente risposta all’amore suo e Pietro quell’amore l’aveva capito e conosciuto quando incrociò i suoi occhi misericordiosi dopo che Lo tradì (cf Lc 22,61). Pietro sapeva che Gesù l’aveva amato di più, perché lui L’aveva rinnegato e Gesù l’aveva e perdonato, per questo Pietro non poteva sopportare che qualcun altro Lo amasse più di lui. È proprio di chi ama veramente amare di più e non mettere limiti all’amore, Pietro deve amare così perché, nonostante il suo tradimento, riceve la conferma di Gesù della missione di rappresentarLo, di esserne Vicario, la missione di pascere i suoi agnelli, di governare la sua Chiesa, non si può accogliere questa missione senza un amore più grande per Gesù.
Nell’affidare i suoi agnelli a Pietro, il Risorto esige da questi la dichiarazione espressa del suo amore, perché solo un amore più grande per Gesù, può motivare la vita di coloro che sono a capo dell’opera pastorale della Chiesa. E così, attraverso i secoli, tutti coloro che riceveranno il mandato di pascere le pecorelle di Gesù, dovranno innanzi tutto testimoniare di amarLo più di tutti gli altri.
Questo significa che nella Chiesa, la crisi delle vocazioni al sacerdozio, vocazioni che partecipano intimamente al mandato affidato alla persona di Pietro di pascere le pecorelle di Gesù, è un segno evidente di una crisi di amore al Signore. Infatti, chi è chiamato a diventare pastore nella Chiesa, deve sempre dimostrare di avere per Gesù un amore più grande degli altri.
Così Gesù, chiedendo a Pietro se L’ama più di tutti gli altri, in realtà pone questa domanda anche a coloro che attraverso i secoli saranno chiamati a pascere il suo gregge, sia come diretti successori di Pietro, sia come membri del collegio apostolico e quindi Vicari di Cristo nelle varie Chiese locali (cf LG 27), sia come presbiteri collaboratori degli Apostoli nell’opera pastorale (cf LG 28).
La terza apparizione del Risorto dunque si chiude con la dichiarazione d’amore di Pietro a Gesù, una dichiarazione d’amore che non è più quella spavalda e basata sulla presunzione di sé, che il Principe degli Apostoli fece prima della sua Passione quando gli giurò di amarLo e di essere pronto a morire per Lui (cf Lc 22,33), ma è la dichiarazione umile e confidente di chi, conoscendo bene ormai la propria debolezza, ripone la sua forza non nella propria fedeltà, ma nella fedeltà dell’amore di Gesù per lui.
Per questo Gesù, qui, rinnova la sua chiamata a Pietro, perché, ora che ha fatto esperienza della propria debolezza e del suo amore misericordioso, l’Apostolo è in grado di confermare nella verità quella sequela iniziata sull’onda di un entusiasmo che non aveva saputo cogliere fino in fondo le sue conseguenze crocifiggenti e quindi ora si lascerà portare, senza far più resistenze, dove non vorrà, terminando la sua vita crocifisso come il suo Gesù, ma a testa in giù perché non si sentiva degno di morire come Lui.
La Vergine Maria, Regina degli Apostoli, interceda per tutti coloro che il suo Figlio Gesù invita ad amarLo di più, perché, come Pietro e con Pietro sappiano dare al Risorto, la bella testimonianza di un amore più grande per Lui e per la sua Chiesa che Egli amò spargendo per Lei tutto il suo preziosissimo Sangue.
Amen.
j.m.j.
Quarta Domenica di Pasqua – Anno C Omelia
«Io do loro la vita eterna» Carissimi fratelli e sorelle,
ogni anno in questa Quarta Domenica di Pasqua leggiamo un brano del capitolo decimo di Giovanni, il capitolo di Gesù Buon Pastore (il testo greco in realtà parla del Bel Pastore) e preghiamo il “Padrone della messe che mandi operai per la sua messe” (Lc 10,2): è la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni alla Vita Sacerdotale e Religiosa.
Dagli Atti degli Apostoli abbiamo ascoltato la narrazione di una delle tante persecuzioni subite dagli Apostoli, narrazione che si conclude con quel ritornello che risuona così spesso in questo libro: “I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo”. Perseguitati, scacciati, imprigionati, uccisi, ma “pieni di gioia e di Spirito Santo”. È la dimensione della Pasqua nella quale vive la Chiesa, la forza della risurrezione di Gesù che penetra nell’intimo i cristiani che vanno incontro a tutte le difficoltà e prove della vita, persino alla morte, senza paura e con gioia perché forti di Lui, vitalmente inseriti in Lui nel Battesimo, bagnati dal suo Sangue (seconda lettura) ripercorrono nella propria vita la sua esperienza di morte e risurrezione.
Dalla Seconda Lettura e dal Vangelo emerge la figura del Buon Pastore: “L'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (seconda lettura), “Io sono il buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (canto al Vangelo e Vangelo).
«"Le mie pecore ascoltano la mia voce". La parola di Dio oggi ci invita ad entrare nel mistero di Cristo e della nostra relazione con Lui attraverso l’immagine del pastore. Certamente, non è immagine che oggi a noi dica molto, dal momento che l’attività pastorale è completamente scomparsa dalle nostre terre. Tuttavia se prestiamo molta attenzione alle parole che Gesù ci dice, saremo profondamente affascinati dalla realtà che Gesù vuole svelarci e donarci».
Mons. Carlo Caffarra –
La “realtà che Gesù vuole svelarci e donarci” è il mistero della nostra relazione con Lui. Qui siamo anche nel cuore del messaggio del Quarto Vangelo. Infatti mentre Marco scrive per indicare chi è Gesù e chi è il cristiano, Matteo per dirci cosa devono fare i cristiani e Luca come devono essere, Giovanni, invece, scrive perché i cristiani approfondiscano il loro rapporto di intima amicizia, di intimo amore con Gesù, rapporto che si realizza nell’adesione di fede alla sua Persona Divina. Questo rapporto con Gesù ha la sua radice nel Battesimo, ma non si sviluppa e matura senza una nostra risposta consapevole e libera.
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, per esprimere la radice, il fondamento e l’essenza del nostro rapporto con Lui usa la metafora della vite e i tralci: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5). Questa metafora esprime la profonda intimità con Gesù che viene innestata in noi col santo Battesimo e l’invito a permanere in Lui, come il tralcio nella vite, per far fruttificare la nostra vita in pienezza e glorificare così il Padre (cf Gv 15,4.8).
Per esprimere, invece la crescita e la maturazione di questo rapporto, usa la metafora del Buon Pastore che conosce le sue pecorelle ed è conosciuto da esse.
«Si parla dunque del rapporto fra Gesù e i credenti in Lui. Non dimentichiamo neppure un istante che non si tratta di un rapporto generato dal ricordo di una persona del passato. Gesù non è un ricordo, è una presenza, poiché Egli è risorto e vivo nel suo vero corpo.
Di che natura è questo rapporto? Esso si fonda su una iniziativa, un dono del Risorto ai suoi credenti: "io do loro la vita eterna". Gesù è il Figlio che dall’eternità riceve la vita dal Padre [cfr. Gv 5,26], ed è venuto fra gli uomini per farli partecipi di questo dono: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. [Gv 10,10]. La vita di cui parla il Risorto è la stessa vita di Dio che viene partecipata all’uomo. Grazie a tale dono, la nostra vita fisica e spirituale, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato. Noi fin da ora siamo partecipi della vita divina»
Mons. Carlo Caffarra –
Il Figlio di Dio è venuto nel mondo per portarci nel suo mondo, nel mondo di Dio e il mondo di Dio è il mondo dell’intimità e della comunicazione, della donazione e della consegna, della bellezza e dell’amore. Egli si è consegnato a noi perché noi imparassimo a consegnarci a Lui nell’amore.
Il Padre e il Figlio si amano dall’eternità nello Spirito Santo che è il loro stesso personale Amore, il Padre consegna tutto se stesso al Figlio e il Figlio riconsegna tutto se stesso al Padre, il loro eterno reciproco consegnarsi l’Uno all’Altro è lo Spirito Santo che è apertura totale del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, non c’è cosa che il Padre non comunichi al Figlio e non cè cosa che non ritorni al Padre in un va e rivieni, in un’Altalena d’Amore che è lo Spirito Santo.
Quando Gesù dice che ci dona la “vita eterna” vuole dirci proprio questo, che ci regala di entrare per mezzo di Lui, nello Spirito che ci dona, nel seno del Padre in cui Egli è Una “cosa sola” con Lui (Vangelo). La nostra “porta” (Gv 10,7) attraverso cui entriamo già adesso, anche se non ancora in pienezza, nell’intimità trinitaria è dunque Lui stesso, è Gesù Cristo, attraverso la nostra intimità con Lui entriamo in quel vortice d’Amore Trinitario in cui Lui è immerso dall’eternità. Quindi è il nostro rapporto personale con Gesù, il Verbo Incarnato, il Figlio di Dio, che ci apre alla vita eterna. Il Padre ha voluto darci in Lui l’unica “Via” (Gv 14,6) che ci riporta a Lui, al Padre dal Quale tutto viene e tutto ritorna (cf 1Cor 15,28).
Per poterci permettere di entrare a Casa sua che è la Trinità, il Padre ha mandato il suo Figlio a farsi uomo perché noi, entrando in relazione intima con Lui potessimo entrare nella Trinità come a casa nostra, perché è la Trinità la casa nostra nella quale il nostro cuore ha nostalgia di riposare.
Siamo quindi chiamati ad entrare in intimità con Gesù, ma come si realizza questa intimità? Si realizza sugli stessi canali sui quali si realizza ogni altra intimità umana: nella consegna di sé all’altro, nell’aprirsi all’altro, nel permettere all’altro di entrare nel tuo mondo e nel sentirti tu di casa nel suo.
Dunque ecco quel “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” che è per ciascuno di noi tutto un programma e tutto un cammino di intimità con il Verbo incarnato, il Quale ci conosce dall’eternità perché in Lui siamo stati scelti, voluti e creati (cf Ef 1,4) ed è più intimo a noi di noi stessi perché “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). Lui è intimo a noi pienamente e totalmente da sempre, noi invece non siamo intimi a Lui perché Lui è Uomo-Dio, noi solo poveri uomini, allora Lui si vuol far conoscere da noi, si vuole comunicare a noi perché anche noi entriamo in intimità con Lui come Lui lo è con noi.
Ecco allora la funzione della preghiera: permettere al Padre di parlarci del Figlio. Ogni volta infatti che entriamo in preghiera, il Padre ci dice: “Ascolta mio Figlio, guarda mio Figlio, segui mio Figlio” (cf Mt 7,5) e ci dona il suo Santo Spirito che è il suo stesso Amore per il Figlio, perché noi conosciamo Lui, conosciamo Gesù.
La preghiera è il mezzo, unico mezzo, con cui noi possiamo conoscere Gesù, per questo la preghiera è essenzialmente intimità con Gesù, cioè accoglienza della Persona di Gesù Cristo che si dona a noi. E Gesù si dona a noi perché Lo conosciamo, perché possiamo entrare in profondità nel suo animo, nelle sue emozioni, nei suoi atteggiamenti più intimi, nei sentimenti che hanno motivato il suo agire.
Così, nella preghiera, il Signore Gesù ci rivela e ci comunica i segreti del suo Cuore Divino-Umano, cioè quali erano le sue intime motivazioni che motivavano ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni evento che Egli visse quaggiù della sua esperienza terrena.
Pregare è dunque imparare a conoscere Gesù e in questa conoscenza crescere nell’intimità con Lui che man mano si fa conoscere di più e conoscendoLo sentire il fascino che promana la sua Persona Divina, essere affascinati dalla sua bellezza, di Lui che è “il più Bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3), essere trasportati e travolti dal “profumo olezzante del suo nome” (Ct 1,3) e quindi lanciarsi nella corsa dell’amore (cf Ct 1,4; Eb 12,1) “tenendo ben fisso lo sguardo su di Lui” (Eb 12,2).
La preghiera è uno stare con Gesù (cf Mc 3,14), un guardare Gesù, contemplare Gesù per assorbire e assimilare Gesù nella nostra vita (cf Fil 2,5). Ma questo non semplicemente come esercizio esteriore che ci coinvolge semplicemente nella lettura, nello studio, nel pensiero e nel nostro sentimento, no, è qualcosa di più, di molto più profondo. Gesù, perché noi potessimo entrare in intimità con Lui, ci ha donato il suo stesso Spirito che diventa così anche il nostro, lo Spirito del Figlio è così anche il nostro, veramente nostro perché Lui ce lo ha regalato, e così come Lui, il Signore Gesù, è intimo a noi, anche noi diventiamo intimi a Lui, perché abbiamo il suo Spirito che ci permette non semplicemente una conoscenza esterna e esteriore, ma intima, intimissima di Lui.
In questo modo, Gesù è in noi e noi siamo in Lui e come Lui è unito al Padre nello Spirito Santo, così anche noi che abbiamo lo stesso Spirito, siamo uniti al Padre nel Figlio e nel Figlio ci consegniamo insieme col Figlio al Padre e ripetiamo con Lui e in Lui il nostro “Eccomi Padre, fa’ di me ciò che ti pare” (cf Eb 10,7) e il Padre ci risponde riversando nei nostri cuori il suo stesso Amore (cf Rm 5,5).
Carissimi fratelli e sorelle, oggi siamo invitati a pregare per le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa, siamo invitati cioè a pregare perché molti giovani, ragazzi e ragazze, decidano un impegno d’amore più grande per Gesù in una sua sequela radicale nella povertà, nella castità, nell’obbedienza. Ma dove possono fiorire, crescere e maturare queste vocazioni se non nella preghiera? Pregare per le vocazioni significa impegnarsi perché nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità si respiri Gesù Cristo, si parli di Gesù Cristo e si insegni a cercarLo, trovarLo, a guardarLo e a stare con Lui, a passare del tempo con Gesù. Ecco, se noi riusciremo a far questo, le vocazioni non mancheranno perché saprà bene Lui come fare per far sentire il suo “profumo”, la sua attrazione divina.
Occorre quindi che ciascuno di noi diventi esperto nella preghiera, sia un entusiasta della preghiera, un trascinatore degli altri alla preghiera. Occorre che sappiamo comunicare ai giovani la gioia del nostro “stare” con Gesù perché sentano anche loro il desiderio di fermarsi con Lui e scoprire così quel disegno che il Padre ha nascosto da tutta l’eternità in Lui per loro. Sì, perché solo Gesù ti svela il segreto del tuo essere al mondo, il segreto del progetto del Padre su di te, il segreto del tuo vero volto, quello che è nascosto in quella creatura nuova che abbiamo concepito nel santo Battesimo, ma che cresce solo nella misura in cui noi l’alimentiamo del nostro incontro vivo con Gesù nella preghiera e nei sacramenti. E così, stando con Gesù nella preghiera, tanti giovani potranno sentire quel desiderio forte di un amore più grande per Lui e rispondere così di “SÌ”, anche loro come Maria, a quella domanda d’amore che sta all’inizio, nel mezzo e nello sviluppo di ogni vera vocazione, domanda che Gesù vorrebbe ripetere ancora oggi a tanti giovani: “mi vuoi amare tu, più degli altri?” (cf Gv 21,15). Amen. j.m.j.
Quinta Domenica di Pasqua – Anno C Omelia
«Vi do un comandamento nuovo»
Carissimi fratelli e sorelle,
nella lettura continuata che stiamo facendo del libro degli Atti degli Apostoli, abbiamo visto come Luca magistralmente dipinge con poche parole il dispiegarsi della Chiesa nel mondo, questo fondare nuove comunità da parte degli Apostoli che, prima di lasciarle per proseguire l’evangelizzazione dell’umanità, istituivano in ciascuna dei capi, “anziani” che le reggessero in nome di Cristo, si tratta dei primi vescovi, l’inizio di quella catena apostolica che è garanzia di essere in quella Chiesa che Gesù Cristo istituì sugli Apostoli che hanno visto e toccato il Risorto e ci hanno comunicato la loro esperienza (cf 1Gv 1,1-4). Quest’esperienza la Chiesa l’ha sintetizzata e racchiusa in quel Simbolo (= il Credo) che ogni domenica da buoni cristiani recitiamo nella S. Messa e in cui c’è tutto ciò che noi crediamo, speriamo e amiamo.
L’apostolicità della Chiesa…, è bello durante questo tempo pasquale riflettere in preghiera su questo aspetto così importante della Chiesa: la catena apostolica…, pensiamoci un momento…, pensiamo al nostro vescovo…, al vescovo che lo consacrò tale imponendogli le mani…, pensiamo poi al vescovo che aveva istituito quest’altro…, e così via attraverso i secoli…, i millenni…, fino ad arrivare a uno degli Apostoli: Pietro, Andrea, Giovanni, Giacomo di Zebedeo, Bartolomeo, Matteo, Giuda Taddeo, Simone lo Zelota, Filippo, Giacomo d’Alfeo, Tommaso e Mattia che sostituì Giuda Iscariota, e da uno di loro a Gesù, il nostro Signore e Dio che comandò agli Apostoli di annunziare il suo Vangelo a tutte le genti. Quanta luce promana da questa catena che ci riannoda a Gesù! Spezzarla significa spezzare la Chiesa, devastarla, svuotarla di verità, di autorità e di unità. È cosa così semplice capire, nella moltitudine sparsa e variegata di Chiese o presunte tali che affliggono il Cuore di Gesù e scandalizzano il mondo, dove sta quella Chiesa che possiede in sé la pienezza dell’autenticità e dell’autorità ricevuta dal suo Fondatore e Dio, Gesù Cristo. Ci vuole così poco!… La verità è sempre cosa molto semplice, facile, chiara, per chi la cerca con sincerità e con amore. La menzogna invece ha sempre come proprietà complicare le cose semplici e far diventare tortuose quelle dritte! Senza la garanzia dell’apostolicità non avremmo più la garanzia di essere nella verità e saremmo sottoposti all’imperio dell’opinione, del secondo me, del forse, chissà, ma però… con il conseguente moltiplicarsi delle Chiese col moltiplicarsi delle opinioni, mentre Gesù Cristo ne ha fondata una sola di Chiesa, e ogni Chiesa è veramente Chiesa se è in comunione con quella che Lui istituì!
Come frutto di questa riflessione vorrei fare a tutti voi che mi ascoltate un piccolo invito: perché non impariamo a memoria i nomi dei Dodici Apostoli? Forse molti di voi già li conoscono, ma forse no. È bello conoscerli e ogni tanto pensare alla loro chiamata, alla loro avventura, alla loro fatica nel credere, alle loro paure, alla loro fuga, al loro ritorno, alla loro testimonianza, al sangue che loro hanno sparso perché a noi giungesse l’annuncio che Gesù è il Signore, il Salvatore e il nostro Dio! Quanta commozione dovrebbe suscitare nel nostro cuore il loro ricordo…, quanta gratitudine…, quanto amore… Ecco, perché non proviamo?
Veniamo ora al Vangelo di oggi.
«“Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in Lui”.
Queste parole Gesù le pronuncia, “quando Giuda fu uscito dal Cenacolo”. L’uscita di Giuda per andare a consegnare Gesù all’autorità religiosa, pone in essere il fatto decisivo della sua morte: in quell’uscita, Gesù vede la sua morte come un avvenimento già accaduto. Ed allora il Signore si pone col suo spirito oltre quella morte, e ce ne svela l’intimo significato, la sua intera verità. Parla usando già i verbi al passato: “ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in Lui…”. Il significato intimo della morte di Cristo ci è svelato: essa è la suprema glorificazione di Dio e di Gesù stesso» – – Mons. Carlo Caffarra – Omelia V Domenica di Pasqua 1998.
Per cinque volte in tre righe risuona il verbo “glorificare”, Gesù vede nella sua morte la glorificazione sua e del Padre. Il tema della “gloria” di Dio è uno dei temi cari a Giovanni che inizia a parlarne già nel suo Prologo: “Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e verità” (Gv 1,14). La “gloria” di Dio per l’uomo biblico era lo splendore, la luminosità, la maestosità della presenza di Dio, essa veniva espressa nel racconto dell’Esodo dal simbolo della “nube” e del “fuoco”. Nube che guidava il popolo di giorno (cf Es 40,36), che riempiva la “Dimora” o tenda del convegno (cf Es 40,38); che prenderà possesso del Tempio di Salomone (1Re 8,10-11) e che se ne andrà via, abbandonandolo prima della sua distruzione (cf Ez 9,3; 10,4.18-19;11,22-23). Durante l’esodo, nella colonna di nube, di notte brillava un “fuoco” che li guidava illuminando l’oscurità (cf Es 13,21; 40,36-38). La gloria di Dio era anche stata significata dai segni portentosi della sua presenza: fulmini, tuoni, terremoto (cf Es 19,16-19). Nube, fuoco, tempesta, terremoto erano tutti segni che indicavano l’assoluta trascendenza di Dio, la sua inaccessibile e temibile maestà. L’uomo davanti alla presenza di Dio, davanti alla sua gloria, teme, ha paura, e così Mosè al roveto ardente si velerà il volto per non guardare verso Dio (cf Es 3,6), dopo però, quando farà confidenza con Lui, si toglierà quel velo e parlerà con Dio “faccia a faccia” (Es 33,11), ma sempre un faccia a faccia nella nube oscura che l’avvolgeva (cf Es 16.10; 19,9; 20,21; 24,15-18; 33,9). Mosè desiderava ardentemente vedere Dio e la sua gloria in un faccia a faccia senza oscurità e chiese di avere quest’esperienza. Dio, però, non gliela concesse che parzialmente, perché nessun uomo può vederLo e continuare a vivere in questa terra (cf Es 33,18-23), questo sarà possibile solo in Paradiso dove riceveremo una nuova capacità per farlo, prima no.
Ora – carissimi fratelli e sorelle – vedete come è necessaria questa precomprensione biblica per poter comprendere Giovanni quando parla della”gloria” di Gesù, della “gloria” di Dio? Quel Dio che aveva manifestato la sua presenza gloriosa attraverso segni terrificanti e paurosi, ora si manifesta in un modo assolutamente impensabile all’uomo biblico. Quel Dio che fa tremare i monti e scrollare i cieli, si manifesta in un uomo annientato e sconfitto, deriso, sputacchiato e umiliato, trafitto e morto, appeso lì nudo sul legno di una delle innumerevoli croci che i romani disseminavano lungo il loro passaggio nelle terre dei popoli che conquistavano.
Tre o quattro anni fa, fece una grande impressione quel film che parlava della passione di Gesù, un uomo travolto da un fiume di torture, un uomo che dalla cattiveria dell’umanità viene denudato e rivestito dal suo stesso Sangue, Agnello immolato e svenato, fallito e morto. Eppure quest’uomo è la “gloria” di Dio, è il segno più grande della “gloria” di Dio, molto più grande dei portentosi segni di un tempo. Ora Dio rende visibile la sua presenza e quindi la sua “gloria” in quest’uomo schiacciato e vinto dagli uomini. Il maestoso e trascendente Dio, l’inavvicinabile e l’invisibile Dio è lì, appeso ad un legno da tre chiodi, tutti possono ora avvicinarsi a Lui, chi infatti può aver paura di fronte a quell’uomo assolutamente impotente, nudo e morto? Eppure lì c’è tutta la “gloria” e la potenza di Dio e tutta la “gloria” che l’umanità potesse dare a Lui, perché quell’uomo è Dio stesso che si è fatto crocifiggere e ha voluto morire perché noi potessimo andare a Lui non più nella paura e nel tremore, ma nella confidenza e nella fiducia. Sì, quell’uomo è Dio, è il Figlio di Dio: “veramente quest’uomo è il Figlio di Dio!” (Mc 15,39).
«Perché Dio si è manifestato nella morte di Gesù sulla croce? Perché in quella morte l’uomo ha potuto vedere, contemplare l’Amore del Padre verso l’uomo: “Dio ha tanto amato il mondo, da consegnare alla morte il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Lo splendore dell’Essere divino rifulge nella morte di Gesù, perché in questa morte all’uomo è dato di entrare fino al cuore di Dio e vedervi solo misericordia: “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19,34). Volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, l’uomo può dire: "Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato (Gv 1,18), e quindi “noi vedemmo la sua Gloria” (Gv 1,14). Davvero, il Figlio dell’uomo è stato glorificato, perché in Lui noi possiamo vedere l’Amore del Padre» – Mons. Carlo Caffarra… 1998
Ora proprio quando Gesù parla della sua “gloria” ed è tutto proiettato nella sua prossima morte di croce, in questo contesto, Gesù lascia ai suoi il suo comandamento nuovo: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
A tutta una serie di norme e prescrizioni comandate nel Vecchio Testamento dal Dio che appariva nella nube oscura e nel fragore della tempesta e del terremoto, ora subentra, nel Nuovo Testamento, una “cosa nuova” (seconda lettura), assolutamente nuova, “un nuovo comandamento” che non distrugge quelli precedenti (cf Mt 5,17) ma li esprime in una sintesi superiore che li ingloba e li supera immensamente, questa sintesi è “l’amore crocifisso” che è la gloria di Dio e di ogni vero cristiano. Gesù comanda ai suoi l’amore, ma – attenzione! – non quello delle canzonette, non quello generico di un astratto “vogliamoci bene” e neanche quello tutto dolce di un’estate, di un momento, ma che non sa andare oltre quel trasporto e che finisce e si dilegua alla prova del tempo e della fedeltà, no! E neanche il suo fu un comandamento astratto e vago come un generico “siate più buoni” che così spesso diciamo ai fanciulli, no, assolutamente no!
Il comandamento nuovo esprime una novità assoluta che immette nel mondo la potenza creatrice di Dio che con essa fa “nuove tutte le cose” (seconda lettura), è l’Amore di Dio infatti che fa nuovo tutto! Gesù ci comanda di amare come Lui ci ha amati! Vedete, per non insegnarci più norme e cose astratte, Dio volle farsi uomo, e si fece uomo perché potessimo avere in Lui un Maestro dal Quale imparare ad amare concretamente facendo anche noi quello che Lui fece (cf Gv 13,13), tutta la sua vita fu per noi esempio e “via” (Gv 14,6) e Lui iniziò la sua lezione scendendo dalla cattedra del suo Cielo, spogliandosi della sua veste gloriosa di Dio per assumere quell’umile e povera nostra di uomini (cf Fil 2,7), continuò la lezione levandosi ancora la sua veste e lavando i piedi ai suoi discepoli (cf Gv 13,4-5) e la concluse lasciandosi spogliare della veste che aveva per morire nudo in Croce per amore nostro (cf Gv 19,23-24).
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – il comandamento che abbiamo ricevuto, esso ha due aspetti, il primo è che è un “ordine”: “Vi do un comandamento nuovo” e in quanto solo tale, ne vediamo la difficoltà d’attuazione. Tutti ammirano il Vangelo, non si trova qualcuno che non sia ammirato da come Gesù ci ha amato: un grande uomo, ha detto belle parole, ha amato in una maniera immensa, ma Lui era Lui, noi come facciamo ad amare come Lui, non siamo Gesù Cristo! Il mondo in genere si ferma al comando tutt’al più da ammirare, ma impossibile da attuare.
“Amatevi come io ho amato voi”, amare come Gesù, significa infatti spogliarsi e lasciarsi spogliare per morire in croce! Se vogliamo osservare il suo comandamento dobbiamo, sul suo esempio, spogliarci, spogliarci di noi stessi per chinarci e lavare i piedi a tutti, e consegnarci, come si è consegnato Lui a noi per amore, e lasciarci spogliare e mettere in croce come Lui: questo è l’amore che ci ha insegnato e comandato Gesù! Annunziare il Vangelo significa annunziare al mondo che amare è morire in croce e che dietro ogni croce si nasconde una possibilità unica di amare e di amore. Tutto questo per il mondo non può che essere follia, “stoltezza” (1Cor 1,18), perché il mondo aborrisce la croce e quindi, di conseguenza, necessariamente, non conosce l’amore e non sa amare. Infatti non avremo ancora imparato ad amare e quindi non avremo ancora capito cos’è l’amore, finché non avremo accettato di distenderci su una croce per morirvi sopra.
Ma se il primo aspetto del “nuovo comandamento” di Gesù è che è un “ordine”, il secondo aspetto è che è un “dono”: “Vi do un comandamento nuovo”, “vi do”, cioè “vi regalo, vi faccio un dono, un regalo”, quale? “Quello di poter amare come io vi ho amato”, infatti ben cattivo sarebbe stato Gesù se ci avesse comandato di amare come Lui senza darcene la capacità, e Gesù non è certamente cattivo! Lui è buono, infatti è il Dio infinitamente buono che ci ama dall’eternità (cf Ger 31,3) per questo Gesù insieme al “comandamento nuovo” ci ha regalato anche il suo stesso Spirito, lo Spirito Santo che è Amore sussistente che ci rende capaci di amare come Lui ha amato noi e che ci permette quindi di poter dire in tutta verità: “Sono stato crocifisso con Gesù e non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me!” (Gal 2,20).
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – siamo nel mese di maggio, mese mariano tanto a noi caro, chiediamo alla Vergine Santa che ci insegni ad aprirci all’azione in noi dello Spirito Santo, affinché la nostra vita diventi feconda d’amore come la sua divenne feconda di Gesù avendo creduto che veramente “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Solo allora diventeremo credibili e renderemo credibile Gesù e il suo Vangelo così troppo spesso offuscato e reso vano dalla nostra vita concreta di cristiani che, purtroppo, non sanno ancora amare come Lui ci ha insegnato.
Amen. j.m.j.
Sesta Domenica di Pasqua – Anno C Omelia
«Se uno mi ama…»
Carissimi fratelli e sorelle,
nella prima lettura abbiamo ascoltato del Primo Concilio della Chiesa. C’era un problema, ed era grosso, il primo grande problema che dovette affrontare la Chiesa dei primi tempi: coloro che provengono dal paganesimo per essere battezzati devono ricevere prima la circoncisione o no? Cioè chi è cristiano deve sottostare anche a tutte le prescrizioni della Legge Antica o no? Sappiamo come reagirono gli Apostoli affermando con autorità che non ce n’era di bisogno.
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, domenica scorsa abbiamo parlato dell’apostolicità come garanzia di essere nella Chiesa di Gesù, oggi la Parola ci ricorda anche che gli Apostoli hanno un’autorità, autorità che è conservata dai loro legittimi successori. Questa autorità è un servizio, un ministero, in funzione della “verità”, la verità infatti va non solo custodita, e trasmessa, ma anche difesa, perché è sempre in agguato l’errore che vorrebbe vanificarla. Sono molti oggi che vorrebbero una Chiesa comunione d’animi, di cuore, senza che ci sia come fondamento una comunione nella verità, ma senza una verità di fede comune non c’è neanche Chiesa e infatti il proliferare di sette e similari è indicativo di un tempo come il nostro che, troppo superbo per accettare un’autorità, rifiuta conseguentemente la verità per pascersi di opinioni e incertezze. Il nostro appartenere alla Chiesa Cattolica non può essere derivante da un vago sentimento, dai semi di una cultura e educazione ricevuta, ma si deve radicare nell’adesione del nostro cuore e della nostra mente ad una fede, una verità creduta, amata, professata e testimoniata, una verità, che ha la “V” maiuscola e che è una persona, la Divina Persona di Gesù Cristo, “Via, Verità e Vita” nostra (Gv 14,6) che a noi si offre attraverso la mediazione della sua Chiesa.
Veniamo ora al Vangelo di oggi.
Il brano odierno è posto nel contesto dell’Ultima Cena, si tratta dell’ultima lezione del Maestro ai suoi discepoli, dopo un corso durato tre anni, ora la lezione di sintesi che compendia tutti i suoi insegnamenti ed è una lezione che sconvolge gli apostoli.
È una lezione che li sconvolge, prima di tutto quel spogliarsi del loro Maestro per lavare loro i piedi (cf Gv 13,1ss), gesto che non capiscono, molto probabilmente non capiscono neanche il comando espresso loro di fare altrettanto, di lavarsi i piedi gli uni gli altri, ci vorrà lo Spirito Santo per far capire tutto bene!
Subito dopo Gesù continua la sua lezione di sintesi esplicitando ancor di più il gesto della lavanda dei piedi, comandando loro di amarsi gli uni gli altri come Lui li aveva amati, e afferma che questo è il suo nuovo comandamento: l’amore che serve e si dona, si spoglia e lava i piedi. Amore che fra poco Lo porterà a lasciarsi spogliare per morire nudo in croce, cosa che gli apostoli ancora non sanno.
Gesù comanda agli apostoli di amarsi come avevano visto fare da Lui, questo comando deve averli scioccati: Come fare ad amarsi come li aveva amati Lui?
E poi, ecco che Gesù si mette a dir loro che sta per andarsene via, sta per lasciarli soli, sono quindi turbati, hanno paura, sanno che i Giudei vogliono ucciderLo e che rischiano anche loro la morte. Finché sono insieme con Lui la paura viene vinta, ma il pensiero di essere lasciati soli li angoscia.
In questo contesto di angoscioso timore, Gesù continua la sua ultima lezione, gli ultimi insegnamenti, le sue ultime disposizioni, il suo testamento. Dopo aver insegnato loro cosa dovevano fare, e cioè amare come avevano visto fare da Lui, ora Gesù insegna loro il “come”.
Ogni volta che qualcuno si trova davanti al progetto di Dio su di sé, ogni volta che qualcuno si trova davanti a ciò che Dio vuole che lui faccia, la domanda è sempre la stessa: “Come è possibile? (Lc 1,34) Come è possibile che io faccia questo?”. Per questo Gesù, subito dopo spiega come sarà possibile per loro amare come Lui. Per amare come Lui bisogna prima di tutto amare Lui, Gesù non si limita a dirlo una volta: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti…” (Gv 14,15), ma lo ripete: “Se uno mi ama osserverà la mia parola” (Gv 14,15.23). È l’amore a Gesù il segreto che permette al cristiano di amare come Gesù, se non Lo si ama è impossibile vivere i suoi comandamenti, Gesù anche questo lo dice esplicitamente: “Chi non mi ama non osserva la mia parola” (Gv 14,24).
Per questo, se noi vogliamo portare qualcuno a vivere il Vangelo, ad amare come Gesù ci ha insegnato, è importante puntare innanzi tutto a che questi s’incontri con Gesù: è solo un incontro prolungato con Gesù che può determinare la decisione di vivere il Vangelo.
Il Vangelo, infatti, impone uno stile di vita alto, esigente, difficile che Gesù non ha mai nascosto, Gesù è sempre stato chiaro sul fatto che “stretta è la porta e angusta la via che porta alla vita” (Mt 7,13). Il cristiano non osserva una dottrina, ma segue una Persona, Gesù Cristo, e una persona si può seguire solo per amore.
Quando qualcuno incomincia ad amare Gesù ecco che succede qualcosa di meraviglioso: incomincia a piacergli quello che prima non gli piaceva e incomincia a disprezzare quello che prima desiderava fortemente. Quello che prima gli sembrava avere valore, ora lo giudica “spazzatura” (Fil 3,8), quello che prima sembrava riempirgli la vita di senso e di valore, ora invece gliela svuota e gliela inaridisce, quelle cose che prima gli sembravano impossibili a farsi ora le fa con facilità, tutta la vita viene ribaltata, scombussolata, sconvolta dall’amore per Gesù e dall’amore di Gesù. Ma cosa è avvenuto? È avvenuto che la persona ha cominciato ad amare Gesù, ma, quando possiamo dire che qualcuno inizia ad amare Gesù? Quando, avendo incontrato Gesù e essendo rimasto affascinato da Gesù, colpito da Gesù, dal suo modo di essere, di agire, di pensare, di vivere, vuole seguirLo, vuol vivere come Lui e comincia a fare come Lui, comincia a trasformare la parola del Vangelo udita in parola di vita, di vita sua concreta. Nel momento che avviene questo passaggio, almeno il tentativo di questo passaggio dalla Parola udita alla Parola vissuta, inizia l’amore a Gesù, finché non inizia, non c’è ancora amore per Gesù. È solo quando la persona si cimenta a vivere il Vangelo, che ama Gesù. Forse non ci riuscirà pienamente, ma il fatto che ci sta provando è segno che sta amando Gesù.
Questo inizio, dunque, avviene dando fiducia a Gesù, credendo in Lui, in un certo senso, è come se si scommettesse che Gesù ha ragione, si punta su Gesù, si scommette su Gesù e ci si compromette la propria vita sulla sua Parola. Ora tutto questo non lo si può fare se non per fede, l’amore a Gesù nasce e fiorisce dalla fede in Lui, dall’aver creduto in Lui e si ha fede in Lui nella misura in cui si dà credito a quanto ha detto compromettendo la propria vita. Decidersi a mettere in pratica il Vangelo significa essere convinti che Gesù non ci ha ingannati, e che il suo Vangelo è possibile viverlo.
Quando la persona si butta, si compromette esistenzialmente con scelte concrete di vita evangelica sta amando Gesù e Gesù quando vede qualcuno che Lo ama che fa? Ce l’ha appena detto: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
E in questo modo che i suoi apostoli non perderanno la sua presenza. Gesù li aveva scelti e chiamati a sé, “perché stessero con Lui” (Mc 3,14), e ora che li lasciava indicava loro come fare perché possano godere ugualmente della sua presenza: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Non devono quindi avere più timori, paure, perché Lui sarà sempre con loro, sempre in loro se loro Lo ameranno, la garanzia della sua presenza è il loro stesso amore per Lui.
Quell’amore per Lui, attirerà in loro l’amore del Padre che non può non amare chi ama suo Figlio e verrà in loro con il dono del Figlio ad inabitarli con la sua grazia. Ma per tener vivo il loro amore a Gesù, gli apostoli dovranno tener viva in loro la sua Parola, dovranno ricordarsi i suoi insegnamenti, per questo Gesù manda loro il suo Santo Spirito che fa sì che la sua Parola non sia un ricordo della loro mente, ma una Parola viva nel loro cuore.
Lo Spirito Santo fa dunque in modo che il nostro cuore sia il luogo dove la Parola di Gesù viene continuamente ricevuta e diventa luce per la nostra vita, senza lo Spirito Santo la Parola di Gesù è la parola di qualcuno che disse qualcosa di bello, ma nulla di più, è lo Spirito Santo rende quella parola, udita o ricordata, luce che illumina e trasforma la vita.
E così si diventa dimora di Dio, inabitati da Dio! Già ora nella grazia si vive quella dimensione che sarà in pienezza lassù, nella Gerusalemme del cielo dove non ci sarà più nessun tempio (seconda lettura), “perché Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28). La realtà del paradiso inizia già ora se amiamo Gesù, se amiamo Gesù diventiamo dimora sua e del Padre, siamo già in paradiso perché Dio vive in noi e noi viviamo in Lui.
La Vergine Maria che fu la prima nella quale si realizzò il desiderio della Trinità di dimorare nel cuore della persona umana, ci insegni ogni giorno a come fare per essere dimore sempre più splendenti, luminose e traboccanti di Dio.
Amen. j.m.j.
OMELIA DELL'ASCENSIONE – PRIMO SCHEMA
Solennità dell’ Ascensione al Cielo di N.S.G.C. – Omelia
“Ecco io sono con voi tutti i giorni”
Carissimi fratelli e sorelle, celebriamo oggi una Solennità importantissima della nostra fede, ma così tanto poco capita, apprezzata, vissuta, testimoniata. Ecco, allora dispiegheremo questa omelia su questi quattro punti:
1. Capire l’Ascensione di Gesù 3. Vivere l’Ascensione di Gesù
2. Apprezzare l’Ascensione di Gesù 4. Testimoniare l’Ascensione di Gesù.
1. Capire l’Ascensione di Gesù.
Cosa ci dice questo mistero della vita di Gesù, cosa è successo? Bisogna innanzitutto precisare che non si tratta di un’Ascensione fisica al cielo, di un salire fisico di Gesù, bensì si tratta dell’inizio di una situazione nuova dell’umanità di Gesù Cristo che viene espressa da questo salire al cielo. Stiamo parlando di Gesù Cristo, Egli è il Verbo, il Figlio del Padre, l’unico Dio con Lui e lo Spirito Santo. Egli, nella pienezza dei tempi si era fatto uomo nel seno della Vergine (cfr. Gal 4,4), si era – per così dire – svuotato della sua divinità per farsi uomo come noi, essere umiliato e crocifisso e morire per noi (cfr. Fil 2,6ss). Risorto al terzo giorno, dopo essere apparso in diversi luoghi e tempi lungo quaranta giorni ai suoi discepoli e averli ammaestrati ulteriormente (cfr. At 13,29-31), oggi la sua umanità risorta viene pienamente glorificata dal Padre (cfr. Gv 7,39; 12,16.23.28; 17,5) ed entra definitivamente nella dimensione della gloria eterna della Trinità.
Egli quindi nel suo mostrarsi ai suoi mentre ascende vuole significare l’entrata definitiva del suo corpo glorificato nella dimensione del cielo, dell’eternità. Vedete, il cielo, l’eternità è il mondo intimo di Dio e questo mondo di Dio non ha un luogo, perché Dio non può essere circoscritto, racchiuso da un luogo, si tratta di un’altra dimensione della realtà, dimensione nella quale ciascuno di noi s’inserisce per virtù della FEDE.
Vedete, ecco un primo richiamo forte che fa a ciascuno di noi questa Festa dell’Ascensione: crediamo veramente, nel cielo, nell’eternità… crediamo veramente in Dio? Ricordate come fu sciocco il primo cosmonauta dell’umanità, quel tizio russo che disse navigando per la prima volta al di sopra dei cieli terrestri: “Sono stato in cielo, ma Dio non l’ho visto!”. Ma se l’avesse visto, quello che vedeva non poteva essere Dio, perché Dio non si vede, se si vede qualcosa non è Dio quello che si vede. Dio si raggiunge, si tocca, si vede, si ascolta, ci s’incontra con Lui solo con la fede, non con i sensi o gli strumenti della tecnica.
Inoltre, badate bene, anche coloro che ebbero la grazia di vedere Gesù fisicamente, di sentirlo, di toccarlo, vedevano il Padre in Lui, vedevano Dio in Lui solo attraverso la FEDE, per questo alcuni credettero in Lui altri, molti, no.
Per questo dopo la risurrezione nelle sue apparizioni – se ci avete fatto caso in questo tempo pasquale in cui ne abbiamo fatto memoria – Lui mai veniva riconosciuto subito da coloro a cui appariva. Non lo riconobbero infatti pur vedendolo con gli occhi: i discepoli di Emmaus credevano che fosse un viandante (cfr. Lc 24,15-16), la Maddalena pensò che fosse un giardiniere (cfr. Gv 20,15), gli Apostoli nel cenacolo un fantasma (cfr. Lc 24,35) e sul lago credettero che fosse una persona affamata (cfr. Gv 21,4), no, non erano gli occhi del corpo che permisero a tutti loro di vederlo, ma quelli della FEDE. E Gesù chiama beati noi se crediamo senza vedere! (cfr. Gv 20,29) Ascendendo al cielo, Gesù, entrando definitivamente nella dimensione del Cielo, inaugura il tempo della FEDE. Oggi è la festa della FEDE. Che cosa grande che è la Fede… che cosa potente che è la Fede… che cosa bella che è la Fede: mi fa vedere Dio senza vederLo, sentirLo senza sentirLo, toccarLo senza toccarLo. Beati noi se abbiamo Fede, beati noi! Beati noi perché vediamo Dio, sentiamo Dio, tocchiamo Dio… ma dove vediamo Dio? dove sentiamo Dio? dove tocchiamo Dio? Noi vediamo, sentiamo, tocchiamo Dio nel Cielo: “…Padre nostro che sei nei cieli…” (Mt 6,9) e il Cielo di Dio è il nostro cuore… il Cielo di Dio è la nostra anima… il Cielo di Dio è l’intimità più intima della nostra persona! Siamo noi la casa di Dio, la sua santa dimora, il suo tabernacolo vivente… Dunque noi siamo già con Gesù nel Cielo perché Egli è in noi e noi siamo in Lui e se Egli è in noi, anche il Padre è in noi e noi nel Figlio, e così diventiamo Uno nel Padre e nel Figlio (cfr. Gv 17,20ss) per mezzo del Loro Spirito che riversano in noi (cfr. Rm 5,5)
2. Apprezzare l’Ascensione di Gesù
Apprezzare, cioè capirne il valore: “È bene per voi che Io me ne vada!” (Gv 16,8). È un bene per noi che Gesù sia asceso, cioè che non si veda più perché così ha eliminato quella distanza che si era creata tra noi e Dio con l’Incarnazione. Sì, carissimi fratelli e sorelle, poco ci pensiamo, anzi spesso affermiamo esattamente il contrario perché grande è il mistero di cui parliamo e come ogni mistero quando crediamo di averlo inscatolato ci sfugge e trascende le nostre categorie.
Nell’Incarnazione noi solitamente vediamo il mistero dell’avvicinarsi di Dio all’uomo perché in Gesù in quel Bimbo che cresce in Maria, che vagisce nel presepe, che diventa adulto a Nazareth, che predica lungo le strade della Palestina, che muore in croce dissanguato d’amore per noi e il terzo giorno risorge, vediamo Dio che si china su di noi, si fa vedere con occhi del corpo, udire con le orecchie, toccare con le nostre mani:
“Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" – 1Gv 1,1-2.
Ma quanto poco riflettiamo che questo svuotarsi di Dio nel farsi uomo e farsi vedere, ha creato una distanza tra noi e Lui che prima non c’era, è appunto per ripristinare la vicinanza con noi che Gesù oggi ascende al Cielo. Fratelli e sorelle oggi non celebriamo la festa del distacco, la festa della lontananza, bensì la festa della vicinanza, la festa della presenza. Sì, perché in seguito all’Incarnazione Dio ha creato una distanza tra noi e Lui, una distanza perché in quanto si è fatto uomo cogliamo la sua presenza fuori di noi, è quella distanza che permette di vederLo, sentirLo, toccarLo, se non assumeva un corpo non poteva essere oggetto dei nostri sensi e quindi coglierLo fuori di noi, distante da noi. Ma Lui, essendo Dio è presente in ogni essere, nell’intimo di ogni essere: “In Lui infatti ci muoviamo, viviamo ed esistiamo” (At 17,28). Ora per il fatto che Egli è asceso ha ristabilito la vicinanza, per questo gli angeli scuotono i discepoli che se ne stanno imbambolati a guardarLo ascendere tra le nubi (cfr. At 1,10-11) li scuotono perché non è più il tempo di cercarLo con i sensi, con gli occhi, le orecchie, le mani del nostro corpo, è il tempo di coglierne la sua presenza non più fuori di noi, ma in noi:
“Padre, non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo”. – Gv 17, 20-24
3. Vivere l’Ascensione di Gesù
Capite bene dunque che vivere l’Ascensione significa vivere di Fede, illuminati dalla Fede, orientati dalla Fede, radicati e fondati nella Fede. Vedere dunque la nostra vita dall'Alto Cielo di Dio perché Lui è in noi e noi siamo in Lui e Lui ci porta in alto, in alto pur rimanendo con i piedi ben piantati per terra, ma il nostro cuore è già lassù con Lui.
4. Testimoniare l’Ascensione di Gesù
Testimoniare l’Ascensione significa introdurre il cielo nella terra, essere lo strumento di Dio nel mondo perché il mondo si incontri con l’Eterno, perché il mondo si apra a quella dimensione che lo sommerge e lo invade senza che esso se ne accorga distratto com’è dalle cose sensibili e dalle preoccupazioni del suo vivere.
Come introdurre quest’Eterno nel tempo storico della nostra esistenza? È il mistero dell’incarnazione che continua attraverso di noi. Infatti se Gesù, il Verbo, il Figlio, è vivo in me nel cuore del mio cuore, nel tabernacolo vivo della mia persona, se Lui è lì, Lui si farà Lui vedere, sentire, toccare attraverso di noi, attraverso le nostre persone e quindi attraverso il nostro corpo.
E allora, fratelli e sorelle – ma ci avete mai pensato com’è bello! – e allora le mie mani diventano le mani di Gesù: quelle mani che toccarono per consolare, aiutare, guarire, perdonare. E allora i miei piedi diventano i piedi di Gesù: quei piedi che tanto si affaticarono per andare a cercare la pecorella smarrita, per andare incontro a chi lo cercava. E allora il mio sguardo diventa lo sguardo di Gesù: quello sguardo pieno di compassione, di benevolenza, quello sguardo pulito, limpido, fraterno, gioioso con cui Lui guardò ogni uomo, ogni donna, ogni giovane, fanciullo, bimbo. E allora il mio cuore diventa il cuore di Gesù: quel cuore così preso dall’Amore del Padre che si cibava di esso (cfr. Gv 4,34), quel cuore così assetato d’amore che lo mendica alla Samaritana (cfr. Gv 4,7) e ad ogni uomo gridandogli: “Ho sete!” (Gv 19,28). Allora, se Gesù è in me e io sono in Lui, Lui vive in me e io vivo per Lui (cfr. Gv 6,57), tutta la mia persona diventa manifestazione di Dio, ogni mio gesto, ogni mio atto, ogni mia parola diventa il canale su cui Dio vuol far passare se stesso, vuole rendersi presente materialmente Lui che, appunto perché Dio, trascende ogni materialità.
Concludo. Come al solito voi direte, giustamente: “Padre, che belle parole… ma la nostra vita è così distante da queste parole. Parole belle… ma la vita concreta è tutt’altra cosa! Lei ci parla di far vedere Dio nella nostra quotidianità, noi invece nella nostra realtà vediamo una realtà così tanto misera, povera, debole, peccatrice…”.
È vero, ma è qui, proprio qui, in questa esistenza misera e debole che viviamo, che scatta la FEDE: crediamo veramente che Dio voglia assumere la nostra miseria per manifestarsi Salvatore del mondo? Questa è la nostra Fede, esattamente questo: noi crediamo che Lui desidera assumere la nostra miseria per salvare il mondo con la sua misericordia.
Maria ha creduto, ha avuto Fede, attingiamo allora alla Fede di Maria se vediamo che la nostra è fragile, debole, vacillante, attingiamo da Lei, lasciamoci aiutare da Lei ad aprirci come si aprì Lei all’Eterno permettendoGli di farsi uomo per noi. La stessa Potenza d’Amore divino è messa a nostra disposizione del Padre perché si realizzi in noi la vita del Figlio di Maria, la vita di Gesù benedetto!
Ecco, fratelli e sorelle, abbiate questa Fede e permettete a Dio di crescere in voi, permettete a Dio di fare cose belle, cose grandi in voi, permettete a Dio di amarvi e di farvi nuovi nel suo amore (cfr. Ap 21,5). Permettete a Dio di assumere la vostra miseria perché finalmente possa manifestare la sua misericordia!
Amen.
OMELIA DELL'ASCENSIONE – SECONDO SCHEMA
Solennità dell’Ascensione al Cielo di N. S. Gesù Cristo – Anno C Omelia
«Perché state a guardare il cielo?»
Carissimi fratelli e sorelle,
questa Solennità dell’Ascensione di N. S. G. C. che cade in questo Anno C, in cui siamo guidati dall’evangelista Luca, ci invita a spendere due parole sull’opera ispirata di Luca, che trova appunto in questo mistero dell’Ascensione il suo cuore e il suo messaggio teologico fondamentale, che è un messaggio si speranza.
L’Ascensione di Gesù forma il cuore dell’opera lucana, formata dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli, infatti in essa è raccontata due volte: una volta viene raccontata alla fine del suo Vangelo e una volta all’inizio del racconto degli Atti, e i due racconti sono entrambi riportati dalla Liturgia della Parola odierna.
Vedete, Luca organizza tutta la sua opera su un’idea fondamentale che diventa ad un tempo, struttura attorno a cui distende i suoi racconti della vita di Gesù e della Chiesa e, contemporaneamente, messaggio teologico fondamentale che vuole trasmettere ai suoi lettori. Quest’idea teologica fondamentale su cui si struttura l’opera lucana è il “Viaggio”: il Vangelo è il viaggio di Gesù da Nazareth a Gerusalemme, gli Atti sono il viaggio della Chiesa da Gerusalemme ai confini del mondo e dei tempi. Ma questo secondo viaggio della Chiesa ai confini del mondo e dei tempi, non si contrappone a quello di Gesù da Nazareth a Gerusalemme, bensì ne è il proseguimento, è sempre il viaggio di Gesù, Gesù che è vivo, presente e operante più che mai nella sua Chiesa per mezzo del suo Santo Spirito. È il mistero dell’incarnazione che si estende nella Chiesa in cui vive il Figlio di Dio, la Chiesa quale suo Mistico Corpo (cf 1Cor 12,27; Ef 1,23; 4,12; Col 1,18) e sua “Sposa Immacolata” (cf Ef 5,27.32; Ap 21,9; 22,17; 2Cor 11,2) realizza nel mondo una nuova e più intima presenza del Verbo Incarnato.
Domenica scorsa gli Atti ci hanno raccontato del primo gravissimo problema che afflisse la Chiesa nel suoi inizi: si dovevano ancora osservare tutte le prescrizioni del VT compresa la circoncisione o no? Sappiamo quale fu la soluzione, ma sappiamo come non furono poche le difficoltà che questa assoluta novità del Vangelo portò in mezzo ai primi cristiani che erano tutti provenienti dall’ebraismo, e come molti di essi si scandalizzarono profondamente del fatto di dover tagliare con Mosè e le sue norme.
Gli Apostoli, nella loro sequela di Gesù e nella maturazione della loro vocazione, furono purificati dallo Spirito Santo su diverse concezioni sbagliate che formavano la loro mentalità. Essi, infatti, si erano costruiti un’idea personale di Dio e del suo Messia. Sappiamo come il primo scandalo o meglio la prima delusione profonda che dovettero superare fu l’idea falsa che avevano di un Messia glorioso e potente. Pietro rappresenta, con le sue difficoltà ad accettare l’umiliazione del suo Gesù (cf Mc 8,32-33), le difficoltà degli altri Apostoli, i quali, tutti – più o meno – desideravano sedersi a destra o a sinistra di quel trono sul quale il loro Gesù, pensavano, si sarebbe presto seduto (cf Mc 10,37).
Superato lo scandalo dell’umiliazione del loro Gesù, una volta che L’hanno visto e toccato risorto e vivo, gli Apostoli e, insieme con loro, i discepoli, devono superare ora un altro scandalo, un’altra delusione. Questa nuova purificazione della fede della Chiesa viene espressa dalla domanda che Luca riporta in quel brano degli Atti che abbiamo appena letto: “Signore è questo il tempo in cui ricostituirai il Regno d’Israele?”. Quell’idea di un Messia trionfatore non cessa di essere presente nel gruppo apostolico e nei primi discepoli, i quali fanno fatica ad accettare un Regno di Dio essenzialmente spirituale. Ora che L’hanno visto risorto e vivo, vorrebbero che tutti Lo vedessero e riconoscessero come Signore e Messia e che quindi potesse regnare, ma, badate bene, anche loro regnerebbero con Lui, perché parlano appunto di un nuovo regno, ma sempre d’Israele e loro sono israeliti. Quindi ecco la seconda, profonda, delusione che gli Apostoli dovevano superare: la delusione di vedere come Gesù non si imponesse con la potenza della sua resurrezione a tutto il mondo e non volesse regnare con la sua potenza e forza nella storia del mondo, ma solo nel cuore dei fedeli che avrebbero creduto in Lui.
Con la loro domanda, gli Apostoli e i discepoli mostrano come non pensassero affatto ad una sua ascensione al cielo, non pensassero al trono glorioso sul quale stava per sedersi alla destra del Padre, ma ad una sua presenza gloriosa quaggiù, riconosciuto e acclamato Re e Signore di tutti. In fin dei conti è sempre il loro pregiudizio di prima, per il quale non riuscivano ad accettare la croce, che riemerge sotto un’altra veste, e il loro desiderio rimane sempre lo stesso: sedersi a destra o a sinistra del suo trono terreno del nuovo Israele.
Gesù li delude ancora una volta perché se ne ascende al cielo, se ne torna al Padre e li lascia lì soli. Rimasti soli, gli Apostoli e i discepoli, che fanno? Se ne rimangono lì con gli occhi in su, a scrutare le nubi del cielo, nelle quali era scomparso il loro Gesù che non avrebbero mai più rivisto quaggiù. Ci vorranno due angeli per scuoterli e farli ritornare a Gerusalemme.
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – bisogna che qui prestiamo la nostra massima attenzione, perché siamo nel cuore del messaggio di Luca. Propriamente Luca scrive a dei cristiani che erano profondamente delusi, a dei cristiani che avevano perso la speranza perché l’avevano fondata su dei preconcetti, delle idee personali, e non sulla promessa di Gesù. I cristiani a cui scrive Luca sono raffigurati da questi Apostoli e discepoli che sono lì fermi a guardare il cielo da dove è sparito il loro Gesù, guardano il cielo perché aspettano di scorgere qualche altro segno di Lui. Ma ci si stanca a scrutare in continuazione le nubi, ci si stanca a tenere il viso sempre rivolto verso l’alto e prima o poi si abbassa lo sguardo e si ritorna a casa delusi.
Questa sarà una delle prove più tremende della Chiesa dei primi secoli: la delusione per il mancato ritorno di Gesù! Infatti alcune parole di Gesù erano state interpretate come promessa di un suo prossimo e vicino ritorno (cf Lc 21,32; Mt 24,34) confondendo quanto Gesù riferiva alla distruzione della città di Gerusalemme a quanto si riferiva alla fine del mondo e al suo ritorno glorioso.
I cristiani vedendo che il loro Gesù non tornava più – i giorni passavano e gli anni con loro – si erano demoralizzati e avevano perduto la speranza e con essa la vitalità della loro fede: erano cristiani smorti! A questi cristiani Luca rivolge il suo Vangelo per riaccendere in loro la speranza che, prima di essere attesa di un ritorno, è esperienza di una presenza. Luca vuole fare quello che fecero quei due angeli, vuole scuotere i cristiani demoralizzati e affranti che, profondamente delusi per il mancato ritorno del loro Gesù, se ne stanno avviliti e scoraggiati, e con il suo Vangelo grida loro: “Cristiani perché ve ne state a guardare il cielo? Dovete tornare alle vostre case, ai vostri lavori, dovete tornare nelle strade del vostro mondo e illuminarle con la luce del Vangelo (cf Mt 5,13-16), avete ricevuto dal Padre la missione di comunicare ai vostri fratelli il senso profondo della loro esistenza, unico senso della vita e del mondo: Gesù Cristo (cf At 4,12; Gv 14,6; 1Tm 2,5) e “ Gesù Cristo vivo in voi” (Col 1,27) che credete in Lui”.
Luca vuol far capire ai cristiani che è un bene per loro che Gesù se ne sia salito al Padre (cf Gv 16,7), infatti se non se ne fosse salito non poteva rendersi presente così come voleva in loro. Se Gesù non fosse asceso al Cielo, loro avrebbero continuato a ricercarLo fisicamente nel mondo e non avrebbero mai realizzato che ora Gesù non è più presente fisicamente, ma che ora è presente spiritualmente, con il suo corpo glorificato, riempiendo così ogni cosa e rendendo i suoi fedeli, attraverso l’azione del suo Santo Spirito, partecipi della sua pienezza (cf Ef 1,22-23).
Con l’Ascensione al Cielo s’inaugura una nuova e più grande e più intima presenza del Signore Gesù in mezzo ai suoi, non più una presenza fisica, vicina, sì, ma sempre esterna e esteriore, ma una presenza intima, spirituale, ma nondimeno reale, per mezzo del suo Santo Spirito. Occorre quindi una nuova modalità di conoscenza in quanto Gesù non va più conosciuto secondo la carne, ma secondo lo Spirito (cf 2Cor 5,16), questa nuova modalità di conoscenza del Verbo è la “fede”, da adesso in poi Gesù non sarà più visto con gli occhi, toccato con le mani, sentito con l’udito, non sarà più possibile conoscerLo così, non sarà più possibile conoscerLo con i sensi, ma sarà possibile, sentirLo, vederLo e toccarLo esclusivamente con la “fede”.
Per questo Luca mette in risalto un paradosso, un’apparente contraddizione: gli Apostoli e i discepoli tornano a Gerusalemme dopo l’Ascensione, cioè dopo che il loro Gesù li aveva lasciati per sempre, “pieni di gioia”. Come fanno ad essere pieni di gioia se Lui li ha abbandonati? Loro sono pieni di gioia perché hanno capito che quell’assenza è esperienza di una nuova presenza, più grande e più intima di Gesù non in mezzo a loro, ma “in loro”. Attraverso la Chiesa il Verbo di Dio si renderà quindi presente a tutti i tempi e in tutti i luoghi, il mistero della sua incarnazione nel seno della Vergine Maria viene così esteso dalla Chiesa ad ogni uomo che in ogni tempo viene chiamato a realizzare di essere portatore di una presenza, della presenza di Gesù in sé, Gesù risorto e vivo che vive in Lui per mezzo del suo Santo Spirito che ci ha donato, questo è il mistero dei misteri che annunciava Paolo:
“Il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da Lui e che agisce in me con potenza” – Col 1,26-29
Ecco, questo era l’intento di Luca: rivitalizzare i cristiani avviliti e delusi perché, sperando e attendendo un imminente ritorno fisico di Gesù, divennero dimentichi della sua presenza viva e potente nel loro cuore. Per questo Luca è quanto mai attuale anche per noi, con il suo messaggio di speranza. Di quella speranza che, però, è ben lungi dall’essere frutto dell’esperienza del vuoto di un’assenza, ma che è consapevolezza di un’intima presenza che riempie la vita di gioia, di senso e di amore. Infatti, cosa può più rivitalizzare il cristiano nei suoi momenti di stasi, di affievolimento nella fede, di decadimento nella speranza, di intiepidimento nell’amore, se non la rinnovata presa di consapevolezza della presenza nell’intimo del proprio cuore orante, del Signore Gesù risorto e vivo?
E a quei tanti cristiani che inseguono il soprannaturale nella forsennata ricerca del portentoso, del miracoloso, del segno eclatante, delle apparizioni varie del Signore, della Madonna e degli Angeli e di fenomeni del genere, Luca ricorda che il segno più grande che possa toccare il cuore e la mente di chi non crede, è la testimonianza concreta e quotidiana del suo Vangelo fatta dai cristiani. È attraverso la vita dei suoi fedeli che il Signore Gesù desidera manifestarsi al mondo come risorto e vivo, ogni cristiano dovrebbe infatti essere un’opportunità data al mondo perché possa credere che Gesù è veramente risorto. Ecco la missione della Chiesa: far conoscere Gesù Cristo attraverso la vita dei suoi membri nel cuore dei quali Lui è presente, risorto e vivo. E aiutare così l’umanità ad incontrarsi con Lui quando tornerà, in quel giorno nascosto a tutti, quando Lui verrà a chiudere per sempre il libro della storia (seconda lettura).
La Vergine Maria, che più di ogni altro visse in Palestina l’esperienza terrena della presenza in sé di Gesù, oggi dal Cielo, attraverso la Chiesa, c’invita a renderci sempre più consapevoli del suo Figlio vivente in noi, e c’invita a farci piccoli per farGli spazio e farLo crescere (cf Gv 3,30) e così il mondo possa! – finalmente! – accorgersi di Lui (cf Gal 4,19). Amen.
j.m.j.
OMELIA DI PENTECOSTE – PRIMO SCHEMA
Solennità della Pentecoste Omelia
“Ricevete lo Spirito Santo!”
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo oggi in questa Solennità di Pentecoste il compimento del mistero pasquale di Gesù Cristo: è il frutto pieno della Pasqua di Gesù! Nella liturgia odierna celebriamo l’inizio della Chiesa, non solo nel senso che facciamo memoria liturgica del suo evento fondatore storicamente avvenuto circa duemila anni fa, ma anche nel senso che celebriamo un evento che continuamente accade e che fa sì che la Chiesa possa esistere nel tempo.
Questo evento viene ad essere originato da tre fatti: la venuta del Risorto, l’effusione dello Spirito, la comunione degli animi.
Il primo fatto è raccontato dal Vangelo che abbiamo proclamato: “Venne Gesù a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. La comunità cristiana è tale perché visitata dal Risorto.
«È questo incontro che fa di noi la Chiesa. Ed è un incontro che ha tutta la meraviglia, lo stupore e la gioia di un incontro vero con una Persona in carne ed ossa: “Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signor”". Non è una “visione” che essi hanno; non è una “esperienza religiosa” vissuta nella loro interiorità che essi vivono. Essi gioiscono perché vedono il Signore nel suo stesso corpo [le mani e il costato] che solo due giorni prima avevano visto deposto in un sepolcro. Carissimi fratelli, carissime sorelle: il nostro essere Chiesa nasce da questo incontro col Signore vivo e risorto. La Chiesa non è la comunità di coloro che imparano l’insegnamento di Gesù Cristo – un maestro del passato – e cercano di viverlo. La Chiesa è questa comunità che gioisce perché oggi, ogni giorno incontra il Signore risorto, dal momento che Egli, il Vivente nei secoli, resta con noi ogni giorno fino alla fine del mondo» – Mons. Carlo Caffarra …
La Chiesa non è un insieme di persone che ricordano con tanto affetto un morto! La Chiesa è comunità di persone visitate dal Risorto, è costituita essa stessa da questa visita reale ed efficace. Perché i suoi non dubitassero che fosse proprio Lui, Egli “mostrò loro le mani e il costato”, il Risorto mostra le sue piaghe glorificate. Egli non ha voluto che la gloria della risurrezione le cancellasse come se fossero un brutto ricordo da dimenticare, ma ha voluto che fossero sempre presenti nella gloria della risurrezione perché mai nessuno dimenticasse quell’amore infinito con il quale è stato amato e che ha portato la “Vita” (Gv 14,6) a subire la morte.
Poiché la Chiesa è originata dalla visita del Risorto, Essa è strettamente congiunta all’Eucaristia: ogni Eucaristia è fatta dalla Chiesa e nello stesso tempo edifica la Chiesa, costruisce la Chiesa, genera la Chiesa, perché rende presente il Risorto. Lo rende presente fisicamente nel segno del pane e del vino, segni sacramentali di Lui Stesso nella sua immolazione d’amore: Corpo immolato, Sangue versato! Segni che Lo rendono presente nel suo donarsi al Padre in riscatto dell’umanità, nel suo gesto finale di consegna alla morte per amore. Non ci può essere Chiesa senza Eucaristia: è dall’esperienza della Eucaristia che nasce e matura la Chiesa perché attraverso di essa oggi il Risorto si incontro con i suoi.
Ma come è possibile questa esperienza oggi? È necessario un secondo fatto perché essa si realizzi:
«È il fatto descritto molto brevemente nel Vangelo con le seguenti parole: “Dopo aver detto questo alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo” . È il fatto descritto in modo più completo nella prima lettura: la discesa dello Spirito Santo. Ed è qui che tocchiamo il vero momento in cui nasce la Chiesa (ogni Chiesa: quindi anche la nostra Chiesa): il dono e l’effusione che il Signore risorto fa del suo Spirito. Egli “alitò su di loro”». – Mons. Carlo Caffarra.
È lo Spirito Santo ancora oggi che viene effuso dal Risorto sulla Chiesa da Lui radunata. In ogni nostra liturgia eucaristica Egli continua a rinnovare l’effusione del suo Spirito alitando su di noi come un giorno
alitò sugli Apostoli:
«Egli “alitò su di loro”. Non è solo il suo respiro fisico che viene alitato sugli apostoli e su ciascuno di noi. Ma attraverso questo gesto, il Risorto “alita” su e in ciascuno di noi la sua stessa vita. Questo Spirito è “il respiro stesso del Risorto che egli alita sugli uomini e li trasforma nella sua Chiesa … arriva dunque a noi caricato, per così dire, di tutta la “salvezza” che il Figlio di Dio ha conquistato col suo sacrificio pasquale" (G. Biffi, La sposa chiaccherata, pag. 81-82.) Che cosa c’è di più intimo in ciascuno di noi che il proprio spirito? Che cosa c’è di più intimo in Gesù del suo stesso Spirito? Ed Egli ci viene donato. E quindi tutti noi, se riceviamo lo Spirito del Signore risorto, ci inseriamo nel più intimo della Persona di Gesù Cristo: tutti e ciascuno, come tanti tralci nella stessa vite; come tanti rami nello stesso tronco». – Mons. Carlo Caffarra.
E, da quest’effusione dello Spirito Santo, deriva il terzo fatto che oggi celebriamo: il nostro divenire, da persone individuali e disperse, di varie culture, popoli e nazioni, l’unica Chiesa, l’unico Corpo di Cristo, l’unica famiglia dei figli di Dio. È lo Spirito Santo che opera questo unendoci intimamente al Figlio ed è quest’unione intima con Gesù Risorto che fa sì che i cristiani, come ci ha ricordato Paolo nella seconda lettura, formino “un solo corpo”.
La prima lettura ci mostra lo Spirito del Signore come vento che si abbatte gagliardo e come fuoco che scende dall’alto sugli Apostoli riuniti nel Cenacolo con Maria. Qui abbiamo l’immagine proprio di ciò che è capace di fare lo Spirito Santo, l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, quando viene accolto con fede: cosa sarà impossibile a Lui (cf Lc 1,37)? Gli Apostoli vengono investiti dalla sua potenza (cf Lc 24,49) e escono dal cenacolo, prima sbarrato, per annunziare a tutti che Gesù è risorto. Ecco l’effetto dell’Amore di Dio: quella porta sbarrata si apre e vanno agli altri senza più timori. Si riversano nel mondo, nessuno li potrà più fermare: né le minacce, né le percosse, né le torture, né le belve, ne la morte, loro che prima erano fuggiti via per la paura.
L’Amore di Dio permette loro di vincersi e di aprirsi ai fratelli, a tutti i fratelli e tutti li capiscono! L’Amore di Dio permette loro di entrare in comunicazione con gli altri e di farsi capire: è il miracolo dell’Amore che rende l’uomo comprensibile all’altro uomo. Quella divisione profonda che aveva segnato la vita dell’umanità, viene abbattuta dall’Amore di Gesù e quella divisione delle lingue, che era stata conseguenza del peccato (cf Gen 11,1-9) viene superata da un nuovo linguaggio che unifica l’umanità nella ritrovata figliolanza divina: è il linguaggio dell’Amore! Ma di quell’Amore che si può conoscere solo attraverso la finestra delle piaghe del Risorto!
Il superamento delle barriere, l’uscire e andare verso l’altro, la realizzazione della comunione fra gli uomini è il frutto eccelso dell’unione con Gesù operata dallo Spirito Santo.
Tutto questo viene realizzato non solo nel giorno della Pentecoste, ma in ogni Eucaristia, dove il Risorto continua ad “alitare” sulla sua Chiesa e dove rende presente Se Stesso nel pane e nel vino consacrati proprio dall’effusione del suo Santo Spirito, perché cibandoci di Lui portiamo a perfezione quell’unione con Lui iniziata nel s. Battesimo e nutrendoci tutti dello stesso Pane e dello stesso Vino realizziamo altresì quell’unione intima con Gesù e tra di noi che ci fa essere Chiesa.
Ogni Eucaristia realizza tutto questo, ma lo realizza nella dimensione sacramentale che chiede, invoca, esige anche una dimensione esistenziale frutto della nostra libera adesione d’amore al mistero che celebriamo nei segni sacramentali e che rende veritiero il sacramento stesso. Voglio dire, in altre parole, che questa comunione al Corpo di Gesù realizzata dall’effusione del suo Spirito su di noi e celebrata in ogni Eucaristia, deve essere poi da ciascuno di noi ratificata, ricercata e attuata in un’esistenza che si lascia guidare dagli insegnamenti di Gesù Maestro e Signore, all’insegna quindi del servizio generoso e gratuito, del perdono, della limpidezza del cuore, del farsi piccoli e sempre disponibili a consegnare se stessi e la propria vita per amore del Padre e dei fratelli. Altrimenti falsifichiamo il sacramento che celebriamo, lo rendiamo falso perché la nostra vita non è in sintonia con esso.
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale, ci ottenga in questa Pentecoste di piegare il nostro spirito all’esigenze di quell’Amore che il Padre e il Figlio riversano nei nostri cuori e a non aver paura di lasciarci abbracciare e sollevare dal suo vortice che, unendoci sempre più strettamente al Figlio, ci proietta nel seno del Padre. j.m.j.
OMELIA DI PENTECOSTE – SECONDO SCHEMA
Solennità della Pentecoste Omelia
IL DONO DI DIO
Carissimi fratelli e sorelle celebriamo oggi la festa di Pentecoste.
Così come per capire la Pasqua cristiana bisogna scavare nelle sue radici nella Pasqua ebraica, anche per capire bene la Pentecoste cristiana bisogna scavare le radici nella Pentecoste ebraica.
Era infatti la festa ebraica della Pentecoste quando quel “Vento gagliardo” si abbatte sul Cenacolo e scesero sugli apostoli le “lingue di fuoco” e quei poveri uomini che avevano abbandonato il loro Maestro nel momento della prova e che si erano ben chiusi nel Cenacolo per “timore dei Giudei” (Gv 20,19), ora escono fuori senza più paura, parlano alle genti e testimoniano con forza il loro Signore Risorto e daranno la loro vita per Lui.
In quel giorno gli Ebrei festeggiavano la festa dello “Shavuot” che alla lettera vuol dire “Settimane”, la festa dunque delle Settimane chiamata in greco “Pentecoste”, cioè “cinquantesimo giorno”. Infatti questa festa cadeva e cade, per gli Ebrei, sette settimane dopo la Pasqua e aveva come oggetto di celebrazione il “dono della Toràh”, il “dono della Legge”.
La Toràh, la Legge fu donata al popolo dopo la sua liberazione dalla schiavitù perché è una legge per uomini liberi. Lo “Shavuot” era anche la festa della mietitura e delle primizie perché in questo giorno in Israele aveva termine il periodo della mietitura e venivano offerti al Tempio le primizie dei frutti e alcuni pani confezionati con il nuovo frumento. In questo giorno il Tempio veniva splendidamente ornato di fiori in omaggio ad una tradizione che insegnava come il giorno in cui Iddio promulgò la sua Legge sul Sinai a Mosè, un grande profumo pervase il mondo intero.
Cos’era la Toràh per gli Ebrei? Era in quel dono della Legge, dei Comandamenti di Dio che quelle tribù diverse si ritrovavano come popolo. L’essenza stessa del popolo di Dio è nella Toràh, per cui esso si chiama anche popolo della Toràh, della Legge. La Toràh era il vanto di questo popolo, era la sua stessa dignità (Dt 4,6-8), era anche il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo (Sir 24), la Toràh era, in altre parole, tutto per gli ebrei: la loro gioia e l’oggetto continuo della loro meditazione e del loro amore (cfr. Sal 119)
Ma la Legge aveva il suo limite, era esteriore, era indicativa del peccato, evidenziava il peccato (cfr. Rm 3,20) senza dare alla persona la remissione del peccato. Infatti tutta la liturgia ebraica con i suo iriti espiatori e i vari sacrifici non rimettevano dai peccati, ma solo dalle infrazioni rituali di inavvertenze involontarie varie, ma non c’era nulla che purificasse dal peccato, cioè dalle infrazioni volontarie alla Legge.
E così quando quei perfidi e maliziosi scribi e farisei portarono a Gesù quella donna adultera da loro scoperta in flagrante adulterio per poter incastrarlo e fargli fare qualche passo falso difendendo quella donna, Gesù disse loro: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» e quelli mogi mogi, uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani se ne andarono via tutti (cfr. Gv 8,8-9)
Questo era il limite della Legge, la sua esteriorità, il suo essere regime vecchio della lettera (Rm 7,6) Geremia aveva profetizzato un nuovo regime, una legge non più esterna, ma interiore, non più scolpita con lettere sulla pietra, ma scolpita dallo Spirito nel nostro cuore (cfr 2Cor 3,3): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31,33),
Ezechiele poi completerà la profezia di Geremia dicendoci: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36, 26-27).
Quando Gesù ci dice che Lui non è venuto ad abolire la Toràh ma a portarla a compimento (cfr. Mt 5,17) intende dirci proprio che Lui era venuto a mostrarci in sé l’adempimento pieno e perfetto della Legge del Padre e a regalarci la gioia di poter anche noi vivere come Lui, in Lui, per mezzo del suo Spirito che ci unisce a Lui in un solo corpo.
L’azione dello Spirito in noi è proprio questo unirci al Figlio per essere in Lui un solo corpo, il suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Ef 1,22-23; 5,23; Col 1,18.24; 1Cor 6,17). Come il dono della Toràh aveva fatto di tante tribù diverse un solo popolo legato dalla Legge, così ora gli uomini di tutti i tempi, luoghi, nazioni diventano l’unico popolo di Dio nel dono dello Spirito che li unisce tutti a Gesù in un solo corpo, la Chiesa .
Per questo oggi festa dello Spirito Santo è festa della Chiesa, compito dello Spirito è quello di fare Chiesa, costruire, edificare la Chiesa con i sacramenti, in particolare con l’Eucarestia.
Quello che faceva degli Ebrei il popolo di Dio era l’assenso ad una tavola di valori, di leggi di norme, ciò che fa di noi dei cristiani è l’unione viva a Gesù come membri vivi del suo corpo che è la Chiesa, unione operata dallo Spirito. Noi quindi siamo cristiani non perché osserviamo delle norme o siamo d’accordo su dei valori, ma perché abbiamo da testimoniare al mondo quel Gesù vivo che vive in noi e noi in Lui.
Nel cammino umano di conversione a Dio Trinità possiamo leggere tre livelli di conversione, non semplicemente susseguenti o giustapposti, ma compenetranti.
1. Conversione all'esistenza di Dio: Credo in Dio Padre Creatore di tutto
2. Conversione alla verità del Vangelo: Credo in Gesù Cristo Figlio di Dio, Unico Salvatore del mondo
3. Conversione alla appartenenza alla Chiesa: Credo nello Spirito Santo.
Ognuno di questi livelli non si può raggiungere se non dopo una profonda crisi e una scelta costosa alla persona.
Scegliendo la fede in Dio Padre Creatore, accetto di essere creatura e quindi non autonomo, non indipendente, accetto, non senza sforzo, il dovere dell’ubbidienza.
Scegliendo di credere in Gesù Cristo accetto la croce e quindi rinnego, non senza sforzo, i valori del potere-godere-avere che reggono la vita di questo mondo.
Scegliendo di credere nello Spirito Santo, accetto, non senza sforzo, il mistero della Chiesa che è un mistero condito di debolezze, di scandali.
Oggi festa dello Spirito Santo, Pentecoste, chiediamo allo Spirito Santo che ci rinnovi nel nostro senso di appartenenza alla Chiesa e ci dia un grande amore per la Chiesa.
Quanti purtroppo si appellano proprio a Lui, allo Spirito per declamare un’unione a Gesù senza unione alla Chiesa. Quanti si appellano allo Spirito per mettersi su linee o strade non approvate dalla Chiesa. Quanti si appellano poi a una Chiesa dello Spirito che sarebbe staccata dalla Chiesa istituzione.
Chiediamo oggi allo Spirito che riceviamo in dono dal Padre e dal Figlio che completi e perfezioni la nostra conversione con un grande amore alla Chiesa e a tutte le sue istituzioni, partendo da un grande amore per quella comunità parrocchiale dove ogni domenica ci viene spezzato il Pane che ci sostiene, comunità fatta di persone concrete, alcune più simpatiche altre meno, comunità con tanti pregi, comunità con tanti difetti, con ombre e luci. Per passare poi alla nostra comunità diocesana con tutti i suoi organismi e i suoi uffici. Per passare quindi alla Chiesa d’Italia con tutti i suoi vescovi e le sue istituzioni e organismi impegnati nell’evangelizzazione di questa Italia sempre più scristianizzata. Per passare così alla Chiesa universale, al Santo Padre, ai suoi Cardinali e ai Vescovi a lui uniti nel mondo intero e a tutte le istituzioni che la Chiesa universale ha nel mondo e che partecipano del Mistero stesso della Chiesa che è umano-divina, istituzioni animate dallo Spirito Santo, istituzioni che hanno la finalità di far conoscere Gesù, far incontrare Gesù, far seguire Gesù, fare vivere di Gesù.
Chiediamo allo Spirito che ci dia gli occhi della fede per saper cogliere nella Chiesa, in quella Chiesa concreta in cui viviamo, la Sua presenza vivificante e ci liberi dall’essere scandalizzati per tutto il male, il brutto, l’ingiusto che possiamo vedere nella Chiesa, ben sapendo che questo è causato dalla nostra presenza di persone peccatrici e sempre bisognose di una profonda conversione a Dio Trinità.
Concludo ritornando da dove eravamo partiti: la Pentecoste ebraica con il suo Tempio invaso dal profumo dei fiori. Ebbene così come gli Ebrei credevano che con i suoi Comandamenti il Signore avesse sparso profumo sul mondo, così noi crediamo che lo Spirito oggi ci viene donato perché noi dobbiamo essere nel mondo il dolce profumo di Gesù Cristo (cfr. 2Cor 2,15), nessun altro odore sia così forte da coprire nella nostra vita la forza di questo profumo divino.
Maria SSma ci ottenga la grazia di essere come Lei aperti al dono dello Spirito perché la nostra vita sia feconda del suo Gesù.
Amen.
j.m.j.