Che cosa s’intende per presenza di Dio? Intendiamo l’esercizio dell’anima con il quale essa si rende Dio presente, al fine di trarne forza per agire bene in tutte le occasioni che si presentano. In che cosa consiste questo esercizio della presenza di Dio? Vi sono come tre gradi. Primo grado dell’esercizio della presenza di Dio . Il primo è di ricordarsi di Dio il più possibile per mezzo della fede, la quale c’insegna che Egli è ovunque, ci vede ed è giudice delle nostre azioni. Con questa conoscenza, l’uomo cerca di vedere Dio in tutto ciò che fa e di comportarsi in tutto santamente. Così Dio dice ad Abramo: «Cammina davanti a me e sarai perfetto» (Gen 17,1). Davide diceva di avere Dio sempre presente per non vacillare nelle contrarietà che doveva affrontare [tema presente nei Salmi, cf ad es. Sal 138]. A questo esercizio si devono dedicare tutti coloro che vogliono agire bene, perché considerando che Dio li vede, essi sono distolti dal male e sollecitati a tutto ciò che è bene. Il primo consiglio che si dà alle persone che intraprendono la via della devozione è di rendersi familiare questo ricordo di Dio, da ciò seguono tutti gli altri beni che vengono nella pratica della virtù.
Secondo grado dell’esercizio della presenza di Dio . Qual è il secondo grado di questo esercizio? È non solo ricordarsi di Dio, ma anche pensare che Egli è in noi e abita nell’intimo dell’uomo molto più che in tutte le altre cose. Infatti, poiché Dio comunica il suo essere alle creature in proporzione della loro nobiltà, è da credere che, essendo l’uomo una creatura molto perfetta, si compiaccia di abitare in lui, secondo ciò che dice san Paolo: «Il tempio di Dio che siete voi» (1Cor 3,17). I veri spirituali si abituano anche a rappresentarselo in se stessi, facendo ciò che dice l’apostolo: «Cercare Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,27). Ciò si fa non solo con l’idea della sua presenza, ma anche con il sentimento di questa sua stessa presenza in noi. La nostra anima è come una casa nella quale vi sono diverse dimore abitate da Dio: Egli si fa percepire in ciascuna di esse, ma soprattutto nell’ultima e più profonda. Sovente permette che l’anima sia tentata nella parte sensibile e tuttavia Egli si fa sentire nella parte razionale. Talvolta è turbata anche la parte razionale e Dio si trincea nell’intimo o profondo dell’anima dove fa sentire la sua assistenza, la sua protezione ed anche le sue carezze. Questo fatto ha ispirato qualche mistico a chiamare questo trinceramento la roccaforte dell’anima (Benedetto da Canfield, san Francesco di Sales, Jeanne-Pierre Camus), perché, quando il resto è occupato, quest’ultima parte rimane intatta con i sentimenti di Dio. Si tratta di una roccaforte spirituale, cioè di una facoltà interiore dell’anima dove Dio le si comunica nonostante gli attacchi dei quali essa, in altre parti, sente la pressione. Ciò si spiega facilmente con quello che dice san Paolo quando distingue il nostro uomo vecchio da quello nuovo (cf Ef 4,22-24; Col 3,9-19), l’uomo esteriore da quello interiore (cf Rm 78,22; Ef 3,16), e ancor meglio con ciò che fece nostro Signore stesso che, seguendo il sentimento dell’anima colpita da ciò che le comunicavano i sensi e la carne, domandava al Padre che il calice passasse oltre e non gli fosse dato a bere, seguendo invece lo spirito, diceva che non avvenisse così, ma secondo la sua santa volontà (Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42). Ecco perché le persone abituate al senso della presenza di Dio dentro di sé si rivolgono al punto più profondo del loro intimo e là Lo gustano e Lo sentono: «Ci chiama… », dice sant’Agostino nelle Confessioni (IV, 12, 19), «perché ritorniamo al cuore». In questa profondità del cuore, l’uomo spirituale in ogni momento trova il suo Dio senza che abbia bisogno di andare lontano per incontrarLo: «Benché non sia lontano da ciascuno di noi… » (At 17,27), e in un altro punto: «Il Signore è vicino» (Sal 144,18; cf Fil 4,5 e Rm 10,8). Ciò avviene abitualmente più per opera della grazia che per il nostro sforzo, benché il nostro impegno sia molto utile. Questo senso della presenza di Dio dentro di noi ha tre gradi. Il primo è quando l’anima gusta nel suo fondo l’Essere di Dio, in generale e confusamente, senza alcuna conoscenza distinta. Il secondo è quando questa stessa anima sente in sé la presenza di Gesù Cristo che le è unito sia per la sua grazia sia per la santa Eucaristia, di modo che essa sperimenta Gesù Cristo che dimora ed opera in lei, come colui che sentisse vicino a sé qualche persona che gli tenesse compagnia. L’anima Lo sente non solamente vicino a sé, ma dentro di sé. Il terzo grado è più elevato e meno comune ed è di sentire le tre Persone Divine che abitano nell’anima e di conversare con Loro.
Terzo grado dell’esercizio della presenza di Dio .
Qual è il terzo grado della presenza di Dio, tradotto in esercizio per le anime devote? È quando non solamente l’anima si rappresenta Dio mediante la fede o Lo sente in sé, ma Lo vede e Lo sente in tutte le creature che le sono davanti e delle quali si serve. ordinariamente però questo è un dono di Dio, anche se si può avere, con lo sforzo e l’applicazione, qualche sentimento simile. Di solito Ciò deriva da un grande favore di Dio, per mezzo del quale un’anima, che si è esercitata a lungo nel suo amore, trova Dio ovunque e Lo sente in tutte le cose con una dolcezza senza pari e con l’aumento di questo stesso amore. il vedere Dio operante in tutto e dovunque è una conoscenza che non supera la natura, perché, come diceva uno degli antichi, Trismegisto: «Lì e dovunque risplende» (Corpus Hermeticum, lib. V, 2 e 10); Egli è non solamente nelle cose spirituali, ma anche in quelle sensibili e corporali, mostrandosi in tutto con la sua bontà, la sua potenza e la sia forza. Le anime, aiutate dalla grazia, Lo sentono nei corpi e nelle creature insensibili e Lo scoprono presente in tutto; esse gustano la sua dolcezza nel nutrimento che prendono, riconoscono la sua virtù nel fuoco che le riscalda, la sua bellezza nei fiori e nella luce, la sua collera e la sua giustizia nel furore degli animali, e in genere tutte le cose servono loro per amarLo, per gustarLo e ammirarLo in tutto. E questo vuol dire davvero essere circondati completamente da Dio come in un oceano di amore e di bontà, poiché tutte le cose sono segni, impronte e vestigia di Dio piuttosto che creature grossolane e materiali. Ciò avviene per un esercizio continuo di queste anime che, non volendo e non cercando che Dio, Lo incontrano in tutte le cose e prendono motivo da tutto per elevarsi a Lui e progredire maggiormente nel suo amore e nella sua grazia.
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Jean-Joseph Surin
Guida spirituale, II, 9: La presenza di Dio
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L'adorazione. Quando Isaia si affronta col Dio tre volte santo, ha la consapevolezza non soltanto della propria precarietà, ma anche della sua condizione di peccatore (Is 6,1-4). Questa presa di coscienza lo libera dall’angoscia perché fa nascere in lui il solo movimento che sia degno di questa santità: l’adorazione. Gli israeliti non ignoravano l’angoscia, ma non vi rimanevano chiusi, perché sapevano superarla con l’adorazione. Un israelita, e quindi un cristiano, è un uomo che scoprendo il volto santissimo di Dio, sa mettersi in ginocchio per pregare. Più ancora: egli rivolge il proprio volto verso il volto di Dio per adorare (ad = verso; or = la bocca, il volto). Rimane, tuttavia, una grande distanza tra Maria che proclama la santità del nome di Dio [«Santo è il suo nome» (Lc 1,49)] e Isaia con tutti coloro che, dopo di lui, faranno questa medesima esperienza. Subito dopo aver visto Dio sul suo trono di gloria, Isaia confessa: «Ohimé! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,4). La santità di Dio esige che l’uomo si santificato, cioè purificato dal peccato per essere partecipe di quella santità. «Dio Santo, Dio Forte, Dio Immortale, abbi pietà di noi», cantano i nostri fratelli d’Oriente. Di fronte a Dio tre volte santo, Maria non dichiara d’essere «peccatrice», perché sa che la santità di Dio l’ha purificata d’ogni peccato e l’ha santificata dal primo istante della sua vita. Maria fa un’esperienza ancor più profonda di quella del peccatore – perché il peccato è accidentale all’esistenza – Ella scopre la contingenza e la precarietà del suo essere in «situazione», che i tomisti chiamano «la miseria dell’essere creatura», totalmente sospeso a Dio che lo crea in ogni istante. Per noi, è proprio questa precarietà la sorgente di tutti i nostri peccati e ciò che li rende possibili, ma questi peccati non raggiungono la bontà del nostro essere profondo. Maria scopre la povertà del suo essere, cioè la sua miseria sostanziale, pur essendo pura da ogni peccato. Questa presa di coscienza la immerge nell’adorazione, perché sperimenta di trovarsi tra due abissi: quello della santità di Dio e quello del suo «nulla» o della sua miseria. L’adorazione è un movimento che va al di là dell’amore. L’amore desidera l’unione, mentre l’adorazione è il movimento di tutto l’essere che si lascia trasportare dal torrente della santità di Dio e, quindi, dal suo amore, come un sughero che galleggia sull’oceano. L’uomo che adora non cerca di capire, si rallegra di non capire e d’essere oltrepassato e superato da tutte le parti da questo torrente che faceva dire a san Giovanni della Croce: «All’Amore che ti travolge non chiedere dove va». È una sottomissione di tutto l’essere a ciò che l’Altro desidera. L’adorazione si situa, così, nel prolungamento della fede stessa e della fiducia che si lascia trasportare dall’amore, come è detto di Abramo: «Partì senza sapere dove andava… Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8.10). Questa città è certo la Dimora di Dio, la Trinità santissima stessa. Maria dirà anche: «Si faccia di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). È sempre il medesimo superamento: «Non la mia, ma la tua volontà… Tu, non io» (cf Lc 22,42). Per Abramo, come per Maria e Gesù, adorare in spirito e verità è consegnare la propria vita alla volontà del Padre e consacrarsi alla santità del suo Nome, cioè santificare la propria esistenza introducendola integralmente e per sempre nel centro della Trinità santa. La consacrazione o la santificazione è sempre l’opera del Padre santo: «Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’Io li ho mandati nel mondo; per loro Io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17,17-19). Maria può sperimentare, senza pericolo, la precarietà della sua esistenza perché prega e adora. E lo fa invocando sempre il sano nome di Dio. ella, in fondo non ha niente altro che questo Nome. È la ricchezza e la povertà della lode e dell’adorazione dell’Unico, poiché Maria non ha mai visto il suo volto. Anche per noi che siamo peccatori, pur sperimentando la precarietà della nostra esistenza, il nostro modo di adorare sarà il ripetere senza fine: «Dio santo, abbi pietà di noi». Questa è la vera adorazione. […]. Prima, però, di poter pronunciare questo nome, c’è una cosa da chiedere ed è di capire, di sperimentare, di «gustare» che riceviamo la nostra esistenza da Dio e ch’essa è sospesa a Lui che ce la dona continuamente e che se Gli accadesse «un istante di distrazione» noi ricadremmo subito nel nulla. Una tale esperienza, può condurre alla disperazione. Lo si vede nella vita del Curato d’Ars che aveva chiesto a Dio di mostrargli la sua «miseria». Si trattava della «miseria dell’essere creatura» sospesa a Dio, perché aveva già una profonda esperienza del suo essere peccatore; egli confessa che se lo Spirito Santo non l’avesse sostenuto, sarebbe caduto nella tentazione della disperazione e che la sola via d’uscita fu il rifugiarsi, come un cagnolino, ai piedi del tabernacolo. Quando facciamo l’esperienza del nostro essere contingente sospeso a Dio che ci dà istante per istante l’esistenza, possiamo anche noi, provare un senso di angoscia o di disperazione. Soltanto lo Spirito Santo può darci la gioia di «assaporare» la nostra miseria e può ispirarci di cercar rifugio accanto alla Vergine Maria. Ella ci insegnerà a metterci umilmente in ginocchio e ci farà comprendere il desiderio del Padre che cerca adoratori in spirito e verità (Gv 4,23). «Il valore di una vita è il peso della sua adorazione». «L’adorazione della Trinità è il nostro unico progetto» (padre Monchanin). «I maestri segreti della storia, che non sanno di esserlo, sono gli uomini di adorazione» (Oliver Clément). «Ciò che sostiene l’umanità, non sono i governanti, né gli uomini di genio, né gli uomini di azione, ma gli adoratori. Che cosa Dio chiede loro? Non grandi cose: che ci credano. Il mondo intero, dice san Giovanni, è nelle mani del maledetto. È una fortezza di ghiaccio che non vuole amare e Dio glielo dà per sede. Egli cerca chi su di esso faccia breccia e questi sono gli adoratori» (padre M. D. Molinieé).
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Jean Lafrance
In preghiera con Maria la Madre di Gesù Gribaudi,90-93.
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Sul modo e sulla maniera in base alle quali il Cristo si è donato nel santo Sacramento. Chiunque voglia inebriarsi d’amore deve contemplare, scrutare e ammirare due segni dell’amore che ci testimonia il Cristo nel santo Sacramento, segni così alti e profondi che nessuno può cogliere, né comprendere pienamente. Il primo ci insegna che il Cristo ha donato alla nostra anima la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda. Una tale meraviglia d’amore non era mai stata capita prima. Ma è la natura dell’amore di donare e ricevere sempre, d’amare e di essere amato, e queste due cose si riscontrano in chiunque ama. Così l’amore del Cristo è avido e liberale: se lui ci dona tutto quello che ha e tutto quello che è, in cambio prende in noi tutto quello che noi abbiamo e tutto quello che noi siamo; e lui richiede da noi più di quello che noi siamo capaci di donare. La sua fame è smisuratamente grande; ci consuma per intero fino alla fine, talmente la sua avidità è immensa e il suo desiderio insaziabile: lui divora fino al midollo delle nostra ossa. Tuttavia noi ci concediamo volentieri a Lui, e più noi Gli concediamo, più Lui gusta le nostre attrattive. Ed anche se Lui ci consuma, non può mai essere sazio, poiché Lui è insaziabile e la sua fame è senza misura; noi siamo poveri, Lui lo sa: ma non ne ha cura, non esige di meno. Per prima cosa prepara i suoi pasti e consuma nell’amore tutti i nostri peccati e i nostri difetti. Poi, dopo che siamo purificati attraverso il fuoco dell’amore, Lui piomba su di noi come l’avvoltoio sulla propria preda[1]. Poiché Lui vuole trasformare e consumare la nostra vita piena di peccato nella sua vita tutta piena di grazia e di gloria, che è sempre pronto a donarci, purché noi consentiamo a rinunciare a noi stessi e ad abbandonare il peccato. Se noi potessimo vedere l’ardente desiderio che ha il Cristo della nostra salvezza, noi non saremmo capaci di trattenerci e ci avvicineremmo noi stessi a Lui. Sebbene le mie parole siano strane, quelli che amano mi capiscono bene. L’amore di Gesù è di natura così nobile che, consumando tutto, vuole nutrire. Se Lui ci assorbe interamente in Lui, di risposta lui ci dona Lui stesso. Bisogna che nascano in noi la fame e la sete dello spirito, che devono farceLo gustare con un godimento eterno, e a questa fame spirituale così come all’amore del nostro cuore dona l’alimento del suo Corpo. E di questo Corpo sacro, se noi lo prendiamo e consumiamo in noi con un’intima devozione, fluisce in tutto il nostro essere e nelle nostre vene anche il suo Sangue glorioso e pieno d’ardore. Noi siamo infiammati per Lui d’amore e di carità di cuore; corpo e anima, siamo impregnati di godimento e di gusto spirituale. È così che Lui ci dona la sua vita piena di saggezza, di verità e di insegnamenti, affinché noi Lo imitiamo in tutte le virtù; e allora Lui vive in noi e noi in Lui. Lui ci dona anche la sua anima con la pienezza delle grazie che possiede, affinché, stabilmente, noi possiamo sempre restare con Lui, in comunione d’amore, di virtù e di lodi di suo Padre. Infine, quello che oltrepassa tutto, ci offre e ci promette la sua divinità, per un giorno eterno. Ci si può sbalordire del fatto che esultano coloro che gustano ed sperimentano queste cose?
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Beato Giovanni Ruysbroeck il mirabile
“Lo specchio dell’eterna salvezza”
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Martedì mattina del 26 febbraio 1584, di buon’ora, stando la novizia Maria Maddalena in ginocchio, sul letto, le vennero in mente le parole che aveva sentito alla s. Messa del giorno prima: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). E in queste parole fu rapita dal Signor, come al solito, in estasi, e le sembrava di intendere che Gesù avesse detto quelle parole per mostrarci la grandezza del Padre suo e l’unione che Lui stesso Figlio e Verbo umanato aveva con suo Padre, e il potere che gli aveva dato di rivelare questo a noi sue creature, dandoci cognizione di Sé e di Lui. E capì che Gesù aveva detto quelle parole perché a noi venisse il desiderio di diventare figli di Dio, giacché Egli non può essere conosciuto se non da chi gli è figlio. E così che desiderassimo anche affaticarci per diventare anche Padri di questo Dio, poiché il Figlio non poteva essere conosciuto se non da chi è suo Padre. E dato che qualcuno avrebbe potuto dire: “Ma come si fa a diventare figli di Dio? È una cosa troppo alta a pensarla, essendo noi di una così bassa e vile condizione non sapremo mai in che modo potremo diventare figli di Dio!”. E allora c’è l’ha detto Lui che quello che farà la sua volontà, questo è suo padre, madre e fratello: “Chiunque fa la volontà di Dio è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). E diventiamo ancora suoi figli nel renderci atti con le sante virtù a ricevere quella comunicazione che il Padre vuole farci, comunicazione che è una vera conoscenza di Lui stesso, che è una unione, una vera comunicazione o partecipazione al suo essere: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio”. Se si desidera conoscere questo Padre bisogna diventarGli figli facendo la volontà sua in ogni cosa; “e nessuno conosce il Figlio se non il Padre”, volendo poi ancora conoscere il Figlio, bisogna diventarGli padre e come il Padre ama immensamente il Figlio, amandoLo noi sopra tutte le cose Gli diventiamo padre e Lui vuole diventare, per modo di dire, nostro Figlio, facendo la nostra volontà. “Dio appaga i desideri di quelli che lo temono” (Sal 144,19); perché, dato che Egli fa la volontà del suo eterno Padre, essendo noi diventati padre suo, vuole fare ancora la volontà nostra, tanto che facendo la volontà di Dio e nell’amarLo sopra tutte le cose gli diventiamo figli e padri, e così ci rendiamo atti a conoscerLo e a che Egli ci comunichi il suo essere come a figli, e faccia così la volontà nostra, poiché la nostra volontà è diventata sua essendo che il Padre e il Figlio sono una cosa sola. “Colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”: così sarà conosciuto il Padre e il Figlio a chi il Figlio lo vorrà rivelare. Ci rivela, e per dir meglio, Gesù ci ha rivelato il Padre e Se Stesso per mezzo della sua SS.ma Umanità, infatti da Essa abbiamo potuto conoscere Dio, parlo della sua Divinità, dato che con il Padre è una cosa sola; per cui il Padre ci rivela il Figlio avendoLo manifestato a noi dicendo: “Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto” (Mt. 17,5). E il Figlio ci manifesta il Padre dicendo: “Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30), “e il Padre è più grande di me” (Gv 14,28). Questo disse quanto a questa sua Umanità che ci ha rivelato il Padre; tanto che per volerci comunicare il suo essere, e farci conoscer Se Stesso, ha lasciato il suo essere tanto grande, immenso e infinito, e ha voluto pigliare il nostro finito, mortale, e tanto vile e basso. [P.S. Tutte le opere di S. Maria Maddalena de’ Pazzi sono trascrizioni effettuate dalle sue consorelle carmelitane, mentre lei parlava stando in estasi mistica e delle successive spiegazioni che queste le chiedevano passata l’estasi]
[Versione originale] Martedì mattina a buon' hora, stando lei ginocchioni sul' letto gli sovvenne alla mente quelle parole del' Santo Evangelio che si era detto la mattina inanzi alla Messa di San Matthia Apostolo [Mt. 11,25-30], sendosi rimesso l'offitio suo per esser venuta la suo Festa in domenica, cioè la domenica passata della Sexagesima: Nemo novit Filium nisi Pater; neque Patrem quis novit nisi filius et cui voluerit Filius revelare (Mt. 11,27). Nessuno conosce il' Figliuolo se non il' Padre; et chi è quello che possa conoscere il' Padre se non il' Figliuolo, et quello a chi esso Figliuolo lo vorrà revelare. Et in questo essa fu tirata dal' Signore al' solito fuori d'ogni sentimento corporale, et gli pareva intendere che Jesu havessi detto queste parole per mostrare a noi la grandezza del' suo Padre, l'unione grande che esso stesso Figliuolo Verbo humanato haveva con esso suo Padre, et la potestà che gli haveva dato di far quella revelatione a noi suo creature, dandoci cognitione di Se e di lui. Et intese che ancora haveva Jesu detto queste parole perché ci venissi voglia di diventare figliuoli di Dio, da poi che esso non può esser conosciuto se non da chi è figliuolo. Et così che ci volessimo affaticare di diventare Padri di esso Dio, poiché non poteva esser conosciuto se non da chi è suo Padre. Et perché qualcuno potrebbe dire: o come si ha a fare a diventare e' figliuoli di Dio, che è pure una cosa grande a pensarla, sendo noi di così vile e bassa conditione, e anche non sapremo mai in che modo farci; ce l'ha detto esso stesso – diceva lei – che quello che farà la suo volontà, questo è suo padre, madre e fratello: Quicumque fecerit volontatem Patris mei qui in caelis est, ipse meus frater, soror, et mater est (Mt. 12,50). Et diventiamo ancora suo figliuoli in renderci atti con le sante virtù a ricevere quella comunicatione che ci vuol fare il' Padre, la qual comunicatione è una coniuntione, o vero un conoscimento di esso stesso Padre, dico del' suo essere: Nemo novit Patrem nisi Filium. Et però bisogna ha voler conoscere il' Padre diventar figliuolo di esso Padre, facendo la volontà sua in ogni cosa; et nemo novit Filium nisi Pater, volendo poi ancora conoscere il' Figlio bisogna diventar padre, che così come il' Padre ama grandemente il' Figliuolo, e così noi amandolo sopra tutte le cose gli diventiamo padre. Et esso vuol diventare, per modo di dire, nostro Figliuolo, facendo la volontà nostra. Volontatem timentium se faciet (Ps. 144,19); però che sì come esso fa la volontà del' suo eterno Padre, così sendo noi diventati padre suo vuole fare ancora la volontà nostra, tanto che in fare la volontà di Dio, e in amarlo sopra tutte le cose gli diventiamo figliuolo e padre, e così ci rendiamo atti a conoscerlo e che esso ci comunichi il' suo essere come a figli, et faccia la volontà nostra, poiché la nostra volontà è diventata sua sendo ch'el' Padre e il' Figliuolo sono una istessa cosa. Et cui voluerit Filius revelare; et sarà conosciuto il' Padre e il' Figliuolo a chi esso Figliuolo lo vorrà revelare. Ci revela, e per dir meglio, ci ha revelato Jesu el' Padre et se stesso per mezzo della sua S.ma Humanità, però che da essa habbiamo havuto cognitione di Dio, dico della sua Divinità, quale insieme col' Padre e una cosa stessa; onde il' Padre ci revela il' Figlio havendolo manifestato a noi dicendo: Hic est Filius meus dilectus in quo mihi bene complacui (Mt. 17,5). El' Figliuolo ci manifesta il' Padre dicendo: Ego et Pater unum sumus (Jo. 10,30), Et Pater maior me est (Jo. 14,28). Volse dire quanto a quella sua Humanità che ci ha revelato esso Padre; tanto che per volerci comunicare il' suo essere, et farci conoscer se stesso, ha lassato esso suo essere tanto grande, immenso e infinito, e ha voluto pigliare il' nostro finito, mortale, e tanto vile e basso.
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S. Maria Maddalena de’ Pazzi
Dal Libro dei Colloqui Versione in italiano corrente
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[…]Se fai bene attenzione, Teotimo, non è il desiderio di una cosa assente che ferisce il cuore; perché l’anima sente che il suo Dio è presente, l’ha già condotta nella riserva del suo vino, ha posto sul suo cuore lo stendardo dell’amore (Ct 2,4); ma è il fatto che, benché Dio la veda già tutta sua, continua a farle pressione lanciandole di tanto in tanto innumerevoli dardi del suo amore, dimostrandole in modi sempre nuovi come sia molto più amabile di quanto non venga amato. Ed essa, che non ha forza sufficiente per amarlo, né amore per darsi forza, vedendo il proprio impegno così debole in confronto al desiderio che ha di amare degnamente colui che nessuna forza può sufficientemente amare, si sente schiacciata da un tormento che non ha confronti; infatti, tanti sono gli slanci che compie per volare più in alto verso l’amore desiderato, tante sono le ferite di dolore che riceve. Questo cuore innamorato del suo Dio, desiderando infinitamente amare, si accorge che, nonostante tutto, non riesce ad amare e nemmeno a desiderare abbastanza. Ora, questo desiderio che non può essere esaudito, è come un dardo nel fianco di uno spirito generoso; ma il dolore che ne deriva non cessa di essere amabile, perché a chi desidera amare bene, piace molto desiderare, e penserebbe di essere il più miserabile dell’universo se non desiderasse continuamente amare ciò che è così sommamente amabile: desiderando amare riceve dolore, ma amando desiderare riceve dolcezza. […]Dio dunque, se così si può dire, prendendo in continuazione delle frecce dalla faretra della sua bontà infinita, ferisce l’anima dei suoi amanti facendo loro chiaramente vedere che nemmeno si avvicinano ad amarlo per quanto è amabile. Chi tra i mortali non desidera amare di più la divina bontà, non l’ama abbastanza; la sufficienza in questo divino esercizio non basta a colui che ci si vuol fermare come se gli fosse sufficiente. |
S. Francesco di Sales
Teotimo Libro VI Capitolo 13 Della ferita d’amore
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Venerdì, addì 29 di Giugno Essendo comunicata, sentivo che Jesu mi diceva quelle parole che disse a san Pietro: Beatus es Simon, Bar Iona, quia caro et sangunis non revelavit tibi, sed Pater meus qui in caelis est [Mt. 16, 17: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli]. Et mi diceva: "A san Pietro no' gli poteva esser revelato chi Io fussi, né dalla carne, né dal sangue, ma solo dal mio Padre, che è in cielo. Così all'anima no' gli può esser rivelato, né dalla carne, né dal sangue, la grandezza e purità del mio Amore, ma solamente il Padre mio, che è in cielo, gli può rivelare questo". Intendevo bene che questa revelatione [rivelazione] la faceva lo Spirito Santo, ma per essere esso Spirito Santo una cosa medesima insieme col Padre, e col Figliuolo, facevano anche insieme questo effetto. Relationes ad extram Vedevo in questo lo Spirito Santo stare in continuo moto, per dire a modo nostro, non però che egli si movessi d'onde era, ma vedevo che esso continuamente manda razzi, frecce e saette d'Amor Puro ne cuori delle creature. Et intendevo che ogni minima cosa che l'Anima non faceva con quello occhio e pura intentione di honorare Dio e di piacer solo a lui, etiam [anche] un minimo alzar d’occhio e una minima parola, era ostacolo e impedimento a conoscere la Purità e grandezza di tale Amore. Et per il contrario quella Anima che haveva quella pura intentione [intenzione], ogni cosa ben che minima fussi, vedevo che gli cooperava la cognitione [cognizione] della grandezza e purità di tale Amore; come le parole, e’ pensieri, e’ desideri e ogni cosa che essa faceva solo per honorare Dio e piacere a lui, gli causava tale conoscentia [conoscenza].
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S. Maria Maddalena de’ Pazzi
I Quaranta giorni
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La vergine umile Il versetto si conclude così: E il nome della vergine era Maria (Lc 1,27). Diciamo qualche cosa anche su questo nome, che viene interpretato “stella del mare” (cf S. Girolamo, Libro dei nomi) e che bene si adatta alla Vergine Madre. Molto opportunatamente, infatti, essa viene paragonata a una stella, perché, come la stella emette il raggio senza corrompersi, così, senza infrangere la sua integrità, la Vergine partorì il Figlio. Il raggio non diminuisce lo splendore della stella, il Figlio non toglie l’integrità alla Madre. È lei quella nobile stella nata da Giacobbe (cf Nm 24,17), il cui raggio illumina il mondo intero, il cui splendore rifulge nei cieli e penetra gli abissi, e percorrendo la terra, riscaldando le menti più che non i corpi, alimenta le virtù e inaridisce i vizi. Ella è la stella fulgida e unica, necessariamente elevata sul mare tempestoso e immenso, splendente di meriti e lucente di esempi. Tu, chiunque tu sia, che stai nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani. Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria. Se sei spinto qua e là dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, dell’invidia, guarda alla stella, invoca Maria. Se l’ira, l’avarizia, la concupiscenza della carne scuotono con violenza la navicella del tuo spirito, guarda a Maria. Se, turbato per l’enormità dei tuoi peccati, confuso per la bruttezza della tua coscienza, atterrito per la paura del giudizio di Dio, cominci a precipitare nel baratro della tristezza e nell’abisso della disperazione, pensa a Maria.
San Bernardo da Chiaravalle
Dal Sermone 2 Commento a Lc 1,26-27 La vergine umile. In quella città [Nazareth], fu mandato da Dio l’angelo Gabriele. A chi? A una vergine promessa sposa di un uomo chiamato Giuseppe. Ma chi è questa vergine così degna di venerazione da essere salutata da un angelo, e così modesta da essere promessa sposa di un falegname? Incantevole connubio di purezza e di modestia: come piace a Dio quell’anima in cui l’umiltà aggiunge pregio alla verginità e la verginità adorna l’umiltà. Di quanta venerazione non pensi sia degna colei nella quale la fecondità esalta l’umiltà e il parto consacra la verginità? Ti sta dinanzi una donna vergine, una donna umile: se non puoi imitare la verginità dell’umile, imita almeno l’umiltà della vergine. La verginità è indubbiamente una virtù encomiabile, ma l’umiltà è maggiormente necessaria; la prima è consigliata, la seconda è comandata; a quella sei invitato, a questa sei obbligato; di quella è detto: chi può comprendere, comprenda (Mt 19,12), di questa sta scritto: se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18,3). Quella è ricompensata, questa la si esige. Alla fine, puoi salvarti anche senza verginità, ma non lo potrai senza umiltà. Dirò anzi che può piacere a Dio l’umiltà che piange la verginità perduta, ma oso affermare che senza l’umiltà nemmeno la verginità di Maria sarebbe stata gradita a Dio. A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e al povero (Is 66,2). All’umile, dice, non al vergine. Se, dunque, Maria non fosse stata umile, lo Spirito Santo non sarebbe disceso su di lei; se non fosse disceso su di lei, ella non avrebbe concepito. Come, infatti, avrebbe potuto concepire per opera sua senza di lui? È evidente, perciò, che affinché concepisse per opera dello Spirito Santo, come ella stessa dichiara, Dio ha guardato l’umiltà della sua serva (Lc 1,48), piuttosto che la verginità di lei. E se Maria piacque a Dio per la sua verginità, tuttavia concepì per la sua umiltà. Da questo appare che l’umiltà, senza dubbio, a far sì che piacesse la sua verginità. Che ne dici, tu, vergine, superbo? Maria, dimentica della sua verginità, si gloria della sua umiltà. Tu, invece, trascurando di essere umile, ti lusinghi con la tua verginità. […]. La verginità, certamente, non è di tutti. E tuttavia ancor meno sono coloro nei quali è unita alla verginità. Se dunque non puoi che ammirare la verginità di Maria, impegnati a imitarne l’umiltà, e questo ti sarà sufficiente. Se poi sei vergine e umile insieme, chiunque tu sia, sei davvero grande! San Bernardo da Chiaravalle
Dai Sermoni per le Feste della Madonna dal Sermone 1 Commento a Lc 1,26-27 Ora considera in breve in che modo l’amicizia costituisce un gradino che porta all’amore e alla conoscenza di Dio. Nell’amicizia, invero, niente può esservi di disonesto, niente che sia finto o simulato, in essa tutto è santo, spontaneo e vero (cf Cicerone, Lelio, 26). Tutto questo è proprio pure della carità. La qualità particolare dell’amicizia risplende nel fatto che fra coloro che sono uniti nel vincolo dell’amicizia tutto è fonte di gioia, tutto dà una sensazione di sicurezza, di dolcezza, di soavità. In nome della carità perfetta noi amiamo molti che ci sono di peso e ci fanno soffrire: ci occupiamo di loro in tutta onestà, senza finzioni o simulazioni, ma con sincerità e buona volontà, e però non li ammettiamo nell’intimità della nostra amicizia. Nell’amicizia, invece, si ricongiungono l’onestà e la soavità, la verità e la gioia, la dolcezza e la buona volontà, il sentimento e l’agire. Tutte queste cose iniziano da Cristo, mediante Cristo maturano, e in Cristo raggiungono la perfezione. Non sembra dunque troppo impervio né innaturale il cammino che, partendo dal Cristo che ispira in noi l’amore con cui amiamo l’amico, sale verso il Cristo che ci offre se stesso come amico da amare: così si aggiunge incanto a incanto, dolcezza a dolcezza, affetto ad affetto. L’amico, dunque, che nello spirito di Cristo entra in sintonia con un altro amico, diventa con lui un cuor solo e un’anima sola (At 4,32), e così, salendo insieme per i diversi gradini dell’amore fino all’amicizia di Cristo, diventa un solo spirito con lui in un unico bacio. Questo era il bacio che un’anima santa bramava quando diceva: Mi baci con i baci della sua bocca (Ct 1,1). […] C’è dunque un bacio corporale, un bacio spirituale, un bacio mistico. Il bacio corporale si fa unendo le labbra, il bacio spirituale congiungendo gli animi, il bacio mistico con l’infusione della grazia dello Spirito di Dio. – Il bacio corporale […] – Il bacio spirituale. Viene ora il bacio spirituale, caratteristico di quegli amici che sono legati da una medesima legge di amicizia. Non è un contatto della bocca, ma un sentimento del cuore; non è un congiungere le labbra, ma un fondere gli spiriti, e lo Spirito di Dio rende tutto casto e vi intride con la sua presenza il gusto delle realtà celesti. Non troverai sconveniente chiamare questo bacio il bacio di Cristo, Perché è Lui che lo dà, non direttamente con la sua bocca, ma con la quella dell’amico, ed è Lui che ispira in quelli che si amano quel santissimo affetto che li fa sentire uniti al punto da sembrare loro che in corpi diversi abiti una sola anima, il che fa loro dire con il Profeta: Come è bello e gioioso che dei fratelli vivano uniti (Sal 132,1). – Il bacio mistico. Allora l’animo abituato a questo bacio, non dubitando che tutta questa dolcezza viene da Cristo, si trova a riflettere e a dire: «Oh, se venisse Lui in persona», e così aspira al bacio mistico, e con tutto l’ardore del desiderio esclama: Mi baci con un bacio della sua bocca (Ct 1,1), e allora, calmati gli affetti terreni, e sopiti gli affanni e i desideri di questo mondo, troverò la mia gioia solo nel bacio di Cristo, e mi riposerò nel suo abbraccio, e dirò al colmo della felicità: La sua sinistra mi sostiene il capo, e la sua destra mi abbraccia (Ct 2,6) Non è un contatto della bocca, ma un sentimento del cuore; non è un congiungere le labbra, ma un fondere gli spiriti, e lo Spirito di Dio rende tutto casto e vi intride con la sua presenza il gusto delle realtà celesti. Non troverai sconveniente chiamare questo bacio il bacio di Cristo, perché è Lui che lo dà, non direttamente con la sua bocca, ma con la quella dell’amico, ed è Lui che ispira in quelli che si amano quel santissimo affetto che li fa sentire uniti al punto da sembrare loro che in corpi diversi abiti una sola anima, il che fa loro dire con il Profeta: Come è bello e gioioso che dei fratelli vivano uniti (Sal 132,1). […] Un confine preciso all’amicizia è stato posto da Cristo stesso, quando ha detto: Nessuno ha un amore più grande di chi offre la sua vita per gli amici (Gv 15,13). Ecco fino a dove deve tendere l’amore tra gli amici che siano disposti a morire l’uno per l’altro. Vi basta? «Va’, dunque, e fa’ anche tu lo stesso» (Lc 10,37) Aelredo di Rievaulx
L’amicizia spirituale, EP [122.125.128] Nelle cose umane, niente possiamo desiderare di più santo, niente si può cercare che sia più utile, niente è più difficile da trovare, niente si può sperimentare di più dolce, niente è più ricco di frutti [dell’amicizia spirituale]. L’amicizia infatti porta i suoi frutti nella vita presente e in quella futura. Essa condisce con la sua soavità tutte le virtù, seppellisce i vizi con la sua forza, addolcisce le avversità, modera le prosperità, così che senza un amico quasi niente tra le creature umane può essere fonte di gioia. Un uomo senza amici è come una bestia, poiché non ha chi si rallegri con lui quando le cose vanno bene, o condivida la sua tristezza nei momenti di dolore; gli manca uno con cui sfogarsi quando la mente è più luminosa e geniale del solito. Guai a chi è solo, perché se cade non ha chi lo sollevi (Qo 4,10). È nella solitudine più totale colui che è senza amici. E invece, quale felicità, quale sicurezza, quale gioia avere uno «con cui poter senza timore confidare i tuoi sbagli, uno al quale poter rivelare senza arrossire i tuoi progressi nella vita spirituale, uno cui affidare tutti i segreti e i progetti del tuo cuore! Cosa può esservi di più gioioso dell’unione di un animo con un altro, di due che diventano uno al punto che sparisce la paura della prepotenza, o il timore indotto dal sospetto, e la correzione di uno non fa soffrire l’altro, e la lode non può essere senza adulazione? Un amico, dice il Saggio, è una medicina per la vita (Sir 6,16). Eccellente, davvero! Non c’è infatti, in tutto quanto può capitarci in questa vita, medicina migliore, più valida o più efficace per le nostre ferite, che l’avere un amico che venga a dividere con noi i momenti di sofferenza e i momenti di gioia, così che spalla a spalla, come dice l’Apostolo, portiamo gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2), meglio uno sopporta più facilmente i propri mali che quelli dell’amico. L’amicizia, dunque, «rende più splendida la buona sorte e più lievi le avversità dividendole e mettendole in comunione» (Cicerone, Lelio, 22). Davvero l’amico è una medicina eccellente per la vita. […] L’amicizia, dunque, è la gloria di chi è ricco, la patria di chi in esilio, la ricchezza di chi è povero, la medicina di chi è malato, la vita di chi è morto, la grazia di chi è sano, la forza di chi è debole, il premio di chi è forte. Tale è l’onore, il ricordo, l’apprezzamento e il rimpianto che si accompagna agli amici, che la loro vita ci appare degna di lode, e la loro morte preziosa. Ma c’è ancora una cosa che supera tutte le precedenti: l’amicizia è a un passo dalla perfezione, che consiste nell’amore e nella conoscenza di Dio, così che un uomo, in virtù dell’amicizia che ha verso un altro uomo, diventa amico di Dio, secondo quanto dice il Signore nel Vangelo: Non vi chiamo più servi, ma amici miei (Gv 15,15). […] …l’amicizia costituisce il gradino più alto verso la perfezione. Aelredo di Rievaulx
L’amicizia spirituale, EP [pp. 118-120] STROFA 1 1. Dove ti sei nascosto, Amato? Sola qui, gemente, mi hai lasciata! Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferita; gridando t’inseguii: eri sparito! 2- In questa prima strofa, l’anima innamorata del Verbo Figlio di Dio, suo Sposo, desiderando unirsi con Lui mediante la visione chiara ed essenziale, espone le sue ansie d’amore, lamentandosi con Lui della sua assenza. […] 3- Qui è bene notare come per quanto siano elevate le comunicazioni e gli atti delle divine presenze, alte e sublimi le notizie di Dio che l’anima ha in questa vita, tutto ciò non è essenzialmente Dio né ha a che vedere con Lui, poiché invero Egli è ancora nascosto all’anima. È necessario perciò che essa lo stimi superiore a tutte queste grandezze, lo creda nascosto e lo cerchi come tale dicendo: Dove ti nascondesti? Poiché né l’alta comunicazione né la presenza sensibile sono indizio maggiore della sua presenza per grazia, né la mancanza di tutto ciò nell’anima ne indica l’assenza perciò il Profeta Giobbe dice: Se verrà a me, non lo vedrò; e se mi fuggirà non me ne accorgerò (9,11). 4- Queste parole ci fanno intendere come, se percepisce qualche grande comunicazione, notizia divina o qualche altro sentimento, l’anima non deve credere che ciò sia vedere chiaramente o possedere essenzialmente Dio, né pensare di essere più in Lui, per quanto grande esso sia. Se tutte queste comunicazioni sensibili e intellegibili le vengono a mancare ed essa rimanesse arida, tra le tenebre e priva di aiuto, non deve credere perciò che le manchi Dio, poiché realmente nel primo caso non può sapere con certezza di essere in grazia di Dio, e nel secondo di esserne priva, secondo quanto afferma il Savio: Nessun uomo mortale può sapere se sia degno di amore o di odio davanti a Dio (Qo 9,1). 6- […]. A tale scopo c’è da notare che il Verbo Figlio di Dio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, se ne sta essenzialmente nascosto nell’interno[1] dell’anima. Quindi l’anima che vuol trovarlo, deve allontanarsi secondo l’affetto e la volontà da tutte le cose create e ritirarsi in sommo raccoglimento dentro di sé come se tutto il resto non esistesse. Perciò S. Agostino dice nei Soliloqui[2]: Non ti trovavo, o Signore, di fuori, perché fuori cercavo male te che stavi dentro.Dio dunque è nascosto nell’anima, dove il bravo contemplativo deve cercarlo: Dove ti nascondesti? 7- O anima bellissima fra tutte le creature, che desideri tanto conoscere il luogo dove si trova il tuo Diletto, per trovarlo ed unirti a Lui! Ormai ti è stato detto che tu stessa sei il luogo in cui Egli dimora e il nascondiglio dove si cela. Tu puoi grandemente rallegrarti sapendo che tutto il tuo bene e l’intera tua speranza è così vicina a te da abitare dentro di te o, per dire meglio, che tu non puoi stare senza di Lui: Sappiate – dice lo Sposo – che il regno di Dio è dentro di voi (Lc 17,21) e il suo servo, l’apostolo S. Paolo soggiunge: Voi siete il tempio di Dio (2Cor 6,16). 8- È grande conforto per l’anima sapere che Dio non le viene mai meno, anche se essa è in peccato mortale[3]; quanto meno Egli abbandonerà quella che è in grazia! Che vuoi di più, o anima, e perché cerchi ancora fuori di te, dal momento che hai dentro di te le tue ricchezze, i tuoi diletti, la tua soddisfazione, la tua abbondanza e il tuo regno, cioè l’Amato, che tu desideri e brami? Gioisci e rallegrati con Lui nel tuo raccoglimento interiore, perché lo hai così vicino! Qui desideralo, adoralo, senza andare a cercarlo altrove, poiché ti distrarresti, ti stancheresti senza poterlo né trovare né godere con maggiore certezza e celerità, né averlo più vicino che dentro di te. Vi è un’unica difficoltà e cioè che, pur essendo dentro di te, se ne sta nascosto; però è già molto se si conosce il luogo dove sta nascosto per cercarlo con la certezza di trovarlo. È quanto tu, o anima, chiedi allorché con affetto di amore dici: Dove ti nascondesti? 9- Tuttavia mi puoi dire: se l’Amato dell’anima mia è dentro di me, perché non lo trovo e non lo sento? Ciò accade perché Egli se ne sta nascosto e tu non ti nascondi per trovarlo e per sentirlo. Infatti chi vuol trovare una cosa nascosta deve entrare fino al nascondiglio dove quella si trova e, quando la trova, anch’egli è nascosto con lei. Dunque poiché il tuo Sposo amato è il tesoro nascosto nel campo dell’anima tua, per il qual tesoro l’astuto mercante vendette tutti i suoi beni (Mt 13,44) sarà necessario che tu, per trovarlo, dimenticando tutte le cose e allontanandoti da tutte le creature ti rifugi nel nascondiglio interiore del tuo spirito (Mt 6,6) e serrata la porta dietro di te, vale a dire chiusa la tua volontà a tutte le cose, preghi occultamente il Padre tuo (Ibid.). Allora, rimanendo nascosta con Lui, lo sentirai e lo amerai di nascosto, lo godrai e ti diletterai con Lui di nascosto, ossia in maniera superiore ad ogni espressione e sentimento umano. 10- Orsù, anima bella, poiché ora sai che il Diletto tanto desiderato dimora nascosto nel tuo seno, procura di essere bene nascosta con Lui e così lo abbraccerai e lo sentirai con affetto d’amore nel tuo seno. Ricordati che Egli ti invita a questo nascondiglio per mezzo di Isaia il quale dice: Vai, entra nel tuo nascondiglio chiudi dietro di te le tue porte, cioè tutte le tue potenze a tutte le creature, nasconditi per un momento (26,20), vale a dire per questo momento della vita temporale. Poiché se nella brevità della vita presente, come dice il Savio, tu, anima fortunata, custodirai con ogni cura il tuo cuore (Pr 4,23), indubbiamente il Signore ti concederà quanto promette per mezzo di Isaia: Ti darò gli occulti tesori e ti svelerò la sostanza dei segreti e dei misteri (45,3), sostanza la quale è Dio stesso, poiché Egli è la sostanza e il concetto della fede, e questa è il segreto e il mistero. Quando verrà rivelato e manifestato quanto la fede ci tiene nascosto, cioè la perfezione di Dio, come dice S. Paolo (1Cor 13,10), allora all’anima sarà manifestata la sostanza dei misteri segreti. Anche se in questa vita, per quanto si nasconda, l’anima non può giungere mai a conoscere le profondità come nell’altra, tuttavia, se come Mosè si rifugerà nella caverna della pietra (Es 33,22-23), cioè nell’imitazione vera della vita del Figlio di Dio, suo Sposo, con l’aiuto della destra di Dio, meriterà di vedere le spalle di Lui, vale a dire di raggiungere in terra tanta perfezione da unirsi e trasformarsi per amore nel Figlio di Dio, suo Sposo. In tal modo ella si sente tanto unita con Lui e così sapientemente istruita nei suoi misteri che per quanto riguarda la conoscenza di Lui in questa vita, non ha bisogno di dire: Dove ti nascondesti? 11- È già stato detto, o anima, il metodo che ti conviene seguire per trovare lo Sposo nel tuo nascondiglio. Ma se vuoi che io te lo ripeta, ascolta una parola ricca di sostanza e di verità inaccessibile: cercalo con fede e con amore, senza cercare soddisfazione in cosa alcuna, e senza desiderare di gustarla e intenderla fuori di quanto è necessario; queste due cose, come la guida del cieco, ti condurranno per vie a te ignote, al nascondiglio di Dio. Infatti la fede, cioè il segreto di cui si è parlato, è simile alle gambe delle quali l’anima si serve per andare verso Dio, e l’amore è la guida che ve la conduce, di modo che, trattando i misteri e i segreti della fede, meriterà che l’amore le manifesti quello che tale virtù racchiude in sé, vale a dire lo Sposo che ella desidera in terra per mezzo della grazia speciale dell’unione divina e in cielo per mezzo della gloria essenziale, godendo non più nascostamente, ma faccia a faccia. Intanto, quantunque l’anima arrivi a tale unione, che è lo stato più alto a cui si può giungere in questa vita, poiché lo Sposo è nascosto nel seno del Padre, dove desidera goderlo nell’altra, ella continua a dire: Dove ti nascondesti? […] S. Giovanni della Croce
Cantico Spirituale “B” Gesù † Caro fratellino, quanto piacere mi ha fatto la tua lettera! Se Gesù ha ascoltato le sue preghiere ed ha prolungato il mio esilio a causa di esse, devo dirle che egli, nel suo amore, ha esaudito anche le mie, perché lei, secondo quanto mi ha scritto, si è rassegnato a perdere «la mia presenza, la mia azione sensibile»[1]. Ah! lasci che glielo dica, fratello mio: il buon Dio riserva alla sua anima assai dolci sorprese! Essa è «poco abituata alle cose soprannaturali», secondo le sue stesse parole, ed io che non per nulla sono la sua sorellina, le prometto di farle gustare, dopo la mia partenza per la vita eterna, tutta la felicità che si può provare a sentirsi vicina un’anima amica. Non si tratterà più di una corrispondenza come questa, più o meno rara, sempre molto incompleta, che lei sembra rimpiangere, ma un colloquio fraterno che incanterà gli angeli, un’intimità che le creature non potranno biasimare, perché rimarrà nascosta ai loro occhi. Ah! come mi sembrerà bello essere liberata da questa spoglia mortale, la quale, nel caso impossibile che mi trovassi alla presenza del mio caro fratellino insieme ad altre persone, mi costringerebbe a guardarlo come uno straniero, uno sconosciuto qualsiasi!… La prego, fratello mio, non sia come gli ebrei che rimpiangevano le «cipolle d’Egitto». Da qualche tempo non ho fatto altro che servirle fino alla sazietà, di questi legumi che fanno lacrimare, quando s’avvicinano agli occhi senza essere cotti. Ora invece il mio sogno è di dividere con lei la «manna nascosta» (Ap 2,17), che l’Onnipotente ha promesso di dare «ai vincitori». È solo per il fatto di essere nascosta che questa manna celeste attira meno delle «cipolle d’Egitto», ma, sicuramente, quando mi sarà consentito di presentarle un nutrimento tutto spirituale, non rimpiangerà più quello che le avrei dato se fossi rimasta ancora a lungo sulla terra. Ah! la sua anima è troppo grande per attaccarsi a qualche consolazione di quaggiù! È nel cielo che deve incominciare a vivere fin d’ora, poiché sta scritto: «Là dove è il vostro tesoro, ivi è anche il vostro cuore» (Mt 6,21; Lc 12,34). Non è Gesù il suo unico tesoro? Poiché egli è in cielo, è là, che deve abitare il suo cuore. Glielo dico con tutta semplicità, caro fratellino, mi sembra che le sarà più facile vivere con Gesù, quando io sarà accanto a lui per sempre. Bisogna proprio che mi conosca male per aver paura che il racconto dettagliato delle sue mancanze possa diminuire la tenerezza che ho per la sua anima. O fratellino mio! stia pur certo, non avrò bisogno di «mettere la mano sulla bocca di Gesù». Egli ha dimenticato da un pezzo le sue infedeltà; solo i suoi desideri di perfezione sono lì a rallegrare il suo cuore. La supplico, non si «trascini più ai suoi piedi»; segua quel «primo slancio che lo porta tra le sue braccia». È questo il suo posto ed ho constatato, più ancora che nelle altre lettere, che le è vietato andare in cielo per un’altra via. Diversa da quella della sua povera sorellina. Sono completamente del suo avviso, «il Cuore divino è più rattristato delle mille piccole indelicatezze dei suoi amici che dalle colpe, anche gravi, che commettono le persone del mondo». Tuttavia, mio caro fratellino, mi pare che avvenga solo quando i suoi, non accorgendosi delle loro continue indelicatezze, se ne fanno una abitudine e non gliene domandano perdono, che Gesù può pronunziare quelle parole commoventi che la Chiesa gli mette in bocca durante la Settimana Santa: «Queste piaghe che vedete in mezzo alle mie mani le ho ricevute nella casa di coloro che mi amavano» (Zc 13,6). Per quelli che l’amano e vengono, dopo ogni indelicatezza, a domandargli perdono gettandosi nelle braccia sue braccia, Gesù sussulta di gioia. Egli dice ai suoi angeli ciò che il Padre del figliol prodigo diceva ai suoi servitori: «Rivestitelo della sua veste di prima, mettetegli l’anello al dito, rallegriamoci tutti» (Lc 15,22). Ah! fratello mio, come sono poco conosciuti la bontà e l’amore misericordioso di Gesù!… È vero, per godere dei suoi tesori, bisogna umiliarsi, riconoscere il proprio nulla, ed è questo che molte anime non vogliono fare, ma non è così che lei si comporta, fratellino mio, e perciò la via della confidenza semplice e amorosa è proprio fatta per lei. Vorrei che fosse semplice col buon Dio, ma anche… con me. Si meraviglia della mia frase? Vede fratellino mio, lei mi chiede scusa della «sua indiscrezione», che consiste nel desiderio di sapere se, nel mondo, la sua sorella si chiamava Genoveffa; una simile domanda per me è del tutto naturale. Per dimostrarglielo, le fornirò alcuni particolari riguardanti la mia famiglia intorno alla quale non ha avuto informazioni abbastanza precise. Il buon Dio mi ha dato un padre e una madre più degni del cielo che della terra. Essi chiesero a Dio di dar loro molti figli e di prenderli per sé. Questo desiderio fu esaudito. Quattro angioletti se ne volarono al cielo, e le cinque figlie rimaste nell’arena presero come sposo Gesù. Dimostrò un coraggio eroico mio Padre, il quale salì tre volte, novello Abramo, il monte Carmelo per immolare a Dio quello che aveva di più caro. Dapprima furono le due maggiori; poi la terza delle sue figlie, dietro consiglio del suo direttore spirituale e condotta sempre dal nostro incomparabile Babbo, fece un tentativo in un convento della Visitazione. (Il buon Dio si accontentò dell’accettazione. Più tardi, essa ritornò nel mondo dove vive come se fosse nel chiostro). Non restavano più che due figlie all’eletto di Dio, una di diciotto anni, l’altra di quattordici. Quest’ultima, la «piccola Teresa», gli chiese di spiccare il volo verso il Carmelo. Cosa che essa ottenne senza difficoltà fino a condurla dapprima a Bayeux, in seguito a Roma, allo scopo di eliminare gli ostacoli che ritardavano l’immolazione di quella ch’egli chiamava la sua regina. Quando l’ebbe condotta in porto, disse all’unica figlia che gli rimaneva: «Se vuoi seguire l’esempio delle tue sorelle, ti do il mio consenso, non ti preoccupare di me». L’angelo che doveva sostenere la vecchiaia di un tal santo, gli rispose che dopo la sua partenza per il cielo, avrebbe preso anche lei il volo verso il chiostro; e ciò riempì di gioia colui che viveva solo per Iddio. Ma una vita così bella doveva essere coronata da una prova degna di tanta virtù. Poco tempo dopo la mia partenza, il Babbo che noi amavamo come giustamente si meritava, fu colpito da un attacco di paralisi alle gambe, che si ripeté parecchie volte, ma essa non poteva fissarsi là, troppo tenue sarebbe stata la prova, dal momento che l’eroico patriarca s’era offerto a Dio come vittima. Così la paralisi, cambiando il suo corso, si fissò nel capo venerabile della vittima che il Signore aveva accettato. Non ho più spazio per raccontarle particolari commoventi. Voglio dirle soltanto che ci fu necessario bere l’amaro calice fino alla feccia e separarci per la durata di tre anni dal nostro venerabile Babbo, affidandolo a mani pie, ma estranee. Egli accettò questa prova, di cui comprendeva tutta l’umiliazione, e spinse il suo eroismo fino a non volere che si chiedesse la sua guarigione. A Dio, mio caro fratellino, spero di poterle scrivere ancora, se non aumenta il tremito della mano, che mi ha costretta a scrivere questa lettera a più riprese. La sua sorellina, no Genoveffa, ma «Teresa» del Bambino Gesù del Volto Santo [In questa lettera manca la solita sigla finale “rel. carm. indegna” per mancanza di spazio] [1] Le frasi fra virgolette sono citazioni di brani della lettera del padre Bellière a cui risponde la Santa con questa sua lettera. S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo
Lettera a don Bellière
Gesù, divina e completa soddisfazione a tutte le nostre domande. – Mi dilungherei oltre modo, se volessi trattare quest’argomento e mostrare come Gesù sia veramente il divino appagamento dei nostri innumerevoli bisogni. Ci accontenteremo di vedere com’Egli venga in aiuto nella impotenza delle nostre preghiere. Siamo troppo piccoli, troppo poveri, troppo peccatori soprattutto, per potere indirizzare a Dio le nostre preghiere con una piena sicurezza. Ma appena il sentimento della nostra indegnità ci prende, come è giusto, ricordandoci subito del potente Intercessore presso Dio: Gesù, Uomo-Dio. Come dice il grande Apostolo «Egli può salvare perfettamente coloro che per via di Lui si accostano a Dio, sempre essendo vivo, sì da poter intercedere in loro favore» (Eb 7,25). Se avremo cura di confidare le nostre necessità a Lui, nostro perfetto Avvocato, non saremo mai ingannati nella nostra attesa. Egli è onnipotente presso Dio e vince sempre le cause a Lui affidate. Non è forse oggetto delle infinite predilezioni del Padre, perfettamente simile a Lui? Quando il Padre vede il Figlio, così caro ai suoi occhi, avvicinarsi per intercedere a favore nostro, si intenerisce subito. È sufficiente che diriga uno sguardo sull’amato Figlio, così caro ai Suoi occhi, per essere vinto e obbligato ad accordarGli tutto ciò che chiede. Chieder qualcosa per noi, senza Gesù, è fatica sprecata. Chiedete qualcosa in unione con Gesù e per mezzo Suo, è guadagnare la causa in partenza. Per confermare la nostra convinzione, Gesù stesso non l’ha forse dichiarato categoricamente? «In verità, in verità vi dico. Se domanderete qualche cosa al Padre mio in mio nome, Egli ve la darà» (Gv 16,23). Con questa solenne affermazione, che è contemporaneamente una promessa formale, Egli ha voluto toglierci ogni dubbio a questo riguardo. Confidandoci questo grande segreto, ci ha porto la chiave che aprirà a noi tutti i tesori del Cielo. Non potremmo ragionevolmente nutrire dubbi od esitazioni. Stiamo certi che, se busseremo, la porta si aprirà, purché bussiamo in nome di Gesù e appoggiamo la nostra fiducia sulla sua divina promessa. Il nome di Gesù è parola d’ordine che disarma Dio. Quand’Egli sente pronunciare questo nome, ci considera all’istante Suoi amici. Istantaneamente diventiamo i benvenuti. Non dimentichiamo mai la grande ricetta che Gesù stesso ci ha fornita per ottenere ogni cosa, il mezzo infallibile per diventare immensamente ricchi di grazie celesti. Nella nostra epoca di invenzioni, si cercano rimedi specifici per tutte le malattie, si vantano questo o quel mezzo nuovo per far fortuna. Forse i figli del secolo saranno più saggi dei figli dell’innocenza? Noi, che sappiamo come fare per diventare ricchi e che abbiamo appreso dallo stesso Gesù questa magica ricetta, perché la dimentichiamo così spesso? Non meritiamo, almeno fino a un certo punto, il rimprovero del Salvatore agli Apostoli: «Finora non avete domandato nulla in mio nome. Chiedete dunque affinché la vostra gioia sia piena»? Possiamo chiedere, naturalmente, in unione con Gesù, anche in modo inconsapevole. E chiediamo, in realtà, uniti a Lui, per il fatto stesso che siamo in stato di grazia e siamo Sue membra mistiche. Come disse sant’Agostino: «È Cristo, nostro Capo, che prega in noi» (In Psalm. 84). Tutte le preghiere di Gesù durante la Sua vita mortale, tutte le Sue preghiere e la Sua intercessione nell’Eucaristia e in Cielo, sono in certo qual modo nostre, se noi siamo Sue membra. Le Sue invocazioni sono nostre. Vedendo noi, membra di Gesù, Dio vede il Suo stesso Figlio Gesù. Ma non è meno vero che le Sue preghiere, elargiteci come un tesoro, possono esser assunte da noi ben diversamente. Se, vivendo nella freddezza, noi non attingiamo a questo tesoro, come potrà giovarci? Se invece, uniti a Gesù intimamente, per amore da un lato, e dall’altro, ricordando espressamente la Sua promessa, noi bussiamo alla porta del Padre Celeste in nome del Suo divin Figlio, allora possiamo stare certi d’essere esauditi. Siamo infinitamente ricchi in Gesù Cristo, ma occorre che ci impossessiamo delle Sue ricchezze, vivendo il più possibile uniti a Lui, e ricordandoci frequentemente e in modo esplicito, che pregare in Suo nome è pregare in maniera irresistibile. Come potrebbe Dio rifiutarci qualcosa, quando Gli ricordiamo la promessa fattaci per bocca del Figlio diletto? Più aumentano le nostre necessità e più Gesù le soddisfa. – Abbiamo già potuto renderci conto dell’immensa ricchezza che, nella nostra estrema povertà, abbiamo possedendo Gesù. «Siamo come gente che non ha nulla, eppure possediamo ogni cosa» (2Cor 6,10). Certamente le nostre necessità sono grandi, e più avanziamo nella vita spirituale, più esse sembrano crescere, per il fatto stesso che abbiamo di esse una coscienza sempre più perfetta e più viva. L’anima fervente prova incessantemente crescenti bisogni di adorazioni, di riparazioni, di riconoscenza, di amore, di invocazione, ecc. Tali bisogni, crescendo, finirebbero col renderla sempre più inquieta, tormentata, addolorata. Ma Gesù non ha voluto lasciar l’anima amante in balia di se stessa e in preda a desideri insoddisfatti. Via via che essa avanza sulla via del divino amore, comprende meglio la sua unione con Gesù. vede sempre più chiaramente quanto poco possa fare da se stessa, ma quanto può immensamente per mezzo del suo Gesù e col suo Gesù. così, naturalmente, essa ricorre sempre più a Lui, suo divino appagamento in tutte le cose. E può gridare in piena verità: «La nostra capacità viene da Dio» (2Cor 3,5). L’anima geme vedendo la sua poca umiltà; ma, per presentarla a Dio, la unisce all’infinita umiltà di Gesù-Eucaristia; prova desolazione, in qualche istante, assistendo alle continue prove del suo amor proprio e accorgendosi quanto poco essa ami, ma possiede, come cosa propria, il braciere di puro amore che arde nel Cuore di Gesù; si sente così poco mortificata, così poco amante della sofferenza, ma possiede Gesù-Ostia che, nella Sua infinita sete di immolazione, Si sacrifica ancora quotidianamente e misticamente sugli altari. Soffre vedendo quante volte cade ogni giorno nelle imperfezioni e negli errori, ma possiede, come cosa sua, la splendida santità di Gesù. Qualunque sia il bisogno che la tormenta, ne trova soddisfazione in Gesù, suo tesoro. Qualunque desiderio abbia, grazie a Gesù, lo vede realizzato in misura superiore. Gesù, infinito Bene, inestinguibile Sorgente di ogni bene, coi Suoi infiniti meriti, e le Sue virtù perfette, le appartiene e le dice amorosamente: «Tutto ciò che è mio, è tuo». Essa può sempre con piena fiducia, presentarLo a Dio per i suoi innumerevoli bisogni. Può ripetere queste semplici e sublimi parole, come fece una grande amica di Gesù: «Eterno Padre, io Vi chiedo queste grazie per i meriti del Vostro divin Figlio. Accettate i Suoi meriti; pagateVi Voi stesso e datemi il resto». Come ricorrere più spesso alla divina potenza di Gesù. – Se abbiamo compreso un po’ meglio quante ricchezze possediamo in Gesù-Eucaristia, non ci siamo forse accorti che, sotto quest’aspetto, dobbiamo farci qualche rimprovero? Torniamo ad osservare noi stessi e il nostro modo di impiegare questa miniera d’oro rappresentata dal Cuore del nostro Salvatore. Possiamo, come abbiamo visto, impossessarci dei Suoi immensi beni, delle Sue virtù d’amore, d’umiltà, di pazienza, di generosità, dei Suoi meriti infiniti. Possiamo impossessarci di Gesù intero, per offrirLo al Padre come un omaggio degno di Lui, l’Infinito. Ma vi sono anche dei modi di appropriarceLo e di approfittare delle Sue inestinguibili ricchezze. Anzitutto, più la nostra volontà sarà unita alla Sua, più la nostra intimità con Lui sarà grande, e più ne approfitteremo. Ma possiamo far di più. Possiamo sforzarci di ricorrere più spesso ed esplicitamente a Lui in ogni genere di bisogni. Possiamo cercare di avere una coscienza sempre più limpida e immediata della potenza dell’ospite divino nei Tabernacoli. Quante volte, per esempio, recitiamo la bella preghiera del «Pater»! Con quale gustosa devozione dovremmo recitarla! Se la reciteremo in nome di Gesù, essa andrà diritta la Cuore di Dio, padre comune a Gesù ed a noi. Ascoltandoci, il Padre crederà con gioia di udire ancora il Suo diletto Figlio. Possiamo anche partecipare alla s. Messa soprattutto con questa disposizione d’animo che è appunto quella della Chiesa. Essa nulla chiede, se non in nome di Gesù, e tutte le preghiere terminano invariabilmente con la formula così piena di senso e spesso così poco apprezzata: Per Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna ecc. Se siamo sacerdoti di Dio, ed anche come semplici fedeli, possiamo ogni giorno deporre sulla patena tutte le nostre azioni, tutti i nostri sentimenti, tutti i nostri pentimenti, per offrirli a Dio, unitamente ai meriti di Gesù. Quando visitiamo Gesù-Eucaristia, possiamo presentarci a Lui come al nostro Mediatore, Riparatore e divino appagamento di tutte le nostre richieste. Possiamo anche, in ogni istante della nostra giornata, senz’andare in chiesa, offrire a Dio Gesù-Ostia, che in quel momento si immola in qualche luogo della terra per amore del Padre e nostro. Saremmo veramente felici e pieni di serenità, se praticassimo abitualmente l’esercizio di ricorrere a Gesù, completa e divina soddisfazione delle nostre aspirazioni. Durante le ore di desolazione e di aridità, quando non troviamo nulla di buono in noi stessi, come sarebbe opportuno ricorrere a Lui, e dimenticando le nostre miserie, offrire il Suo Cuore Eucaristico, modello di ogni virtù, come un gioiello, d’infinito valore, al Padre Celeste! Questo ci renderebbe meno tristi, più coraggiosi e più santamente lieti nell’oblio di noi stessi! E, una volta caduti in qualche fallo, invece di prendercela con noi stessi e di demoralizzarci, sarebbe molto meglio ricorrere ancora a Gesù, nostro Mediatore, e riparare il nostro fallo con un umile pentimento e con l’offerta di Lui a Dio. Ed infine, questa pratica ben compresa e spesso ripetuta, ci farà amare sempre più Gesù. L’ameremo secondo un nuovo significato, come nostro divino complemento e troveremo nuove tenerezze d’amore per ringraziarLo: non per l’amore che ha per noi, ma per quello che ha verso Colui che è ad un tempo Padre Suo e nostro. Tutti i giorni, la nostra unione con Gesù crescerà in virtù di questa pratica. Aderiremo intimamente a Lui per diventare come l’edera che si attacca alla quercia e che, benché debole per se stessa, si confonde con quella, nel reciproco godimento di un’invincibile, identica forza. Paul de Jaegher sj.
Gesù divina e completa soddisfazione di tutte le nostre domande
Tratto da Fiducia, capitolo X, II – E.P. 1954, pp. 171-.178 IHS Mio signore nel Signor nostro. La somma grazia e l’amore eterno di Cristo N.S. salutino e visitino Vostra Signoria. Ho ricevuto l’ultimo giorno di ottobre la sua del 24 luglio. Ho goduto in modo straordinario nel Signor nostro nel sentire cose derivate piuttosto da esperienza e conversione interna che da influssi esterni. Il Signor nostro, nella sua infinita bontà, le concede abitualmente alle anime che pongono la loro dimora in essa come principio, mezzo e fine di ogni altro bene. Il suo nome altissimo sia sempre lodato ed esaltato in tutte le creature, ordinate e create per questo tanto giusto e doveroso fine. Venendo in particolare ad alcuni punti della sua lettera e anzitutto a quello in cui dice che non mi dimentichi di lei nelle mie preghiere e la visiti con le mie lettere, posso assicurarle quanto alla prima cosa che ho continuato, come faccio ogni giorno a pregare per lei, sperando in Nostro Signore che, se le mie preghiere ottengono qualche favore, sarà tutto dall’alto, procedendo dalla sua divina bontà, che guarda solo alla sua eterna e somma liberalità e alla devozione e ai santi propositi di V.[ostra] S.[ignoria]. Sicché ho creduto che, vedendola così in spirito ogni giorno dinanzi a me, soddisfacevo anche alla seconda cosa, al suo desiderio di consolarsi con le mie lettere. Le persone che escono da se stesse ed entrano nel loro Creatore e Signore, hanno assidua riflessione, attenzione e consolazione, e il sentimento che tutto il nostro bene eterno si trova in tutte le creature, dando a tutte l’esistenza e conservandole in essa con il suo essere e la sua presenza infiniti. Considerando tutto ciò, penso bene che con questi pensieri e molti altri si consoli più che le mie lettere. Tutto infatti aiuta coloro che amano interamente il Signore e tutto serve loro per meritare di più e per maggiormente raggiungere e unirsi con carità intensa al loro stesso Creatore e Signore. Anche se poi la creatura molte volte pone ostacoli da parte sua all’opera che il Signore vuole attuare nella sua anima, come V. S. dice molto bene. Ciò non avviene solo prima di ricevere nell’orazione tali grazie, doni e gusti dello Spirito Santo, ma anche dopo che siano venuti e siano stati ricevuti. Essendo l’anima visitata e consolata, liberata do ogni oscurità e inquieta sollecitudine di se stessa, ornata di tali beni spirituali, resta tutta contenta e tutta innamorata delle cose eterne che dureranno sempre in continua gloria, veniamo pure allora a distaccarcene anche con pensieri di poca importanza, non sapendo custodire un sì gran bene celeste. Così prima che venga la grazia e l’operazione del Signore, poniamo ostacoli, e dopo venuta, facciamo lo stesso rispetto al conservarla. Lei parla di tali ostacoli per maggiormente umiliarsi nel Signore di tutti e per meglio esaltare noi che desideriamo invece tenerci quanto più basso possibile. Dice infatti che questa Compagnia non ostacola quello che il Signore vuole operare in essa, intendendo in Araoz [dove a quel tempo era sita la corte portoghese] in Portogallo. Quanto a me, sono convinto che sia prima sia dopo (la venuta della grazia) sono tutto un impedimento; e di questo provo maggior soddisfazione e gioia spirituale nel Signore nostro, perché non posso attribuirmi cosa alcuna che sembri buona. Una cosa sento, salvo parere migliore di persone più illuminate: ci sono pochi in questa vita, o per dire meglio nessuno, che sia capace di determinare o giudicare esattamente in quale misura egli sia d’impedimento e nuoccia a ciò che il Signore vuole operare nella sua anima. Sono però anche convinto che quanto più profonda esperienza di umiltà e di carità avrà una persona, tanto più sentirà e conoscerà persino i pensieri più piccoli e altre cose minime che ostacolano o nuocciono, anche se sembrino di poco o nessun conto, essendo così tenui in sé. Tuttavia, avere una conoscenza completa dei nostri ostacoli e mancanze non è di questa vita presente. Infatti il Profeta domanda di esser liberato dalle colpe occulte (Sal 18,3) e s. Paolo, confessando di non conoscerle, aggiunge che non per questo è giustificato (1Cor 4,4) Ignazio di Loyola
Lettera a Francesco Borgia del fine 1545
Gli scritti UTET 807-809 1. Per esercitare perfettamente la povertà di spirito, rimanete sempre nella vera libertà spirituale, senza legarvi a nulla di creato, riposando in Dio, portando su di Lui solo uno sguardo semplice, proprio per abbracciarLo con la stretta di un amore semplice. Perciò spogliatevi di ogni creatura e rimanete in una perfetta indifferenza, senza scelta né volontà propria, contentandovi sempre e ovunque di ciò che Dio degna operare o permettere con voi, in voi, per voi o attorno a voi.
2. Se Dio vi porta alla devozione sensibile, al fervore dell’amore, al riposo intimo o all’udire una parola che Egli pronuncia in voi, seguiteLo fedelmente e obbediteGli, ascoltandoLo interiormente. Tuttavia, guardatevi da attaccarvi a ciò, per quanto poco sia… Infatti, conoscerete che siete perfettamente povero di spirito quando non possederete nulla con proprietà, e potrete mancare di tutto senza difficoltà né rimpianto. Così non vi è permesso di attaccarvi a qualsiasi altra cosa che Dio, anche se fosse un fuscello o un capello; altrimenti, non potreste piacere perfettamente al vostro Sposo celeste, ed Egli non avrebbe libero accesso a voi, perché desidera possedere il vostro cuore per intero…
3. Quando fissiamo con lo sguardo una mosca o un ramoscello che vola, non possiamo guardare direttamente il cielo, perché la mosca o il ramoscello s’interpongono fra l’occhio e il cielo. Ma se noi non vi fermiamo lo sguardo, se li superiamo senza farvi attenzione, allora vediamo direttamente il cielo. Allo stesso modo, per quanto minima sia una cosa, fintantoché noi ci attacchiamo in maniera disordinata fermandoci in lei, essa pone un intermedio tra Dio e l’anima; ma se noi non ci fermiamo, né ci attacchiamo consciamente e volontariamente, come se non ci fosse, possiamo contemplare Dio senza intermediario, e amarLo contemplandoLo.
4. In questo consiste l’unione essenziale, o immediata, con Dio, di cui parlano alcuni. Vale a dire, noi ci portiamo verso Dio nella usa essenza o, se volete, verso ciò che Egli è in se stesso, e non verso i doni che ci comunica… Da questo deriva che ogni anima che ama Dio così è consolata anche quando sembra abbandonata da Lui: ella non gusta né sperimenta nulla da parte sua, la sua intelligenza non ne riceve alcuna luce e la sua volontà non è infuocata da alcuna tenerezza verso di Lui, ma perché dovrebbe essere triste? Di nulla le importa, dal momento che ella può attaccarsi essenzialmente al suo Diletto, contemplando Dio con una vista immediata e con semplice fede, abbracciandoLo con la stretta di un amore senza miscugli. Michele di S. Agostino
Introduzione al Carmelo, I, 66: Amare Dio essenzialmente Lode della misericordia [versione in italiano moderno]
O eterna misericordia, che veli i difetti delle tue creature, non mi meraviglio che di coloro che escono dal peccato mortale, tornando a Te, Tu dica: «Io non mi ricorderò che tu mi abbia offeso» (cf Ez 18,21-22). Misericordia ineffabile, non mi meraviglio che, a coloro che abbandonano il peccato, Tu dica, riferendoti a chi Ti perseguita: «Io voglio che preghiate per loro affinché Io usi misericordia»[1]. Noi fummo creati nella tua misericordia; e nella tua misericordia fummo ricreati nel sangue del tuo Figlio. La tua misericordia ci conserva. La tua misericordia portò tuo Figlio a sostenere sulla croce la terribile lotta nella quale era in gioco la morte del nostro peccato, e la morte della colpa tolse la vita corporale all’Agnello immacolato. Ma chi fu il vinto? La mrote. Chi la causa prima? La tua misericordia. La misericordia tua dona la vita, essa dà il lume grazie alla cui luce possiamo riconoscere la tua clemenza verso ogni creatura, giusta o peccatrice che sia. Sin dall’alto dei cieli la tua misericordia risplende, poiché è visibile nei tuoi santi. E se mi volgo alla terra, vedo ovunque il suo sovrabbondare. Persino nell’inferno riluce poiché i dannati non ricevono tutta la pena che si meritano. Con la tua misericordia mitighi la giustizia; per essa ci hai lavati nel Sangue; per misericordia hai voluto abbassarti sino a vivere con le tue creature. Oh, Tu pazzo d’amore! Non ti bastò vestire la nostra carne: hai voluto anche morire. Non ti basò la morte. Sei anche disceso agli inferi per trarvi i santi padri e per compiere la tua verità donando loro la tua misericordia. E poiché la tua bontà promette il bene a coloro che Ti servono nella verità, ecco che scendesti limbo[2] per togliere dalla pena chi, avendoTi servito, doveva cogliere il frutto delle sue fatiche. Ma vedo che la tua misericordia Ti costrinse a donare anche più generosamente, allorché hai lasciato Te stesso quale cibo affinché noi deboli ne avessimo conforto, e gli ignoranti smemorati non perdessero del tutto il ricordo dei tuoi benefici. Tutto questo Tu doni ogni giorno agli uomini, facendoti presente nel sacramento dell’altare, nel corpo mistico della santa Chiesa. E tutto ciò è frutto della tua misericordia. O misericordia! Il cuore s’annega nel pensiero di Te, ché ovunque mi volga io altro non vedo che misericordia. O eterno Padre, perdona la mia ignoranza, se ho presunto parlare al Tuo cospetto, ma l’amore della tua misericordia vorrà scusarmi agli occhi della Tua benevolenza.
Lode della misericordia [versione originale]
— O etterna misericordia, la quale ricuopri e' difetti delle tue creature, non mi maraviglio che tu dica di coloro che escono del peccato mortale e tornano a te: « Io non mi ricordarò che tu m'offendessi mai». O misericordia ineffabile, non mi maraviglio che tu dica questo a coloro che escono del peccato, quando tu dici di coloro che ti perseguitano: «Io voglio che mi preghiate per loro, acciò che Io lo' facci misericordia». O misericordia la quale esce della Deitá tua, Padre etterno, la quale governa con la tua potenzia tutto quanto el mondo! Nella misericordia tua fummo creati: nella misericordia tua fummo ricreati nel sangue del tuo Figliuolo. La misericordia tua ci conserva, la misericordia tua fece giocare in sul legno della croce el Figliuolo tuo alle braccia, giocando la morte con la vita e la vita con la morte. E alora la vita sconfisse la morte della colpa nostra, e la morte della colpa tolse la vita corporale allo immaculato Agnello. Chi rimase vinto? la morte. Chi ne fu cagione? la misericordia tua. La tua misericordia dá vita. Ella dá lume per lo quale si conosce la tua clemenzia in ogni creatura: ne' giusti e ne' peccatori. Ne l'altezza del cielo riluce la tua misericordia, cioè ne' sancti tuoi. Se io mi vollo a la terra, ella abonda della tua misericordia. Nella tenebre de l'inferno riluce la tua misericordia, non dando tanta pena a' dannati quanta meritano. Con la misericordia tua mitighi la giustizia; per misericordia ci hai lavati nel Sangue; per misericordia volesti conversare con le tue creature. O pazzo d'amore! non ti bastò d'incarnare, che anco volesti morire? Non bastò la morte, che anco discendesti a lo 'nferno traendone i santi padri, per adempire la tua veritá e misericordia in loro? Però che la tua bontá promette bene a coloro che ti servono in veritá. Imperò discendesti a limbo, per trare di pena chi t'aveva servito e rendar lo' el frutto delle loro fadighe. La misericordia tua vego che ti costrinse a dare anco piú a l'uomo, cioè lassandoti in cibo, acciò che noi, debili, avessimo conforto, e gl'ignoranti smemorati non perdessero la ricordanza de' benefizi tuoi. E però el dài ogni di a l'uomo, rapresentandoti nel Sacramento de l'altare nel corpo mistico della sancta Chiesa. Questo chi l'ha facto? la misericordia tua. O misericordia, el cuore ci s'affoga a pensare di te, ché dovunque io mi vollo a pensare, non truovo altro che misericordia, O Padre etterno, perdona a l' ignoranzia mia che ho presumpto di favellare innanzi a te; ma l'amore della tua misericordia me ne scusi dinanzi alla benignità tua.
[1] Nel contesto precedente del testo, il Padre eterno diverse volte ha invitato Caterina e i suoi amici a pregare e offrire sacrifici per i poveri peccatori perché trovino misericordia.
[2] Ci sono due significati del termine “limbo”. Il primo indica il luogo o lo stato di attesa dei giusti morti prima della venuta di Gesù Cristo. Questi giusti aspettano che si apra per loro la porta del Paradiso, questo è anche il senso del termine “inferi”, per cui noi affermiamo nel Credo che Gesù è ”sceso agli inferi”, cioè appena , morto, l’anima umana del Figlio di Dio unita alla divinità è scesa al limbo a liberare tutti coloro che aspettavano la redenzione. In un altro senso il termine “limbo” indica, in una certa dottrina dei teologi medioevali, il luogo dove vanno le anime dei bambini morti e non battezzati. Questo secondo senso del termine “limbo” non appartiene al deposito della fede della Chiesa e ultimamente la Santa Sede ha dichiarato ufficialmente l’inconsistenza di questa dottrina che non va quindi dai cristiani creduta. Infatti una sola è la vocazione ultima di tutti gli esseri umani: la partecipazione alla vita divina in Cristo nella beatitudine del Cielo. S. Caterina da Siena
Dialogo della Divina Provvidenza, c. 30 Se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione al cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano. […] Questo piacere e questa fiducia che il cuore umano trova naturalmente in Dio, possono derivare soltanto dalla convenienza che c’è tra la divina bontà e la nostra anima: convenienza grande, ma misteriosa; convenienza di cui ciascuno conosce l’esistenza, ma che pochi apprezzano, convenienza che non può essere negata, ma che nessuno riesce a comprendere pienamente. Siamo creati a immagine e somiglianza di Dio: che cosa significa ciò se non che abbiamo una grande convenienza con la sua divina Maestà?
[…] Se esistessero uomini con l’integrità e la dirittura morale nella quale si trovava Adamo al momento della creazione, anche se non avessero altra assistenza da parte di Dio che quella che Egli concede ad ogni creatura perché possa compiere le azioni che le sono proprie, non soltanto avrebbero la tendenza ad amare Dio sopra ogni cosa ma, per legge naturale, potrebbero anche mettere in atto tale giusta inclinazione.
[…] Ora, benché lo stato della nostra natura umana non sia dotato della santità e della dirittura originale che aveva il primo uomo al momento della creazione, anzi, al contrario, siamo fortemente corrotti dal peccato, tuttavia la santa inclinazione ad amare Dio sopra tutte le cose ci rimane, come pure la luce naturale mediante la quale sappiamo che la sua somma bontà è amabile più di tutte le cose, non è possibile che un uomo che pensa intensamente a Dio, anche soltanto per riflessione naturale, non provi uno slancio d’amore, per segreta inclinazione della nostra natura, presente in fondo al cuore; per cui alla prima conoscenza di questo sommo oggetto la volontà si muove e si sente spinta a compiacersi in esso. […]
[…] La stessa cosa, Teotimo, avviene per il nostro cuore; infatti, benché venga covato, nutrito e allevato in mezzo alle cose materiali, basse e transitorie e, per così dire, sotto le ali della natura, al primo sguardo che getta versa Dio, alla prima conoscenza che ne riceve, la naturale e primaria inclinazione ad amare Dio, che era come assopita ed inavvertibile, si risveglia di colpo, compare all’improvviso come una scintilla da sotto la cenere che, toccando la nostra volontà, le dà un impulso di quell’amore supremo dovuto al sommo e primo principio di ogni cosa.
[…] In conclusione, Teotimo, la nostra natura meschina, ferita dal peccato, fa come le palme che vivono di qua dal mare, che di fatto producono qualche cosa, quasi tentativi di frutti, ma mai datteri interi, maturi e buoni, quelli si trovano soltanto nei paesi più caldi. Similmente, il nostro cuore umano, per natura sua, produce certi inizi di amore verso Dio, ma giungere ad amarLo sopra ogni cosa, che è la maturità dell’amore dovuto alla suprema bontà, questo è soltanto di coloro che sono animati e assistiti dalla grazia celeste e che si trovano nello stato di santa carità. E quel piccolo amore imperfetto, del quale la natura sente in se stessa gli slanci, è come un volere sterile che non produce effetti reali, un volere paralitico che vede la piscina della salvezza del santo amore, ma non ha la forza di gettarvisi (cf Gv 5,7); infine quel volere è un aborto della buona volontà; non ha la vitalità del generoso vigore, necessario per preferire di fatto Dio a tutte le cose; per questo l’Apostolo, parlando nella persona del peccatore, esclama: In me c’è di sicuro la volontà, ma non trovo il modo di compierla (Rm 7,18) S. Francesco di Sales
Teotimo Libro I, Capitoli 15-17 JM†JT[1] Dio solo bastas[2]
Carissima signora e sorella,
ho tanto gradito i suoi auguri e la ringrazio delle preghiere che ha fatto per la sua piccola amica del Carmelo. Da parte sua, le assicuro che essa le serba il ricordo più fedele in colui che è il vincolo indissolubile. Se sapesse quanto la mia anima è attaccata alla sua, oserei perfino dire quanta ambizione ho per lei! La vorrei totalmente data a Dio, pienamente unita a lui che l’ama di un amore così grande. Sì, cara signora, credo che il segreto della pace e della felicità sia quello di dimenticarsi, di disinteressarsi di se stessi. Questo non significa non sentire più le proprie miserie fisiche e morali. I santi stessi sono passati attraverso situazioni così crocifiggenti, ma non ne erano schiavi e sapevano liberarsene ad ogni istante. Ogni qualvolta ne avvertivano il peso, non se ne stupivano, ben sapendo di quale impasto fossero fatti, come canta il salmista [Sal 102,14] che però non manca di aggiungere: «Col soccorso di Dio sarò senza macchia e mi salverò dal fondo dell’iniquità che è in me» [Sal 17,24].
Cara signora, poiché mi permette di parlarle come ad una sorella amata, mi sembra che il buon Dio le chieda un abbandono ed una confidenza senza limiti. Nelle ore di maggior sofferenza in cui sente dei vuoti spaventosi, pensi che allora egli scava nella sua anima delle capacità più grandi di riceverlo, vale a dire, in certo qual modo infinite come lui. Si sforzi dunque di essere, per la volontà, tutta piena di gioia sotto la mano che la crocifigge, vorrei perfino dire, guardi ad ogni sofferenza e ad ogni prova come ad una prova d’amore che le viene direttamente da parte del buon Dio per unirla a lui. Dimenticarsi per quel che riguarda la sua salute, non significa trascurare di curarsi, perché questo è il suo dovere e la sua migliore penitenza, ma lo faccia con grande abbandono dicendo a Dio «grazie» qualunque cosa accada. Quando più si fa sentire il peso del corpo e affatica la sua anima, non si scoraggi, ma vada con fede ed amore da colui che ha detto: «Venite a me ed io vi consolerò» [Mt 11,28].
Per quanto riguarda il morale, non si lasci mai abbattere dal pensiero delle sue miserie. Il grande S. Paolo dice: «Dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia» [Rm 5,20]. Mi sembra che l’anima più debole, perfino più colpevole, sia quella che ha più margine di speranza e l’atto che essa compie per dimenticarsi e gettarsi nelle braccia di Dio, lo glorifichi e lo riempia di gioia più che tutti i ripiegamenti su se stessa ed ogni altro tentativo di scrutare le proprie infermità. Essa infatti possiede e porta in se stessa un Salvatore che la vuole purificare ad ogni momento. Ricordi la bella pagina del Vangelo dove Gesù dice al Padre «che gli ha dato potere sopra ogni carne al fine di comunicare la vita eterna» [Gv 17,2]. Ecco quello che vuole compiere in lei. Vuole in ogni momento che esca da se stessa e abbandoni ogni preoccupazione per ritirarsi in quella solitudine che egli si è scelta nel fondo del suo cuore. È sempre là, anche se lei non lo sente. L’aspetta e vuole stabilire con lei «un mirabile commercio», come cantiamo nella bella liturgia [Liturgia dell’Ottava di Natale], un’intimità di Sposo e sposa. Le sue infermità, le sue mancanze, tutto ciò che la turba, è lui stesso, mediante questo contatto continuo, che vuole eliminarle dalla sua anima. Non ha forse detto: «Non sono venuto per giudicare, ma per salvare?» [Gv 12,47]. Nulla deve sembrarle un ostacolo per andare a lui. Non dia troppo importanza al fatto di essere infiammata o scoraggiata. Passare da uno stato all’altro, è la legge dell’esilio. Quello che conta è che lui non cambia mai, che nella sua bontà è sempre piegato su di lei per unirla stabilmente a sé. Nonostante tutto il vuoto e la tristezza opprimenti, unisca la sua agonia a quella del Maestro nell’orto degli ulivi quando diceva al Padre. «Se è possibile, passi da me questo calice» [Mt 26,39].
Cara signora, forse le sembrerà difficile dimenticarsi. Invece è tanto semplice da non meritare alcuna preoccupazione. Le dirò il mio «segreto». Basta pensare a Dio che abita in noi come nel suo tempio. È San Paolo che lo dice [2Cor 6,16] e possiamo crederlo. A poco a poco l’anima si abitua a vivere nella dolce compagnia dell’ospite divino, comprende di essere un piccolo cielo in cui il Dio d’amore ha stabilito la sua dimora. Allora essa respira in un’atmosfera divina, direi perfino che non c’è più che il suo corpo sulla terra, e l’anima vive al di là di ogni nube e di ogni velo, in colui che non muta mai. Non dica che questo è troppo per lei, che è troppo miserabile. Questa, se mai, è una ragione di più per accostarsi a colui che è il Salvatore. Non è guardando alla nostra miseria che saremo purificati, ma guardando a colui che è tutto purezza e santità. S. Paolo dice che Dio ci ha scelto per essere conformi alla sua immagine [Rm 8,29]. Nei momenti più dolorosi, si ricordi che il divino Artista, per rendere più bella l’opera sua, si serve dello scalpello, e rimanga in pace sotto la mano che lavora. Quel grande Apostolo che è S. Paolo, dopo essere stato rapito al terzo cielo, sentiva la propria infermità, e se ne lamentava con Dio che gli rispondeva: «Ti basti la mia grazia, perché la forza si perfeziona con la debolezza» [2or 12,9]. Non le sembra che tutto questo sia tanto consolante?…
Coraggio dunque, cara signora e sorella, l’affido in modo particolare ad una certa piccola carmelitana morta a 24 anni in odore di santità, che si chiamava Teresa del Bambino Gesù. Essa diceva prima di morire, che avrebbe passato il suo cielo a fare del bene sulla terra. La sua grazia è quella di dilatare le anime, di lanciarle sulle onde dell’amore, della confidenza, dell’abbandono. Diceva di aver trovato la felicità dopo aver incominciato a dimenticarsi. La invochi con me ogni giorno perché le ottenga quella scienza che fa i santi e che dà all’anima tanta pace e felicità!
A Dio, cara signora, questa settimana, essendo l’ultima prima della solitudine dell’Avvento, vedrò la mamma, Margherita e le bambine e non mancherò di salutarle tanto da parte sua. Le nipotine son proprio graziose e formano la gioia della loro cara nonna. Anche i piccoli di M. Luisa devono essere la sua gioia. Dica per favore alla buona M. Luisa che prego per lei e non dimentico i bei momenti di Labastide. I miei ossequi alla signora Maurel. Per lei, cara signora, creda al mio profondo affetto e alla mia unione in colui di cui S. Giovanni dice che è l’amore [1Gv 4,16].
La sua sorellina e amica M. Elisabetta della Trinità r.c.i.[3]
[1] Iniziali dei santi nomi di Gesù, Maria, Giuseppe e Teresa (Jesus, Maria, Joseph, Theresia) con cui le Carmelitane iniziano le lettere.
[2] S. Teresa d’Avila, Massime.
[3] Religiosa Carmelitana Indegna Santa Elisabetta della Trinità
Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità Lettera 217: Alla signora Angles [Novembre 1905]
Asc, 3403: T 8-9 Unite il vostro cuore e la vostra azione a quella di Gesù per trarne forza e vigore, e per farla nel suo spirito, assicurandovi così di essere nelle sue vedute, nei suoi intenti e nella sua perfezione. Pregate che Egli metta la sua mano sulla vostra, che Egli lavori con voi. Fate che Egli sia, per una vostra dolce applicazione a Gesù operante e conversante, effettivamente il vostro Emanuele per la presenza e per l’influsso del suo spirito nel vostro. Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio [Ct 8,6]. Immaginatevi che Egli vi inviti ad incidere il suo sigillo ben dentro il vostro cuore, pregateLo che lo incida lui stesso, che si imprima questo sigillo ai vostri occhi per santificare i vostri sguardi, alla vostra bocca per consacrare tutte le vostre parole, alla vostra mente per santificare tutti i vostri pensieri, alla vostra volontà per regolare tutte le vostre affezioni, al vostro corpo e alla vostra anima per imprimervi il contrassegno inconfondibile della sua umiltà, della sua purezza e della sua innocenza.
Org, 2262:T1,1,4-5 Mezzi per perfezionare ogni azione della giornata
Il massimo impegno degli Oblati di Maria Vergine sia riguardo agli atti di religione, sia riguardo a tutte le altre azioni della giornata è, ad imitazione del Divino Maestro, di fare non solo azioni sempre buone, ma di farle tutte bene.Fanno quindi attenzione alla qualità delle azioni, al fine e al modo di eseguirle.
Qualità Quanto alla qualità, sono primariamente ben risoluti di non fare mai niente contro la volontà di Dio conosciuta, e contro la coscienza.Si guardano inoltre dal fare le azioni soltanto suggerite dalla volontà propria, che guasta perfino le stesse azioni buone. Si prefiggono di preferire sempre a qualunque azione di supererogazione [cioè non obbligatoria] le azioni comandate da Dio, e le prescritte dai Superiori. Tra le azioni libere vogliono preferire quelle che conoscono di maggior gloria di Dio, quelle cioè in cui si pratica maggiormente il vince te ipsum [vinci te stesso], e si procura il maggior bene delle anime.
Fine Quanto al fine procurano di avere una grande rettitudine di intenzione. Memori del detto del Signore: se l'occhio tuo sarà losco, tutto il tuo corpo sarà tenebroso, in ogni loro azione si fanno uno studio particolare di escludere qualunque fine umano. Cercano Dio solo in tutto e la sola sua santa volontà, e non se stessi, né il proprio comodo, e si studiano di piacere a Dio solo, e non agli uomini. Ansiosi sono di rendere così sommamente nobili e meritorie secondo la forma, perché divenuti atti di carità, non solo tutti gli atti di religione, ma anche tutte quelle azioni che secondo la materia potrebbero essere indifferenti e basse. La quale rettitudine d'intenzione, non si contentano di averla espressa al principio della giornata, e di conservarla virtualmente, ma sovente tra il giorno la rinnovano, affinché non accada loro di incominciare con lo spirito e di finire con la carne.
Imitazione di Gesù Cristo Quanto al modo si appigliano a quell'unico che piace a Dio, e ci propose l'Eterno Padre, cioè di imitare lo stesso Figliolo di Dio che si è fatto servo per essere modello dei suoi servi. In ciascuna azione hanno dunque sempre Gesù innanzi agli occhi; Gesù è sempre il loro compagno ed il loro modello, e si studiano d'imitarlo nel modo più perfetto, sia quanto all'interno che all'esterno, unitamente agli esempi di Maria Santissima, per rendere in questo modo, con l'intercessione di Maria più somigliante a Dio, l'immagine impressa nella nostra anima.
1°. E per meglio poi riuscire in questo impegno, tengono la seguente pratica, cioè: incominciano l'azione non con impeto, ma ex fide, cioè con un tranquillo sguardo di fede a Gesù nostro modello, investendosi del suo spirito e unendosi alle sue intenzioni, per operare come crediamo avrebbe operato in simili circostanze. Così S. Narciso soleva comporsi anche nell'esterno, come Gesù. Proseguono l'azione non languidamente, ma cum affectu, inserendovi sovente degli slanci tranquilli e soavi di cuore verso Gesù.La finiscono non ex abrupto, ma reflexe, cioè, come si è detto di sopra, parlando dell'esame, con un rapido sguardo, cioè se l'azione sia stata fatta totalmente secondo il Cuore di Gesù o no, quindi per ringraziarne il Signore, o farvi un atto di contrizione.E così si propongono di fare sempre, sia che si tratti di pregare come di agire, o di patire.
2°. Il frutto che risulta da questo modo di operare che essi pure si propongono, e che incessantemente chiedono a Gesù ed a Maria, è una grande somiglianza ed unione con Gesù, ove consiste tutta la santificazione nostra, poiché così continuamente si esercitano a conservare la memoria non dissipata, ma dolcemente fissa in Gesù, ad assuefare l'intelletto a vedere e giudicare sempre ogni cosa secondo Gesù, a tenere la volontà sempre tranquilla ed unita a quella di Gesù.Insomma, così sono sempre in compagnia di Gesù, conversano sempre con Gesù, sempre uniti con Gesù e nelle intenzioni e nelle azioni, e così diventano una copia viva di Gesù. Così Gesù forma l'unico tesoro del loro cuore; così Gesù abita nei loro cuori, ed essi abitano nel Cuore di Gesù. Qual cosa è più grande e più consolante di questa? Ven. P.Pio Bruno Lanteri
DAGLI SCRITTI DEL VEN. P. PIO BRUNO LANTERI Il silenzio è mitezza.
Quando non rispondi alle offese, quando non reclami i tuoi diritti, quando lasci a Dio la difesa del tuo onore, il silenzio è mitezza!
Il silenzio è misericordia.
Quando non riveli le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell’intimo, il silenzio è misericordia!
Il silenzio è pazienza.
Quando soffri senza lamentarti, quando non cerchi consolazioni dagli uomini, quando non intervieni, ma attendi che il seme germogli lentamente, il silenzio è pazienza!
Il silenzio è umiltà.
Quando taci per lasciare emergere i fratelli, quando celi nel riserbo i doni di Dio, quando lasci che il tuo agire sia interpretato male, quando lasci ad altri la gloria dell’impresa, il silenzio è umiltà!
Il silenzio è fede.
Quando taci perché è Lui che agisce, quando rinunci ai suoni, alle voci del mondo per stare alla sua presenza, quando non cerchi comprensione, perché ti basta essere conosciuto da Lui, il silenzio è fede!
Il silenzio è adorazione.
Quando abbracci la Croce senza chiedere: “Perché” e, come Gesù, la offri al Padre, il silenzio è adorazione!
“Poni, Signore una custodia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra” – Sal 140,3 Preziosità del silenzio
Liberamente tratto dagli scritti di S. Giovanni della Croce
L’Assunzione della Beata Vergine
«Durante la Messa essa [santa Gertrude] recitò tre volte il salmo: Laudate Domini omnes gentes. La prima volta lo recitò per domandare a tutti i Santi di offrire per lei al Signore i loro meriti, onde prepararla a ricevere degnamente il Sacramento della vita. La seconda volta pregò allo stesso intento la Beata Vergine, e la terza volta il Signore Gesù. La Beata Vergine a questa preghiera si alzò ed offrì alla fulgida e sempre tranquilla Trinità i meriti eccelsi che nel giorno della sua Assunzione l’avevano innalzata al di sopra degli uomini e degli Angeli e resa oggetto di divina compiacenza. Poi, lasciando il posto che occupava, le disse: “Vieni, o diletta, e siedi al mio posto, rivestita di tutte le perfezioni che attirano su di me le compiacenze dell’adorabile Trinità, per ricevere anche tu, nella misura in cui può esser concesso, lo stesso favore. Essa, molto stupita, rispose con grande disprezzo di sé: “O Regina di gloria, e per quali meriti potrei mai ardire di desiderarlo?”. “Lo potrai ottenere in tre modi, rispose la santissima Vergine: chiedi, per l’innocente purezza con la quale ho preparato una degna dimora gradita al Figliuolo di Dio nel mio seno verginale, di essere purificata da ogni macchia di peccato. Prega poi che tutte le tue negligenze siano riparate per la profondissima umiltà che mi ha sublimata sopra i cori degli Angeli e dei Santi. E chiedi infine, per l’incomparabile amore che mi ha unita a Dio, di essere colmata dei meriti di molte virtù”. Essa lo fece devotamente e subito si trovò elevata in ispirito ad una gloria sublime, che le veniva concessa per benigna degnazione della Regina del cielo, sì che, quand’essa apparve seduta al posto della sua Sovrana e ornata dei di Lei meriti, il Dio di Maestà si compiacque in lei oltre ogni dire, mentre gli Angeli e i Santi venivano a renderle reverente omaggio». S. Gertrude la Grande
Le Rivelazioni, IV, c. 48 Come pregare e salutare la Madre del Signore
Un giorno, durante l’orazione, domandò al Signore su che cosa avrebbe desiderato che meditasse. Egli rispose: «Tieni vicina la Madre mia che siede accanto a Me, e applicati a onorarla con le tue lodi». Salutò allora devotamente la Regina del Cielo con questo versetto: Paradisus voluptatis ecc.: Paradiso di delizie, congratulandosi che ella fosse stata scelta a giocondissima abitazione dell’inesauribile Sapienza di Dio che prende nel Padre le sue delizie e a cui nulla è nascosto. La pregò poi di ottenerle un cuore così adorno delle più belle virtù che Dio potesse compiacersi di abitarvi. La beata Vergine parve chinarsi come per piantare nel cuore di chi le rivolgeva questa preghiera i fiori di svariate virtù, e cioè la rosa della carità, il giglio della castità, la viola dell’umiltà, il girasole dell’ubbidienza e altri ancora, facendole in tal modo comprendere quanto pronta essa sia ad esaudire le preghiere di coloro che la invocano. La salutò in seguito col versetto: Gaude morum disciplina: rallegrati o noma dei costumi, per lodarla di aver custodito e governato i suoi sensi, i suoi affetti, le sue volontà e tutti i moti dell’anima sua con tanta diligenza da aver potuto offrire coi suoi pensieri, le sue parole, le sue opere, un perfetto ossequio d’amore al Signore che dimorava in lei. E poiché la pregava di volerle ottenere lo stesso favore, le parve che la Vergine Madre le mandasse i suoi propri affetti sotto forma di delicate fanciulle perché si unissero agli affetti dell’anima che la pregava. La eccitassero a servir meglio il Signore e supplissero alle sue deficienze. Lasciò così intendere anche per questa via quanto grande sia la sua prontezza nell’aiutare che la invoca. Dopo un momento di silenzio essa disse al Signore: «Poiché, Signore, ti sei fatto uomo e hai voluto essere nostro fratello per supplire alle nostre incapacità, degnati anche in questo momento di supplire alla deficienza delle lodi che ho rivolto alla Madre tua». A queste parole il Figlio di Dio si alzò e inchinandosi davanti alla Madre sua la salutò piegando il capo con tale affettuoso ossequio che essa dovette certamente gradire l’omaggio di una creatura di cui il Figlio suo suppliva così abbondantemente l’imperfezione. Il giorno dopo, stando di nuovo in orazione, la Vergine Madre le apparve sotto il simbolo di un candido giglio a tre petali, di cui uno era eretto e due piegati in fuori. Essa comprese allora che ben a ragione la beata Madre di Dio è chiamata il «Candido Giglio della Trinità», poiché essa ha partecipato più di ogni altra creatura alla pienezza delle virtù della Trinità santissima, pienezza che non ha mi offuscato con la polvere del più piccolo peccato veniale. Il petalo eretto simboleggiava l’onnipotenza del Padre e i due petali ricurvi la sapienza del Figlio e la bontà dello Spirito Santo che la Madre di Dio ricopiava fedelmente in sé. La santa Vergine le fece comprendere che chiunque la salutasse devotamente chiamandola «Candido Giglio della Trinità, fulgida Rosa di celestial bellezza», la loderebbe per il potere che l’onnipotenza del Padre le ha conferito, per le ingegnose misericordie che la sapienza del Figlio le ispira a salvezza del genere umano, e per la ricchezza immensa di carità di cui lo Spirito Santo l’ha fatta partecipe. E aggiunse: «Al momento della morte io apparirò a quest’anima rivestita di tale bellezza da riempirla di consolazione e di celestiale beatitudine». Da quel giorno essa si propose di salutare la SS. Vergine o anche le sue immagini con queste parole: «Salve o candido Giglio della fulgida e sempre tranquilla Trinità; salve o fulgida Rosa di celestiale bellezza da cui volle nascere e del cui latte volle cibarsi il Re del cielo: pasci di divini influssi anche le anime nostre». S. Gertrude la Grande
Le Rivelazioni, III, c. 19 Come possiamo offrire per noi i meriti del Signore e dei Santi.
Essa doveva un giorno ricevere la santa Comunione e, dolendosi di essere insufficientemente preparata, pregò la beata Vergine e tutti i Santi di offrire per lei al Signore quella perfetta disposizione che, durante la loro vita, li aveva preparati a ricevere la grazia. Pregò inoltre il Signore Gesù affinché si degnasse di offrire per lei la perfezione con la quale, al momento della sua Ascensione, si presentò a Dio Padre per essere glorificato.
Cercò, più tardi, di capire quale accrescimento di grazia avesse conseguito con questa preghiera, e il Signore le disse: «Hai conseguito la grazia del cielo rivestita dei loro meriti. E aggiunse ancora: «Perché non credere che Io, tuo Dio onnipotente e misericordioso, possa compiere ciò che può compiere chiunque sulla terra? Chi infatti possiede un ricco abito può con esso o con altro simile rivestire un suo amico, e far sì che egli comparisca agli occhi degli altri con una veste altrettanto splendida della sua».
Si ricordò intanto che aveva promesso ad alcune persone di comunicarsi in quel giorno secondo le loro intenzioni, e pregò devotamente il Signore di voler elargire anche a loro il dono che essa aveva ricevuto. Ebbe questa risposta: «Io lo concedo, ma dipenderà da loro il volersene servire».
Chiese allora in qual modo desiderava che queste anime utilizzassero il suo dono e il Signore aggiunse: «Quando, in qualunque momento, si rivolgeranno a Me con cuore puro e sincera e buona volontà, e invocheranno anche una sola parola o con un sospiro la mia grazia, subito appariranno ai miei occhi rivestite di quei meriti che tu ha impetrato per loro con la tua preghiera». S. Gertrude la Grande
Le Rivelazioni, III, c. 34 Cari fratelli e sorelle! Nel suo discorso d'addio, Gesù ha annunciato ai discepoli la sua imminente morte e risurrezione con una frase misteriosa. Dice: "Vado e vengo da voi" (Gv 14, 28). Il morire è un andare via. Anche se il corpo del deceduto rimane ancora – egli personalmente è andato via verso l'ignoto e noi non possiamo seguirlo (cfr Gv 13, 36). Ma nel caso di Gesù c'è una novità unica che cambia il mondo. Nella nostra morte l'andare via è una cosa definitiva, non c'è ritorno. Gesù, invece, dice della sua morte: "Vado e vengo da voi". Proprio nell'andare via, Egli viene. Il suo andare inaugura un modo tutto nuovo e più grande della sua presenza. Col suo morire Egli entra nell'amore del Padre. Il suo morire è un atto d'amore. L'amore, però, è immortale. Per questo il suo andare via si trasforma in un nuovo venire, in una forma di presenza che giunge più nel profondo e non finisce più. Nella sua vita terrena Gesù, come tutti noi, era legato alle condizioni esterne dell'esistenza corporea: a un determinato luogo e a un determinato tempo. La corporeità pone dei limiti alla nostra esistenza. Non possiamo essere contemporaneamente in due luoghi diversi. Il nostro tempo è destinato a finire. E tra l'io e il tu c'è il muro dell'alterità. Certo, nell'amore possiamo in qualche modo entrare nell'esistenza dell'altro. Rimane, tuttavia, la barriera invalicabile dell'essere diversi. Gesù, invece, che ora mediante l'atto dell'amore è totalmente trasformato, è libero da tali barriere e limiti. Egli è in grado di passare non solo attraverso le porte esteriori chiuse, come ci raccontano i Vangeli (cfr Gv 20, 19). Può passare attraverso la porta interiore tra l'io e il tu, la porta chiusa tra l'ieri e l'oggi, tra il passato ed il domani. Quando, nel giorno del suo ingresso solenne in Gerusalemme, un gruppo di Greci aveva chiesto di vederLo, Gesù aveva risposto con la parabola del chicco di grano che, per portare molto frutto, deve passare attraverso la morte. Con ciò aveva predetto il proprio destino: Non voleva allora semplicemente parlare con questo o quell'altro Greco per qualche minuto. Attraverso la sua Croce, mediante il suo andare via, mediante il suo morire come il chicco di grano, sarebbe arrivato veramente presso i Greci, così che essi potessero vederLo e toccarLo nella fede. Il suo andare via diventa un venire nel modo universale della presenza del Risorto, in cui Egli è presente ieri, oggi ed in eterno; in cui abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Ora può oltrepassare anche il muro dell'alterità che separa l'io dal tu. Questo è avvenuto con Paolo, il quale descrive il processo della sua conversione e del suo Battesimo con le parole: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2, 20). Mediante la venuta del Risorto, Paolo ha ottenuto un'identità nuova. Il suo io chiuso si è aperto. Ora vive in comunione con Gesù Cristo, nel grande io dei credenti che sono divenuti – come egli definisce tutto ciò – "uno in Cristo" (Gal 3, 28). Benedetto XVI
alla Veglia Pasquale 2008
Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, da una sola aspirazione, da una sola disciplina, dallo stesso servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio! Tra di essi nessuna separazione, non nello spirito, non nella carne; al contrario, veramente due in una sola carne! E dove c’è una carne sola, lì vi è pure un solo spirito; essi infatti pregano insieme, si prostrano insieme davanti a Dio, osservano insieme le prescrizioni del digiuno; a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si confortano.
Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nelle Chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, perfetta uguaglianza nei disagi, nelle persecuzioni, nelle consolazioni.
Nessuno de due si nasconde all’altro, nessuno evita l’altro, nessuno è di peso all’altro. Liberamente fanno visita ai malati e si prodigano per aiutare i poveri. Compiono elemosine senza contrasti e frequentano il Sacrificio eucaristico senza ansie. La loro operosità quotidiana non conosce impedimenti; non fanno il segno della croce furtivamente, manifestano le loro espressioni di gioia senza simulazioni, e non sono certo silenziose le loro benedizioni […].
Cristo, nel vedere e nell’udire, gode di quella festa e invia ad essi la sua pace. Dove si trovano quei due sposi, lì si trova egli pure, e dove è lui, ivi non entra certamente il maligno. – Tertulliano
Dalla Lettera alla consorte |