Tempo Ordinario “A”

OMELIE DEL TEMPO ORDINARIO "A"

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Seconda Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                               Omelia

 

“Ecco l’Agnello di Dio!”

Carissimi fratelli e sorelle,

iniziamo questo Tempo Ordinario dedicato a Matteo con questa breve parentesi giovannea riprendendo,  attraverso il racconto che ne fa il Quarto Vangelo, l’incontro di Gesù con il Battista al Giordano che abbiamo rivissuto domenica scorsa proprio nella Festa del Battesimo di N. S. Gesù Cristo che ha chiuso il ciclo liturgico natalizio. Giovanni non racconta del battesimo di Gesù come gli altri evangelisti, suppone il suo svolgimento, ma non lo racconta. Egli riporta l’incontro e la proclamazione di Giovanni Battista nei confronti di Gesù quale “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo…, che battezza in Spirito Santo” e sul quale vede “scendere lo stesso Spirito sotto forma di colomba”, su di Lui che “è il Figlio di Dio”. 

Certamente l’affermazione del Battista che Gesù è “il Figlio di Dio” era un’affermazione messianica ancora lontana dall’essere compresa come affermazione del fatto che in quest’Uomo abitasse “corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), sarà poi nella predicazione della Chiesa al mondo, dopo la Pentecoste, che questo titolo di “Figlio di Dio” sarà proposto nella sua pienezza di verità e di significato come proclamazione di fede in Colui che è la Seconda Persona della SS.ma Trinità.

Ma se il Battista stesso non comprendeva quanto si nascondeva in questa sua proclamazione di Gesù Figlio di Dio e tanto meno coloro che l’udirono, l’altra affermazione, ripetuta due volte, che Costui eral’Agnello di Dio”, risuonava nel cuore di tutti con una maggiore pregnanza di significato.

Illuminato dallo Spirito Santo, non senza una profonda commozione, il Battista indica in quel deserto del Giordano, Gesù come “l’Agnello di Dio”, coniugando così in modo mirabile la figura dell’“Agnello pasquale” della liturgia ebraica con quella del “Servo sofferente” di Isaia che “condotto al macello come un agnello… portava su di sé i peccati di molti” (Is 53,7.12). Lo stesso “Servo” attraverso cui il Padre manifesterà la sua gloria e illuminerà i popoli (prima lettura).

Per poter entrar dentro, in profondità e non rimanere ad un livello superficiale di penetrazione del mistero nascosto nella frase del Battista – “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” – occorre necessariamente avere una conoscenza basilare del Vecchio Testamento.

Con questa frase Giovanni, infatti, rimandava alla vittima sacrificale delle liturgie ebraiche, ricordiamo ora in particolare quell’agnello immolato a cui non veniva spezzato nessun osso (cfr. Es 12,46) e il cui sangue asperso sulle architravi delle porte delle case ebraiche preservò gli abitanti di esse dallo sterminio dell’ultima piaga d’Egitto (cf Es 12,22-23) e del quale si faceva memoria in ogni cena pasquale (cf Es 12,14). Non a caso Giovanni l’Evangelista ricorderà come neanche a Gesù verrà spezzato alcun osso perché, arrivati i soldati per spezzargli le gambe, Lo trovarono già morto (cf Gv 19,31-33).

Tutti i riti sacrificali ebraici erano un piccolo e lontano segno di quest’“Agnello” indicato dal Battista, ma in particolare uno di essi ci aiuta di più a comprendere il mistero che si realizza in quest’“Agnello”, si tratta del rito del Kippur, rito dell’espiazione (cf Lv 16). 

Una volta l’anno il sommo sacerdote eseguiva questo rito che vi descrivo in sintesi. Venivano presi due agnelli, uno veniva immolato, l’altro veniva portato davanti al sommo sacerdote, il quale gli imponeva le mani dicendo su di esso i peccati di tutto il popolo e poi questo secondo agnello veniva portato nel deserto, condannato a vagarvi portando simbolicamente su di sé i peccati del popolo.

Gesù è dunque veramente “l’Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo”, è Lui l’agnello condannato dal sommo sacerdote a vagare nel deserto portando su di sé i peccati del popolo. Quello che nei due agnelli del Kippur era solo un simbolismo e una profezia, ora, in Gesù, si realizza nella pienezza. È in Gesù, vero “Agnello”, che avviene la realtà simboleggiata: Lui è il vero “Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo” (Gv 1,30.37) prendendoli su di sé e strappandoceli di dosso ed è Lui l’Agnello che viene altresì immolato per i nostri peccati (cfr. Col 2,14).

Lui, Gesù, porta sul serio i peccati del popolo. È un peso che lo schiaccia, fu per questo peso che costrinse il Battista, che non voleva, a battezzarLo (cf Mt 3,3-13-15). Chiese il battesimo e chiese perdono a Giovanni, non per i suoi, ma per i nostri peccati. Lui, il Figlio di Dio, chiese perdono per i nostri peccati e li presentò al Padre non come nostri, bensì come suoi. Lui ci ha amato a tal punto che ha fatto suo suo ciò che era solamente nostro, per levarci un peso che a noi era impossibile togliere. Lui si fece “maledetto” perché noi fossimo “benedetti” (cfr. Gal 3,13-14) e così “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor 5,21).

La missione di Giovanni Battista non si è conclusa lì sulle rive del Giordano, ma essa continua nel tempo attraverso il ministero della Chiesa, chiamata anch’Essa a preparare i cuori all’incontro con Gesù, il Salvatore di ogni uomo, e ad indicarLo presente nel mondo, risorto e vivo.

Come Giovanni visse per annunziare Gesù ai Giudei, così la Chiesa vive per annunziare Gesù al mondo, annunziarLo ieri come oggi come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Il verbo “togliere” non trasmette pienamente la missione di Gesù che – potremmo dire – è venuto a strapparci di dosso, a divellere dalle nostre persone il peccato. C’è nella missione di Gesù una tale veemenza d’amore divina con cui Egli irrompe nella storia dell’umanità per strapparle da dosso e disintegrarlo nel suo amore, il peccato, che noi forse ancora stentiamo a capire. Il desiderio di Gesù, l’ansia che Lo ha fatto scendere dalle altezze insondabili del Cielo, all’umiltà del presepe e alla nudità della croce, è quello di strapparci il peccato di dosso per permetterci di essere “santi” (seconda lettura):Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione!” (1Ts 4,3). 

Normalmente quando si parla di santità, tutti si spaventano, ma cos’è la santità se non la capacità di amare nella verità e nella pienezza, cioè fino in fondo? Gesù è venuto a strapparci di dosso il peccato. per permetterci di amare così. Il peccato è infatti per essenza sua “non-amore”, rifiuto di amare, chiusura all’amore, negazione dell’amore, anche se – spesso – si camuffa di amore, esso è proprio agli antipodi dell’amore vero.

Gesù, il Salvatore del mondo, si presenta alla coscienza di ogni uomo che accoglie la predicazione della Chiesa, “desiderando ardentemente” di far Pasqua con lui (cf Lc 22,15), desiderando cioè di entrare con la sua veemenza d’amore divino nella sua vita per strappargli tutto ciò che lo blocca, lo soffoca e gli impedisce di amare. Ma per poter fare questo occorre che la persona riconosca umilmente il suo peccato e invochi il Salvatore: “Signore, salvami!” (Mt 14,30).

Il nostro peccato è il “luogo” dell’incontro con il Salvatore, Lui è infatti venuto per strapparcelo di dosso. Non riconoscere la realtà del proprio peccato, significa affermare l’inutilità della venuta di Gesù. Gesù non è venuto semplicemente per insegnarci ad essere più buoni, più generosi, più educati, Lui è venuto per strapparci di dosso il peccato e per far questo, Lui lo ha preso su di sé e lo ha inchiodato alla croce (cf Col 2,14).

Ma perché tutto quest’interesse per noi…, perché tutto quest’interesse per te… per me? Perché questo desiderio di vederci senza peccato…, liberi…, belli…, capaci di amare? Cosa smuove Dio a strapparci di dosso i peccati? E questo non una, due o più volte, ma sempre, ogni volta che riconosciamo i nostri peccati, le nostre colpe, Lui ce li strappa di dosso. Cosa può mai smuovere Dio che “è Amore” (1Gv 4,8.16) se non l’amore, Dio tutto fa per amore, con amore e nell’amore, ma si tratta di un’amore troppo grande che noi fatichiamo a capire, ma quando incominciamo a capirlo, tutto cambia, tutto è diverso, tutto trova un nuovo e più profondo significato d’amore e allora la persona incomincia a capire la vuotaggine del peccato, la bruttura del peccato, la malizia del peccato.

Quando la persona incomincia a conoscere l’amore di Dio comincia a sentire una specie di nausea per il peccato, qualunque genere di peccato, sovviene un senso di rifiuto, di vomito. Finché questa nausea non ci ha presi, siamo ancora presi dal peccato e non abbiamo ancora conosciuto l’amore di Dio e il desiderio che Lui ha di strapparci da dosso il peccato.

La Vergine Santa che più di ogni altra creatura ha in odio il peccato perché ha visto i suoi effetti sul corpo martoriato e morto di suo Figlio, Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo, ci comunichi la sua sensibilità a tutto ciò che è peccato, perché possiamo facilitare l’opera dello Spirito di Gesù in noi che lavora incessantemente per strapparci di dosso il peccato e immetterci il suo amore verso il Padre e i fratelli.     Amen. 

j.m.j.

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Terza Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                        Omelia

 

Convertirsi è credere all’amore del Padre

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo la parentesi giovannea di domenica scorsa, riprendiamo oggi la lettura del Vangelo di Matteo che accompagna il nostro cammino incontro al Signore in questo Anno Liturgico “A”. Dal lunedì dopo la Festa del Battesimo di N. S. G. C. siamo entrati nel Tempo Ordinario. Questo tempo liturgico, a differenza degli altri tempi, non celebra qualche evento particolare della vita di nostro Signore, ma semplicemente siamo chiamati a seguirLo lungo la sua predicazione evangelica, a fermarci con Lui mentre annuncia il Vangelo alle genti e ascoltarLo…, a guardarLo mentre passa facendo del bene a tutti (cf At 10,38), cercando di non perdere nemmeno una sua parola, un suo gesto, un’espressione del suo volto, un fremito del suo Cuore, un sospiro della sua anima, raccogliendo tutto nel nostro cuore per meditarlo (cf Lc 2,19.51), gustarlo (1Pt 2,3) e assimilarlo (cf Fil 2,5).

Lasciato il Battista, Gesù si fermò 40 giorni nel deserto e quindi si trasferì a Cafarnao, il paese di Pietro e Andrea, siamo nel territorio della Galilea delle Genti che faceva parte geograficamente di Israele, ma era il luogo più frammischiato al paganesimo. Infatti questo era un territorio del Regno del Nord d’Israele che nel 722 a.C. fu distrutto dagli Assiri e una grande numero dei suoi abitanti deportati. Nei secoli successivi le popolazioni che s’insidiarono in questi luoghi erano formate sia da ebrei che da pagani. L’oracolo d’Isaia che abbiamo ascoltato come prima lettura, accenna ai tempi di quella deportazione e parla di una luce divina che avrebbe illuminato quegli uomini affranti liberandoli dal giogo della schiavitù.

L’evangelista Matteo riprendendo quest’oracolo lo vede realizzato nella sua pienezza in Gesù che, stabilitosi a Cafarnao, percorre quei territori illuminandoli con la luce della sua parola e la forza della sua presenza liberando tutti coloro che sono sotto il giogo della schiavitù del peccato (cf At 10,38): “Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata”.

«La luce è uno dei bisogni primordiali dell’uomo. Essa non è solo un elemento necessario alla sua vita, ma quasi l’immagine della vita stessa. Questo ha influito profondamente sul linguaggio, per cui “vedere la luce”, “venire alla luce” significa nascere, “vedere la luce del sole” è sinonimo di vivere… 

Al contrario, quando un uomo muore, si dice che si è  “spento”, che “ha chiuso gli occhi alla luce”… La Bibbia usa questa parola come simbolo di salvezza. Il salmo responsoriale pone la luce in stretto rapporto con la salvezza, mostrandone l’equivalenza: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”.

“Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1,5). Egli “abita una luce inaccessibile” (1 Tm 6,16). In Gesù la luce di Dio viene a risplendere sulla terra: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv 12,46)».                         Commento alla liturgia del giorno Maranatha

Matteo, poi, riassume tutta la predicazione di Gesù in questi territori nei quali ha iniziato il suo peregrinare apostolico, con questa frase: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”, frase identica a quella con la quale lo stesso evangelista aveva riassunto la predicazione di Giovanni Battista (cf Mt 3,2). 

Apparentemente, dunque, non c’è differenza tra le due predicazioni, quella del Battista e quella di Gesù, entrambe annunziano la necessità di una “conversione” e entrambe la motivano a ragione del fatto che è “vicino il regno dei Cieli” cioè il regno di Dio.

Dunque nessuna differenza tra la predicazione del Battista e quella di Gesù? La differenza che passa tra queste due predicazioni è la stessa che passa tra il V.T. e il N.T.: il Nuovo porta a perfezione il Vecchio e il Vecchio aveva preparato il Nuovo.

Entrambe le predicazioni invitano alla “conversione”. Cosa significa questo termine? Si tratta dell’invito a riprendere la strada giusta, a ritornare indietro. Si tratta di un cambiamento radicale dell’impostazione della propria vita. Essendo la vita un cammino, cambiare strada implica cambiare vita. Si tratta di cambiare orientamento, stile di vita, mentalità, modo di ragionare, modo di porsi nel mondo e di relazionarsi con gli altri. Questa conversione ha il suo punto fondamentale in un nuovo modo di relazionarsi con Dio che non viene più visto come un estraneo o un contendente o un rivale o un padrone o un tiranno, ma come un “Padre buono”. Certamente tutto questo troverà nella predicazione di Gesù la sua pienezza di manifestazione, ma già nel V.T. la predicazione profetica avevano raggiunto una grande profondità:

Ritornate figli traviati” (Ger 3,14.22); perché avete abbandonato me sorgente d’acqua viva e vi siete costruite cisterne screpolate che non mantengono l’acqua? E bevete acqua putrida invece della mia acqua viva? (cf Ger 2,13). “Ritornate figli traviati”: perché continuate a spendere i vostri averi per ciò che non vi sazia e non volete venire a mangiare il mio pane e bere il mio vino che soli possono regalarvi sazietà, pace e riposo? (cf Is 55,2).

Tutta la predicazione di Gesù è un invito a credere alla benevolenza, all’amore misericordioso del Padre, ad aver fiducia in Lui e nel suo amore: “Il Padre stesso vi ama” (Gv 16,27; cf Lc 15: Le tre parabole della misericordia). 

Gesù ha ricevuto una duplice missione:

  • La prima è quella di renderci manifesto, tangibile, esperimentabile l’amore del Padre per noi (cf 1Gv 1,1-4), la vita di Gesù è segno visibile dell’amore del Padre per l’umanità tutta (cf Gv 3,16): “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Tutto quanto Gesù dice, fa e patisce, manifesta l’amore del Padre: è il Padre che in Lui agisce e opera perché Lui e il Padre sono una cosa sola (cf Gv 10,30) e Lui fa tutto ciò che ha imparato dal Padre (cf Gv 8,28). 

Convertirsi al Padre, in riferimento a questa missione di Gesù, significa aprirsi all’azione dello Spirito del Padre che in noi suscita l’attrazione verso Gesù (cf Gv 6,44) e ci invita e spinge a credere che Gesù è veramente il Figlio di Dio. È questo il desiderio del Cuore del Padre, è questa l’opera che Lui desidera attuare nei cuori di tutti: Che tutti credano “in Colui che Egli ha mandato” (Gv 6,29). Il Padre, infatti, ci ama perché abbiamo creduto che Gesù è il Figlio suo Diletto e Lo abbiamo amato (cf Gv 16,27).

  • La seconda è quella di presentarci in Se Stesso il modello perfetto di Figlio, Lui è “il primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29), per cui gli uomini sono invitati a guardare a Lui come al “Maestro” (Gv 13,13-14) da imitare (cf 1Pt 2,21), ma non si tratta semplicemente di un’imitazione esteriore, di fare come ha fatto Lui, ma un’imitazione interiore di essere ciò che è Lui, e quindi avere “i suoi stessi sentimenti” (Fil 2,5), i suoi desideri, le sue speranze, i suoi sospiri. Di avere in noi le sue ansie, le sue amarezze, i suoi dolori. Di avere il suo stesso modo di pensare, di ragionare, di amare.

Convertirsi al Padre in riferimento a questa missione di Gesù, significa aprirsi all’azione dello Spirito di Gesù che Gesù stesso ci ha comunicato con la sua morte e risurrezione. Il Signore Gesù ci comunica il suo stesso Spirito che è lo stesso Spirito del Padre, quello Spirito che è stato protagonista della sua incarnazione (cf Lc 1,35), che era sceso su di Lui con potenza al Giordano (cf Mt 3,16 e paral.), che Lo aveva condotto nel deserto (cf Mt 4,1 e paral.) e in ogni momento della sua esistenza terrena (cf Lc 10,21) e che consegnò al Padre morendo (cf Gv 19,30: “Chinato il capo spirò” (= emise, consegnò lo spirito, cioè la sua anima umana assunta nell’incarnazione, tabernacolo fulgidissimo dello Spirito Santo). Lo Spirito che ci rende partecipi del “pensiero di Gesù1Cor 2,16), lo Spirito che attualizza e opera in noi la trasformazione a immagine di Gesù “di gloria in gloria” (2Cor 3,18) fino a poter dire che non siamo più noi a vivere, ma è Gesù che vive in noi (cf Gal 2,20) e così poter dire sempre con maggiore verità e intensità d’amore: “Abbà, Padre!” (Gal 4,6).

Sia il Battista che Gesù motivano l’urgenza impellente della conversione, a causa del fatto che “il regno dei cieli è vicino”. Il regno di cui loro parlano è chiamato altrove anche “regno di Dio” (Mt 6,33; 12,28; 21,31, ecc.) oppure “regno del Padre” (Mt 13,43; 26,29; Lc 12,32), oppure anche “regno del Figlio dell’uomo” (Mt 13,41, 16,28) o semplicemente “regno di Gesù” (Lc 1,33; Gv 18,36).

Una parentesi: Matteo non dice espressamente “regno di Dio” perché scrivendo il suo Vangelo per i cristiani provenienti dall’ebraismo volutamente non nomina il nome di Dio. Nominare il nome di Dio, infatti, era cosa sacrilega per ogni buon ebreo: essendo Dio Santissimo nessun uomo era degno di nominarLo. Per questo Matteo usa più dire “regno dei cieli”  che non “regno di Dio”.

La caratteristica di questo regno è che non appartiene a questo mondo (cf Gv 18,36), si tratta di un’irruzione di Dio e del suo mondo nelle realtà terrestri, la vicinanza di questo regno viene annunziata da Giovanni come imminenza, come cioè un regno che sta alle porte; mentre la vicinanza di questo regno annunciata da Gesù è una vicinanza che è già presenza: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,21; cf Mt 12,28), ma non è ancora pienezza, perché è un regno che va cercato ogni giorno (cf Lc 12,31), è un regno che si può perdere (cf Mt 8,12 e paral.) e avrà il suo compimento definitivo solo alla fine dei tempi (cf Lc 22,18; Mt 25,34, ecc.) quando Gesù “…consegnerà il regno a Dio Padre […], perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor15, 24-28).

Il “regno di Dio” è dunque dove Dio viene riconosciuto, accolto, adorato, ringraziato, benedetto, glorificato, cioè, detto in un’altra parola che contiene tutto questo: dove Dio viene amato. Il segno che questo regno è presente nel mondo, poiché Dio non si vede, è che i fratelli si amano, si vogliono bene, sono uniti tra loro (cf Gv 13,35; 1Gv 4,19-21; seconda lettura). Gesù è l’irruenza di questo regno nel mondo perché Egli ama il Padre con cuore umano-divino in una modalità assolutamente unica e infinita e manifesta l’immensità di questo amore per il Padre consegnando se stesso alla morte per i fratelli (cf 1Tm 2,6; Tt 2,14; Ef 5,2; ecc). Il “regno”, è dunque Gesù stesso e, in Lui, tutti coloro che accettano di consegnare se stessi per amore del Padre e dei fratelli, tra questi in particolare, Gesù scelse e sceglie i suoi “ministri” a cui conferisce la stessa missione che ha ricevuto dal Padre (cf Gv 20,21; Lc 10,16) perché siano nel mondo segni vivi della sua continua presenza e testimonino la preziosità assoluta del “regno dei Cieli”, lasciando tutto per esso.

Maria Vergine che fu la prima creatura a godere dell’irruenza dell’Amore di Dio quaggiù e quindi a rendere presente e attuale il “regno di Dio” in questo mondo, aiuti tutti i cristiani, in particolare coloro che Gesù oggi invita a lasciare tutto per rendere presente più efficacemente il suo “regno”, ad acconsentire con gioia ed entusiasmo al suo invito, nella serena fiducia ed assoluta certezza che ciò che si trova vale molto, molto di più, immensamente di più di tutto ciò che si possa mai lasciare (cf Mt 19,27-29 e paral; 13,44-46).

Amen.                                                                j.m.j.

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 Quarta Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”               __Omelia

 

La gioia di non essere Dio!

Carissimi fratelli e sorelle,

Sofonia, nella prima lettura, profeta del VII-VI sec. a. C., annunciando al popolo di Giuda un severo castigo di Dio a causa delle infedeltà alla Legge e invita tutti a “cercare il Signore” per essere risparmiati nel “giorno della sua ira” e far parte, quindi, di quel “piccolo resto” di gente umile e povera che rimanendo fedele a Dio, ne attirerà la sua particolare amorosa benevolenza. Si tratta degli “anawim” d’Israele, i “poveri di Jahvé”, di questi “poveri” parla anche Gesù nel Vangelo odierno, affermando che ad essi appartiene “il regno dei cieli”. Questa infatti è la prima delle nove beatitudini che Gesù annuncia sul Monte: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.

Per comprendere il senso delle beatitudini, bisogna tener presente che l’evangelista Matteo scrive il suo Vangelo a dei cristiani provenienti dall’ebraismo e il suo intento è quello di convincere i suoi lettori che Gesù è veramente il Messia atteso e sperato da Israele, per questo il suo Vangelo è quello più ricco di citazioni del Vecchio Testamento. Matteo presenta ai suoi lettori ebrei Gesù come il nuovo Mosé:

«Per Matteo è importante sottolineare che Gesù è il nuovo Mosè che proclama la nuova legge, la nuova "notizia" del Regno dei cieli. Gesù sale sulla montagna, si mette a sedere ed inizia la sua predicazione. Tutto ciò rievoca gli eventi del Sinai, dove Mosè salì sulla montagna per ricevere le tavole della legge e presentarle poi al popolo. Ma ci sono importanti differenze tra i due eventi salvifici. Mosè venne invitato a salire sulla montagna "verso Dio", (cfr. Es 19,3; 24, 1-12). Lì ricevette da Dio il decalogo che divenne la legge del popolo d'Israele. Invece Gesù, è colui "che è disceso dal cielo", (cfr. Gv 3, 13). In effetti nessuno sale al cielo, se non colui che è disceso dal cielo. Mosè viene istruito riguardo alla legge, cioè riceve da Dio le leggi; ma è lo stesso Gesù che, "messosi a sedere", inizia ad insegnare ai suoi discepoli con piena autorità. Egli è il maestro, Egli è il Figlio unigenito del Padre, che stava presso il Padre. Annuncia un messaggio, proclama delle beatitudini, una via che è Egli stesso. Perché Egli stesso è la salvezza. Colui che Lo ha visto ha visto il Padre. Egli è la nuova Alleanza. "La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (Gv 1,16). Così possiamo comprendere che le beatitudini sono specificamente Cristologiche. Esse ci rivelano in qualche modo il cuore di Gesù, la sua missione, il suo donarsi al Padre e agli uomini. Esse non sono solo una esposizione dottrinale, bensì ci offrono una sintesi di tutta la vita e la missione del Signore».

P. Antonio Izquierdo .

Analizzando le nove beatitudini proclamate oggi da Gesù, cogliamo subito che la prima e l’ultima pongono le promesse di Gesù al presente (“i poveri in spirito” e “chi soffre persecuzione a causa sua” posseggono oggi il “regno dei Cieli”), mentre le altre sette, che stanno in mezzo, pongono la ricompensa promessa al futuro. In quest’intersecarsi di presente e futuro possiamo leggervi quel “già, ma non ancora” che è proprio della nostra dimensione temporale di noi pellegrini verso la patria del cielo (cf Fil 3,20), dimensione di viatori che già posseggono le realtà promesse, ma non ancora pienamente e non ancora definitivamente.

Nella prima delle Beatitudini “beati i poveri in spirito” possiamo vedervi indicato l’atteggiamento fondamentale di colui che accoglie il messaggio evangelico, nell’ultima possiamo vedervi la sua massima attuazione e nelle altre sette delle diverse modalità di attuazione dell’unico atteggiamento fondamentale.

Gesù benedice la “povertà spirituale”: “Beati i poveri in spirito”, non si tratta quindi di una povertà materiale, bensì spirituale. Non si tratta di una carenza di beni materiali, ma della nostra relazione personale con essi e con noi stessi. Dunque potrebbero esservi delle persone povere di beni materiali, ma che non sono poi “povere in spirito” e, al contrario, potrebbero esservi delle persone ricche di beni materiali, ma “povere in spirito”, questo è possibile. Ma rimane il fatto che il Signore Gesù non solo proclamò beata la “povertà in spirito”, ma anche scelse per sé la povertà materiale: Gesù “spogliò se stesso” (Fil 2,7)  e  “da ricco che era si fece povero per arricchirvi della sua povertà”  (2Cor 8,9)  e ammonì fortemente tutti dei pericoli del possesso della ricchezza: “Difficilmente un ricco enterà nel regno dei cieli!…Guai a voi ricchi!” (Mt 19,23; Lc 6,24). Dal presepe di Betlemme alla croce del Calvario, tutta la vita del Figlio di Dio è stata incorniciata da un’estrema povertà materiale che è annuncio del primato assoluto dei beni spirituali su quelli materiali. Per questo, quando si cerca di capire la “povertà spirituale” non bisogna contrapporla a quella materiale, ma piuttosto vederla come la sua anima necessaria perché la povertà materiale possa essere strumento di una ancor più profonda e piena povertà spirituale.

Ma in che cosa consiste questa “povertà spirituale” chiamata anche semplicemente “umiltà”? Essa consiste in due aspetti fondamentali, uno intellettivo e uno affettivo. 

Quello intellettivo è la consapevolezza dell’ovvia verità che noi non siamo Dio e che tutto ciò che siamo e che abbiamo l’abbiamo ricevuto da Dio: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?” (1Cor 4,7). Abbiamo ricevuto tutto da Dio e tutto gratis, senza merito, senza una necessità da parte sua. Sotto questo punto di vista, essere “poveri in spirito”, significa riconoscere che, nei confronti di Dio, non abbiamo ”dirittoa nulla perché, appunto non siamo Dio, ma sue creature, piccole e povere creature: siamo piccoli, limitati, dipendenti e per giunta peccatori. Fin qui l’aspetto intellettivo dell’umiltà o “povertà spirituale” e, sotto questo aspetto, tutti possono essere “poveri in spirito”, perché basta solo un minimo di intelligenza, un minimo di riflessione e non si può non riconoscere che siamo tali: piccoli, limitati, imperfetti, dipendenti e peccatori. 

Ma perché possiamo dirci “umili” o “poveri in spirito” nella pienezza della verità di questo termine, non basta questo banale riconoscimento intellettivo, occorre anche l’adesione del nostro cuore a questa verità, occorre cioè la nostra contentezza di sapere questo. Se manca questo aspetto, umili non siamo, ma tutt’altro: essere contenti di essere creature e quindi di non poter disporre della propria vita come se fossimo Dio; essere lieti di dipendere da Dio in tutto; essere felici di aver bisogno di Lui per respirare, per crescere, per ogni cosa; essere gioiosi di essere nelle sue mani; essere contenti di non aver nessun diritto nei suoi confronti; essere lieti di aver tutto gratis da Lui. Ecco cosa significa “poveri in spirito”!

Lieti persino di essere peccatori, ma non nel senso che siamo lieti di aver peccato – no, questo mai! – ma lieti che quel determinato peccato ci abbia fatto conoscere un amore misericordioso di Dio che mai avremmo potuto immaginare, per cui con la Chiesa sappiamo gridare, anche in riferimento alle nostre colpe personali: “Felice colpa che ci meritò un simile Salvatore!” (S. Agostino – Liturgia della Veglia Pasquale).

Ora, carissimi fratelli e sorelle, vedete bene come, compresa bene questa beatitudine fondamentale della “povertà spirituale”, le altre sono come tanti raggi che fuoriescono da questa:

  • “Beati gli afflitti perché saranno consolati”: la mancanza di salute, di beni materiali e tutte le altre varie afflizioni della vita, fino a quella straziante della perdita di una persona cara, di un genitore, di un figlio, di un amico, sono vissute dall’“umile” come segni inevitabili del suo non-essere Dio, ma creatura che sa di non aver nessun diritto e di essere impotente, ma sa nello stesso tempo – per fede – di essere amata da Dio e “che tutto concorre al bene di coloro che Lo amano” (Rm 8,28) e che nulla e nessuno può separarci dal suo amore né “la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” (Rm 8,35).
  • “Beati i miti perché erediteranno la terra”: l’umile non sarà mai arrogante e prepotente perché sa di essere piccolo, limitato, capace di sbagliare. Sa di non essere Dio e non si comporta quindi da forte e potente, ma da piccolo e debole.
  • “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”: il “povero in spirito” non può non ardere della sete dell’onore e dell’amore di Dio. La giustizia fondamentale che gli uomini infrangono e che è causa di ogni altra ingiustizia che si possa commettere, è quella di non dare a Dio quell’adorazione e quell’amore che Egli si merita avendoci amati per primo (cf 1Gv 4,19).
  • “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”: la misericordia è spontaneità d’amore per l’umile che sa di essere stato lui per primo oggetto di un’infinita e immensa misericordia. 
  • “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”: il “povero di spirito” ha purificato il proprio cuore dalla “rabbia” fondamentale che rode il cuore della persona umana: la rabbia di non essere Dio e non potersi gestire la vita a piacimento; essendo felice e contento di non essere Dio, in questa gioia purifica il proprio cuore rendendolo così capace di vedere e accogliere Dio.
  • “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”: l’“umile”, essendo in pace con Dio perché Lo riconosce gioiosamente Creatore e Padre, si sente fratello di tutti e con tutti vorrebbe lodarLo e ringraziarLo, per questo si adopera a far sì che tutta l’umanità sia una sola famiglia, quella dei figli di Dio.
  • “Beati i perseguitati a causa del Vangelo perché di essi è il regno dei cieli”: il “povero in spirito” avendo capito con immenso stupore di essere stato amato immensamente da Dio, Lo ama in qualunque circostanza, anzi quanto più avverse sono le circostanze della vita quanto più trova motivo per ricambiare a Dio amore con amore, fino a saper consegnare la propria vita per amore suo.

Le Beatitudini esprimono la sintesi del Vangelo e della vita di Gesù stesso e ci mostrano quella sapienza di Dio che sa confondere i sapienti di questo mondo (seconda lettura), sapienza che si manifesta in modo formidabile in Gesù Crocifisso che è “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23-25). Tutto quanto il Signore Gesù predicò al mondo, prima di tutto lo visse in se stesso in tutta la sua esistenza terrena e trova nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione la sua più alta e sublime sintesi.

Chi più “povero” di Gesù Crocifisso che muore nudo (cf Mt 27,35 e paral.) e trattato come l’ultimo dei mascalzoni di questo mondo? Chi più “afflitto” di Lui che muore flagellato e inchiodato al legno? Chi più “mite” di Lui che viene condotto come “agnello mansueto al macello” (Is 53,7)? Chi più assetato di “giustizia” di Lui che muore perché fosse compiuta “ogni giustizia” (Mt 3,15)? Chi più “misericordioso” di Lui che perdona chi Lo ha crocifisso (cf Lc 23,34)? Chi più “puro” di cuore di Lui che è la vittima senza macchia, “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29)? Chi più operatore di pace di Lui che muore in croce perché ci fosse pace tra noi e il Padre (cf Ef 2,14-18)? Chi più “perseguitato” di Lui che fu messo in croce pur non avendo fatto del male a nessuno (cf Lc 23,41) e a tutti aveva fatto del bene (cf At 10,38)?

Ma nello stesso tempo chi più “beato” di Gesù Crocifisso? “Beato e doloroso” (S. Caterina da Siena) che consegna se stesso al Padre per amore e con amore: “Padre, tutto è compiuto…, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Gv 19,30; Lc 23,46). Mai si è udito che qualcuno si sia affidato al Padre, “abbia confidato in Lui e sia rimasto deluso” (Sir 2,10). Gesù quale “primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29) ci vuole dimostrare come questo sia vero, totalmente vero. Gesù vuole farci capire per bene, in modo forte e chiaro che “il Padre ci ama” (Gv 16,27) e che non c’è nessuna situazione o circostanza della nostra vita che è estranea a quest’amore, per questo Lui si è fatto l’ultimo degli ultimi: per insegnare a noi che la nostra vera ed unica beatitudine e felicità che nessuno può toglierci, è la consapevolezza di essere amati dal Padre anche quando qualche chiodo ci infilza al legno della nostra vita.

Vivere le Beatitudini significa dunque credere all’amore del Padre e vivere nell’amore del Padre che in tutto si dona a noi perché noi ci ridoniamo a Lui, trasformando ogni circostanza della nostra esistenza, soprattutto quelle più dolorose, in preziose occasioni per ricambiare il suo infinito e immenso amore che a noi si è fatto conoscere in Gesù Crocifisso e Risorto (cf Gv 3,16).

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, ci aiuti a saper cogliere, nella vitalità della nostra fede, l’amore del Padre nelle circostanze liete e tristi della nostra vita, per poter così con Lei magnificare il Padre nostro del Cielo che “innalza gli umili e ricolma di beni gli affamati” (Lc 1,52-53).

Amen.

j.m.j.

 

 

 

 

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Quinta Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                             Omelia

 

“Voi siete la luce del mondo”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

subito dopo aver consegnato alle folle che lo ascoltavano le Beatitudini, il Signore Gesù continua il suo discorso con parole molto alte che avevano avuto una anticipazione nella predicazione profetica di Isaia ascoltato oggi come prima lettura.

Isaia afferma con forza che la “gloria del Signore” seguirà colui che vive nell’amore, nella carità verso il prossimo, colui che sa condividere e aiutare, essere umile e generoso: “la gloria del Signore lo seguirà”.

A noi, poveri cristiani sprovveduti di un minimo di cultura biblica, questa frase dice ben poco, ma per l’uomo biblico era una frase fortissima, ad effetto. Una di quelle frasi che non poteva non lasciare allibiti ed esterrefatti. La gloria del Signore, infatti, era il segno della presenza di Dio, di quel Dio d’Israele che è potente e infinito, ineffabile e unico, santissimo e trascendente, che nessuno può vedere senza morire (cf Es 19,21, Lv 16,2, Nm 4,20). Di quel Dio che guidò il suo popolo attraverso il deserto nascondendo la sua presenza in quella colonna di nube che di notte s’infuocava (cf Es 13,21; 40,36-38) e sempre nascosto nella nube parlava a Mosé nella tenda del convegno (cf Es 33,9-10). Mosè ardeva dal desiderio di vedere la gloria del Signore (cf Es 33,18: “mostrami la tua gloria”), ma il Signore non gli permise di vederla in pienezza, ma solo di intravederla da lontano (cf Es 33,22-23).

Ora Isaia afferma che questa “gloria” è presente e non abbandona colui che vive nell’amore. Non dice, poi, che la gloria del Signore lo accompagnerà, che lo guiderà, che gli appianerà il cammino, non dice questo, ma dice invece: “La gloria del Signore ti seguirà!”. Cioè colui che ama diventa segno lui della invisibile gloriosa presenza di Dio misericordioso e santo! Dio è con lui ed è pronto a manifestarsi al suo cuore: “ Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”.

Continuando e portando a perfezione quella predicazione profetica, Gesù, dopo aver proclamato ai suoi discepoli le Beatitudini e averli invitati a farle proprie con una vita radicata in esse, dice loro: “Voi siete la luce del mondo…, voi siete il sale della terra!”. Gesù dice, cioè: “Se voi incarnerete queste Beatitudini e le vivrete sarete la luce del mondo e il mondo vedendo voi e le vostre opere potrà capire il senso della vita, delle sue gioie, dei suoi dolorosi travagli, il senso della morte. Voi siete l’unica luce che può illuminare il mondo con la testimonianza della verità vissuta nella vostra vita santa”.

Gesù non dice“voi siete luce e sale se predicherete la mia parola”, ma “risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”, cioè dice loro: “Se voi vivrete le beatitudini e sarete umili, misericordiosi, miti, pacifici e pacificatori, puri di cuore, giusti, capaci di soffrire con dignità e di non scoraggiarvi nelle avversità e nelle persecuzioni, se tutto questo farete, sarete una luce luminosa che inonderà il mondo e costringerà tanti a levare gli occhi verso il Padre del cielo. Perché vedendo voi e toccando per mano il vostro amore, la vostra bontà e santità tutti dovranno dire: ‘Ma Dio c’è proprio veramente!’ perché l’avranno visto in voi e ringrazieranno Lui per il bene che vedranno fare a voi”.

Sì, è proprio così, infatti “Dio è Amore” (1Gv 4,8.16) e lì dove c’è un cuore che ama, Lui si manifesta e si fa conoscere. L’unico modo di conoscere Dio è l’esperienza di sentirsi amati, cioè accolti, aiutati, incoraggiati, perdonati. Lì dove c’è una persona che accoglie, aiuta, incoraggia e perdona, lì c’è Dio che si manifesta attraverso di lei.

Ecco dunque la missione dei discepoli di Gesù: far conoscere l’amore del Padre, mostrare al mondo l’amore del Padre, far esperimentare agli uomini di essere accolti, aiutati, incoraggiati, perdonati, cioè amati.

Vivere le Beatitudini significa tutto questo, significa amare come ci ha insegnato Gesù, rendere presente nel mondo l’amore di Gesù che il mondo non conosce (cf 1Gv 4,8; 1Cor 1,21) perché non vuole accettare la porta d’accesso di quest’amore, non vuole passare per questa “porta stretta” dell’amore vero, non vuole percorrere “l’irta e difficile strada” dell’amore vero (cf Mt 7,13-14). Il mondo non trova l’amore perché rifiuta di cercarlo lì dove esso si nasconde, nella croce.

Vivere le Beatitudini significa vivere la croce di Gesù, cioè amare come Gesù ci ha amato, consegnando la propria vita per amore e “non c’è amore più grande di questo!” (Gv 15,13).

L’inganno fondamentale in cui vive buona parte dell’umanità è quello di cercare l’amore nella ricerca di sé e dell’accrescimento qualitativo e quantitativo della propria vita. E invece di trovare amore e vivere nell’amore, vive nella continua insoddisfazione, nel vuoto, nel non senso, nelle tenebre. Perché ciò che rende felice l’uomo, non è avere qualche comodità in più, qualche agio in più, qualche sollazzo in più, qualche anno di vita in più e qualche acciacco in meno – cose tutte che indicano quello che oggi chiamiamo “qualità della vita” – no! Ciò che rende felice il cuore dell’uomo è amare, per questo è stato creato e non trova pace finché non ama!

Si può vivere nella povertà ed essere felici perché si ama; si può essere nel lutto più tragico ed essere profondamente consolati perché si ama; si può essere nella malattia più affliggente ed essere felici perché si ama; si può essere soli e senza amici ed essere felici perché si ama. Quando il cuore dell’uomo impara ad amare entra nella gioia e nella felicità. 

Questa è dunque la missione che abbiamo ricevuto da Gesù: insegnare al mondo come si ama. L’umanità non sa amare e vive quindi nelle tenebre anelando alla luce: noi siamo la luce del mondo! Che grande missione: illuminare il mondo facendo conoscere il segreto dell’amore.

Il segreto dell’amore è questo: Si ama solo perdendo la propria vita, per cui chi non sa morire a  se stesso non sa amare (cf Mt 16,25 e paral.). Questa è la grande luce che ci viene dalla conoscenza di Gesù, chi accoglie nella propria vita il Vangelo di Gesù, chi comincia ad orientare la propria vita e le proprie scelte sull’esempio di Gesù “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8), comincia ad amare.

Questa è la “sapienza” cristiana (seconda lettura) che il mondo non conosce perché rifiuta la croce di Gesù.

Carissimi fratelli e sorelle, che grande missione che abbiamo ricevuto e che Gesù oggi ci ha ricordato e rinnovato: illuminare il mondo! Non spaventiamoci. Non guardiamo a noi stessi, ai nostri limiti, incapacità e tenebre, guardiamo Gesù. Confidiamo in Gesù, crediamo in Gesù, affidiamoci a Gesù: “Nulla possiamo senza di Lui” (cf Gv 15,5), “tutto possiamo in Lui” (cf Fil 4,13).

Vedete, Gesù ha detto a noi: “Voi siete la luce del mondo”, sì, è vero, l’abbiamo appena ascoltato, ma ha detto altresì: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Ma chi allora è la “luce del mondo”? Lui o noi? Semplice, è Lui “la luce vera che illumina ogni uomo…” (Gv 1,9) ma Lui illumina attraverso noi: noi in Lui e Lui in noi (cf Gv 14,20) e allora ecco come diventare luce che illumina, ecco come compiere quelle “opere buone” che glorificheranno il Padre: aderiamo a Lui, stringiamoci a Lui, facciamo vivere Lui in noi, lasciamo a Lui sempre più spazio in noi e sarà Lui a risplendere in noi e illuminare questo povero mondo bisognoso di luce, bisognoso di amore.

La Vergine Maria ci aiuti in questo, c’insegni Lei a capire cosa vuol dire far spazio a Gesù, Lei che a Betlemme cercò uno spazio per farlo nascere e trovò una grotta per questo, ci insegni a farci grotta per far spazio a Colui che vuole nascere e crescere in noi per illuminare e salvare il mondo. 

Amen.

j.m.j. 

 

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Nona Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                     Omelia

 

Una fede che salvi

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo l’interruzione della Quaresima, del Tempo Pasquale e delle solennità della SSma Trinità e della Pentecoste, riprendiamo lo scorrere del Tempo Ordinario, caratterizzato dal colore liturgico verde. Questo Tempo liturgico ha come caratteristica propria l’ordinarietà, cioè non ci prepariamo a celebrare nessuna grande festa, ma semplicemente camminiamo, domenica dopo domenica dietro a Gesù. Centro del Tempo Ordinario è infatti la domenica come giorno del Signore, giorno della realizzazione di tutte le promesse di Dio, giorno dell’incontro e dell’anticipo della grande festa di lassù quando Lui ci farà sedere alla mensa del Padre suo e passerà a servirci (cf Lc 12,37).

Maria è la protagonista nascosta di questo tempo liturgico, perché in esso noi inseguiamo Gesù lungo il suo pellegrinare verso Gerusalemme come Lo inseguì Lei (cf Mc 3,31), e inseguendoLo, vogliamo fermarci per raccogliere ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni episodio del suo viaggio verso il Calvario, raccogliere tutto e custodirlo e meditarlo nel nostro cuore come faceva così bene Lei (cf Lc 2,19.51). Facciamoci quindi prestare da Maria gli occhi e il Cuore per guardare Gesù con quell’amore con cui Lo guardava Lei e cogliere e gustare tutto quanto Lui vorrà comunicarci camminando con noi verso Gerusalemme.

Oggi, la parola del Maestro, a cui fa da cornice la prima lettura, ci mette in guardia dal pericolo di fondare la nostra spiritualità sulla superficialità di qualche gesto, qualche preghiera, qualche atteggiamento o comportamento esteriore, o sulla semplice partecipazione esteriore a qualche liturgia, senza però essere realmente animati e sostenuti da un amore fattivo per il Signore, che comporti una reale compromissione della nostra vita concreta con la sua Parola. Non basta ascoltare la Parola, non basta pregarla, bisogna viverla, bisogna metterla in pratica sul serio. La parola di Gesù è parola di vita nel senso che illumina la vita e nel senso che cambia la vita. Il nostro Santo Padre Benedetto XVI nella sua enciclica ultima, Spes salvi, ci diceva che il contenuto del messaggio evangelico non è semplicemente «informativo», ma è anche e soprattutto «performativo»:

«Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova». – Spes Salvi, 2.

Se la parola di Gesù è solo ascoltata, ma non vissuta, non salva nessuno: «Allontanatevi da me, Io non vi ho mai conosciuti, operatori di iniquità» (Vangelo odierno). D’altra parte bisogna tener presente che la prima risposta fattiva che il credente dà all’annuncio evangelico della salvezza realizzata da Gesù per noi sulla croce, è la sua stessa fede in Lui, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura:

«Infatti non c’è differenza [tra pagani e ebrei], perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge».

Questo passo paolino sembra contraddire il brano evangelico, perché uno afferma che la salvezza è indipendente dalle opere e l’altro afferma che se la Parola non diventa vita, cioè non diventa operativa e non ci compromette con azioni concrete, non ci salva. Come risolvere questa apparente contraddizione?

La lettera di s. Giacomo aveva colto questa difficoltà e intuito l’equivoco che poteva crearsi nel cuore dei fedeli dalla lettura di Paolo che, come dice Pietro «scrive cose difficili»:

2Pt  15La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; 16così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.

Per cui Giacomo precisa che la sola fede non basta per essere salvati:

Gc 2 14Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. 19Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! 20Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? 21Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull'altare? 22Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta 23e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede.

Allora Paolo si sbaglia? Non credo proprio, solamente che quando egli parla di fede non intende una semplice conoscenza intellettuale o un semplice assenso intelletuale, ma intende l’adesione amorosa di tutta la propria persona alla Persona del Figlio di Dio che “mi ha amato e ha dato Se Stesso per me” (Gal 2,20). Per Paolo è inconcepibile una fede che non salvi, perché per Paolo aver fede in Gesù Cristo, significa credere che Egli è il Figlio di Dio che, avendomi amato fino a dare la sua vita in mezzo ad un oceano di umiliazioni e tormenti, è l’oggetto continuo della mia lode, del mio ringraziamento, del mio amore, per cui:

Fil 3 7.. quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. 8Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo 9e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 10E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 12Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo. 

Vedete bene come questa concezione paolina della fede, che è una fede che sprizza amore dappertutto, è in contrasto non con le parole di Gesù, ma con la vita di tanti cristiani che si definiscono «credenti, ma non praticanti», cioè persone che dicono di credere all’amore e non amano. Non è Paolo che contraddice il Vangelo, ma siamo noi che contraddiciamo la nostra fede quando essa non ci coinvolge più nell’amore. 

Mosè, nella prima lettura, parla di benedizione e maledizione in relazione con chi ubbidisce o disubbidisce alle esigenze della Parola. Si tratta di un termine molto duro, forte – maledizione -, termine che oggi dà un po’ troppo fastidio alle nostre orecchie delicate e supersensibili di cristiani di questo mondo moderno che all’insegna di una libertà concepita “solo come un pretesto per vivere secondo la carne” (Gal 5,13), si serve della libertà come di un velo per coprire la propria malizia” (1Pt 2,16). Libertà che invece di rendere l’uomo libero, lo asserve alle sue passioni. Il mondo è pieno di parolai della libertà che “promettono libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l'ha vinto” (1Pt 2,19). 

Sì, “uno è schiavo di ciò che l’ha vinto”, vinto perché ingannato dalla “passioni ingannatrici” (Ef 4,22). Quelle passioni sregolate  che sono all’origine di ogni nostro peccato e che sono così la causa di ogni nostra schiavitù interiore. “Chi fa il peccato, infatti è schiavo del peccato” (Gv 8,34) e il frutto del peccato è la morte, (cf Gen 3,3), per questo chi pecca è maledetto. Cosa vuol dire che è maledetto? Maledetto vuol dire che non può prendere parte a quella gioia che è riservata da Dio ai suoi benedetti: “Venite, benedetti dal Padre mio, a ricevere il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo…, via da me maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Mt 25,34.41). Su questo punto non ci possono equivoci sulla dottrina cristiana:

Ef 5 5Sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolàtri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio. 6Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l'ira di Dio sopra coloro che gli resistono. 7Non abbiate quindi niente in comune con loro. 8Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; 9il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. 10Cercate ciò che è gradito al Signore, 11e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, 12poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare.

Ma da questa maledizione, carissimi fratelli e sorelle, Gesù “ci ha riscattati, diventando Lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno” (Gal 3,13). È proprio così, carissimi fratelli e sorelle, per il troppo ed esagerato amore che ci portava e ci porta (cf Gv 3,16; Ef 2,4; 1Gv 3,1), “Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Quest’amore ha sollecitato il Figlio a prendere su di Sé la nostra maledizione e a presentarsi davanti al Padre carico dei nostri peccati “annullando il documento scritto del nostro debito le cui condizioni ci erano sfavorevoli, … inchiodandolo alla croce” (Col 2,14). Sì, il Padre non ci ha chiamati alla maledizione, ma alla benedizione, siamo tutti chiamati ad essere in Gesù, figli amati e benedetti chiamati “ad essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4). Sì, il Padre non ci vuole morti, ma vivi, Egli non ha piacere della morte del malvagio, non gode della morte di chi muore, ma desidera piuttosto che desista dalla sua condotta e viva (cf Ez 18,23.32).

La Vergine Santa, nostra Madre e Maestra, ci aiuti a crescere e a maturare in una fede che ci renda sempre più attenti a cogliere nella nostra quotidianità le esigenze dell’amore evangelico e a corrispondervi con gioia ed entusiasmo.  

Amen.

 

 Decima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                       Omelia

 

“Gesù, passando vide un uomo…”

Carissimi fratelli e sorelle,

Oggi, il racconto dell’evangelista Matteo ci porta a Cafarnao che, dopo l’arresto del Battista, era diventata la residenza principale di Gesù Maestro (cf Mt 4,13). Matteo ci racconta un fatto molto importante per lui, si tratta del racconto della sua chiamata a seguire Gesù.

Quel giorno Gesù passò e lo “vide”. Tutto cominciò da questo sguardo di Gesù. Come poteva sfuggire allo sguardo compassionevole di Gesù quel povero Matteo? Gesù lo “vide”, cioè fermò il suo sguardo d’amore su di lui. 

Lo sguardo di Gesù! Come sono ricchi i Vangeli di riferimenti a Gesù che passa guardando con amore: ricordiamo il suo sguardo compassionevole verso le folle che Lo seguivano (cf Mc 8,2)…, verso quella povera donna curva che guarì (cf Lc 13,12)…, o verso quell’altra donna che gettò due spiccioli nel tesoro del Tempio (cf Lc 21,2)… o quell’altra che accompagnava al cimitero il suo unico figlioletto morto (cf Lc 7,13)…; lo sguardo addolorato di Gesù verso Pietro quando lo tradì (cf Lc 22,61)…, lo sguardo sorridente di Gesù verso Zaccheo arrampicato sull’albero…, lo sguardo di Gesù verso quel “giovane ricco” che guardò con amore, ma che se ne andò via “triste” (cf Mc 10,21-22) perché non fu capace di rispondere alla chiamata così come fece Matteo.

Matteo, invitato dal Signore a seguirLo, si alza, lascia il suo banchetto delle imposte, segno di una vita vissuta all’insegna dell’avere, del potere e del godere, per iniziare una vita nuova dove la gioia è riposta nel dare, nel servire, nell’amare fino a dare la propria vita.

Matteo non ci racconta nulla di quello che passò nella sua anima per spingerlo a quel gesto di lasciare tutto per Gesù, solo che appena il Signore lo invitò a seguirLo, “egli si alzò e lo seguì”. Che differenza tra questo pubblicano e quel giovane ricco! Il primo, immerso in una vita ben lontana dalla legge di Dio e dai valori evangelici, il secondo, invece, fin da piccolo aveva sempre osservato i comandamenti di Dio (cf Mc 10,20), entrambi furono guardati con amore da Gesù, entrambi furono chiamati da Gesù a seguirLo, Matteo “si alzò e Lo seguì”, il buon giovane di brava famiglia, educato e buono, “se ne andò via triste perché aveva molti beni” (Mc 10,22) e non riuscì a rinunciarci; Matteo, invece, pieno di gioia per la vita nuova che aveva abbracciato seguendo Gesù, dà un banchetto in suo onore invitando tutti i suoi amici.

Questa è una storia che si ripete nella realtà delle nostre comunità cristiane dove spesso accade che coloro che hanno battuto le strade del peccato e sono giunti a mangiare “le carrube dei porci” (Lc 15,16), convertiti a vita nuova e ritornati nella comunità, sono più ferventi e attivi di coloro che sono stati sempre presenti, ma senza mai compromettersi più di tanto.

È la tentazione del “perbenismo”, cioè di persone che appiattiscono il proprio livello spirituale a cercare di non fare grossi peccati e a fare un po’ di bene in giro, ma non troppo, quel tanto che basti per potersi dire di essere stati “bravi”

Ma il Signore Gesù non ha fatto quel viaggio incommensurabile, dalle altezze insondabili della sua Divinità alla bassezza della nostra umanità, semplicemente perché fossimo delle “brave” persone che non fanno del male a nessuno; né si è lasciato mettere le mani addosso, torturare, vilipendere, umiliare perché noi non facessimo grossi peccati e fossimo un pochino più buoni; né, soprattutto, si è lasciato inchiodare al legno e ha consegnato la sua vita alla morte solo, perché noi fossimo delle persone un pochino più educate dalle altre… No!

Lui è venuto a portare sulla terra “un fuoco” e desidera che esso divampi (cf Lc 12,49)! È il fuoco dell’amore, di quell’amore che nessuna acqua può spegnere (cf Ct 8,7).

Il Signore Gesù non è venuto ad insegnare una dottrina, una nuova filosofia di vita, Egli è venuto per trascinarci dietro di Sé (cf Gv 10,4; 12,32) e portarci al Padre. Per cui il cristianesimo è essenzialmente una “via”, un “cammino” dietro a Gesù (cf 1Pt 2,21). Egli, consapevole di questo, si è presentato a noi come la stessa “Via” (Gv 14,6) che ci porta al Padre, come il “buon Pastore” che ci porta fuori dai nostri limitati recinti verso i pascoli dell’amore (cf Gv 10,3-4), come il “Maestro” (Gv 13,13-14) alla cui scuola dobbiamo vivere e ci ha comandato di vivere e amare come Lui è vissuto e ha amato (cf Gv 13,34; Mt 11,29).

Per questo venne nel mondo e passò lungo le vie della Palestina chiamando le persone a seguirLo.  Anche oggi, misteriosamente, Lui passa e chiama, ci chiama per nome (cf Gv 10,3) e ci invita ad alzarci dai nostri “piccoli banchi” su cui abbiamo appiattito la nostra esistenza per seguirLo in una vita nuova e più bella.

Nel dialogo che abbiamo ascoltato nel Vangelo odierno tra Gesù e i farisei, Gesù invita anche loro ad “imparare”. Essi pensavano che quello che era importante nella vita fosse l’osservanza dei comandamenti, pagare le tasse del Tempio e celebrare la liturgia offrendo qualcosa a Dio e così si sentivano a posto davanti a Lui. Gesù li rimanda agli insegnamenti di Osea (prima lettura) che richiamava il popolo all’essenzialità e al primato dell’amore che deve necessariamente animare le celebrazioni rituali: “L’amore io voglio e non sacrifici”, cioè “Io voglio l’amore e non vuoti rituali vissuti senza amore”.

Matteo e i poveri peccatori come Lui, riconoscendosi indegni della chiamata e dell’amore di Gesù per loro, rispondono a quest’amore con un amore appassionato, perché vedono bene la propria miseria. Invece, coloro che, come i farisei, si sentono a posto e credono di essere “bravi” perché non ammazzano né rubano, non si alzano dal loro “piccolo banco” per seguire Gesù, perché Egli non è venuto per loro, ma solo per i poveri peccatori.

È propriamente per questo che, talora, il buon Padre del cielo, permette che cadiamo in qualche grande peccato e finiamo nel fango dei maiali commettendo quello che mai avremmo pensato che potessimo fare, perché solo così diventiamo capaci di gridare al suo Figlio di salvarci (cf Mt 14,30).

Ma è allora proprio così necessario finire nel peccato per riconoscersi bisognosi di salvezza e quindi di Gesù, nostro unico Salvatore? No, certamente, la Vergine Maria e i numerosi santi non penitenti (s. Luigi Gonzaga, s. Giovanni Berchmans, s. Teresina di Lisieux, b. Elisabetta della Trinità, s. Giovanni Bosco, s. Domenico Savio e tantissimi altri) ci insegnano che è possibile amare appassionatamente il Signore senza essere passati per l’esperienza della lontananza e della dimenticanza.

Come è possibile questo? È facile, basta “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12,2), contemplare la sua passione d’amore per noi e lasciarsi attirare da Lui (cf Gv 12,32). Tenendo fisso il nostro sguardo su di Lui e l’immensità del suo amore per noi, capiremo per contrasto quanto sia piccolo, difettoso e mancante il nostro amore e quanto bisogno abbiamo di essere salvati dalle nostre chiusure all’amore.

Per cui ogni tiepidezza e rilassatezza nella nostra vita cristiana, ogni appiattimento ad una vita mediocre e trascinata, è frutto dell’aver cessato di guardarLo, di guardarLo soprattutto mentre muore d’amore per noi. La morte d’amore del Figlio di Dio per l’umanità è il cuore di quella fede che abbiamo ricevuto nel s. battesimo (seconda lettura) e che ci invita e spinge a ricambiare a Gesù amore con amore.

La Vergine Maria che estasiata Lo guardò mentre dormiva nella mangiatoia…, mentre giocava con gli altri bimbi a Nazareth…, mentre lavorava nella bottega di Giuseppe…, mentre annunciava alle genti il suo Vangelo…, mentre Lo umiliavano e torturavano…, mentre moriva d’amore per noi…, mentre la lancia Gli apriva il cuore…, mentre, nudo e freddo, veniva riposto in un sepolcro per risorgere il terzo giorno, ci presti i suoi occhi e il suo cuore per guardarLo con amore e capire il bisogno che abbiamo di Lui e il dovere che abbiamo di amarLo senza misure. 

Amen.             j.m.j.

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Undicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                   Omelia

 

 

“Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione…”

Carissimi fratelli e sorelle,

le letture della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, del Vecchio e del Nuovo Testamento, hanno un filo rosso unificatore nell’affermare tutte l’amore di Dio per l’umanità.

 

Nella prima lettura lo scrittore sacro parla di quest’amore attraverso la metafora dell’“Aquila”. Tutto il racconto della liberazione dalla schiavitù egiziana viene espresso dall’immagine di Dio che, come un’Aquila, prende e solleva il suo popolo a Sé.

È bella quest’immagine! È forte! È profonda! È un’immagine che ha colpito molto la beata Elisabetta della Trinità, che amava definire se stessa come “la preda d’amore dell’Aquila Divina”. È un’immagine che richiama il concetto di appartenenza al Signore che anche il salmo odierno ricorda: “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”“Voi appartenete a me… voi siete mia proprietà fra tutti i popoli”  afferma ancora la prima lettura.

L’antico popolo del Signore viveva quest’appartenenza a Dio nell’osservanza della sua legge, dei suoi comandamenti. Questa era la risposta del popolo a Dio che lo sollevava sulle sue ali d’Aquila: l’osservanza dei suoi comandamenti, in questa osservanza il popolo rispondeva all’amore di Dio ricevuto e manifestava al mondo la santità di Dio a cui apparteneva, infatti “quale popolo ha leggi e norme giuste come queste (Dt 4,8)? La funzione del popolo ebraico era propria quella di essere segno, in mezzo alle genti, della santità di Dio. Per questo fu preso con ali d’Aquila e separato dalle altre nazioni: un popolo consacrato, unto, cioè dedicato al Signore, “un regno di sacerdoti, una nazione santa” (prima lettura).

Un membro di questo popolo non poteva comportarsi come si comportavano gli altri popoli, perché la sua vita apparteneva al Signore per via di un patto, un’alleanza d’amore. 

E se tutto questo era vero per l’antico popolo di Dio, quanto più lo è per noi, membri del nuovo suo popolo che è tale in virtù di un patto d’amore superiore, infinitamente superiore, siglato nel sangue del Figlio di Dio, “il quale ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Tt 2,14) e “noi che abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16) non apparteniamo più a noi stessi, ma a Lui che è morto per noi (cf 1Cor 6,19-20).

E se l’antico popolo rispondeva all’amore di Dio nell’osservanza dei suoi comandamenti, il nuovo popolo di Dio risponde all’amore del Padre conosciuto attraverso Gesù Cristo, seguendoLo, rispondendo all’invito che il Padre fa a tutti di ascoltare e seguire il suo Figlio Diletto nel quale Egli si è compiaciuto dall’eternità (cf Mt 17,5). Nel Nuovo Testamento non c’è più una norma da osservare, ma una Persona da seguire.

Teniamo poi sempre presente che non si tratta semplicemente di un’imitazione esteriore di quanto Gesù ha detto e fatto, ma si tratta di un’imitazione interiore o meglio di un’assimilazione interiore che è operata in noi dallo Spirito Santo (cf 2Cor 3,18). Noi riceviamo lo Spirito di Gesù perché solo così possiamo avere di Lui quella conoscenza intima che altrimenti sarebbe a noi impossibile raggiungere (1Cor 2,11-12) e riceviamo altresì lo stesso Spirito, perché altrimenti non avremmo la forza di conformare la nostra vita alle esigenze del Vangelo.

 

Nella seconda lettura, s. Paolo ci parla ancora dell’amore di Dio per noi che abbiamo accolto Gesù e il suo Vangelo. È un testo importante e forte. Paolo vuol far capire a chi legge che l’amore del Padre verso di noi è continuo, il dono che Egli ci ha fatto di suo Figlio non è qualcosa di bello e di grande che però appartiene al passato, ma noi siamo continuamente redenti e salvati dalla sua vita presente in noi che crediamo in Lui. E se ci ha amato quando vivevamo nel peccato, quanto più ci ama ora che viviamo nella sua grazia! La vita del cristiano è esperienza continua dell’amore del Padre che si rende presente attraverso la vita di Cristo in noi che continuamente ci salva. Questo è in realtà il “mistero nascosto nei secoli…: Cristo in voi, speranza della gloria!” (Col 1,26-27).

 

Il Vangelo odierno poi ci parla dell’amore misericordioso del Padre che si manifesta attraverso lo sguardo compassionevole del suo Figlio. Abbiamo visto, infatti, come Gesù, commosso, alla vista delle folle che “erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore”, invita a pregare perché “il Padre mandi operai nella sua messe”.

Mandi “operai”, cioè persone che permettano al Figlio del Padre buono del Cielo, di continuare la sua presenza salvatrice nel mondo, questo povero mondo bisognoso di un “buon pastore” che lo conduca a “buoni pascoli” dove possa trovare “vita in abbondanza” (Gv 10,10). 

Fu proprio la vista di questo mondo “sfinito e stanco” che fece sì che il Padre mandasse sulla Vergine il suo Santo Spirito, perché suo Figlio si facesse uomo in Lei per salvarlo. Gli occhi di Gesù, commossi alla vista di quest’umanità “sfinita e stanca”, ci fanno conoscere proprio quest’amore tenero e compassionevole del Padre che viene incontro alle nostre necessità donandoci il suo unico Figlio: quale amore più grande?

E in tutta la sua vita, Gesù, il Figlio, “passò facendo del bene a tutti” (At 10,38) e inaugurò il regno del Padre suo guarendo i malati, risuscitando i morti, cacciando i demoni e annunciando ai poveri l’amore del Padre (cf Mt 11,5; Lc 4,18-19). 

E questo suo potere di guarigione e di salvezza non se lo è tenuto per sé, ma lo ha comunicato alla sua Chiesa che ha edificato sul fondamento dei suoi Apostoli, costituiti da Lui suoi ministri: ministri del suo amore, della sua presenza, della sua luce e forza divina. Abbiamo ascoltato oggi la loro chiamata alla sua sequela. È bello come l’evangelista Matteo ci abbia fatto notare come la loro chiamata sia stata frutto dello sguardo commosso di Gesù sull’umanità. È da quello sguardo ricolmo e sovrabbondante d’amore che nasce ogni vocazione sacerdotale che questo stesso sguardo deve rendere presente nell’oggi del mondo: “E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni”.

Quello che aveva fatto Lui, avrebbero dovuto farlo anche loro: far conoscere l’amore del Padre entrando dentro le miserie del mondo. È proprio quello che la Chiesa nel suo distendersi nel tempo ha fatto e fa: entrare dentro le miserie dell’umanità rendendo presente in esse e attraverso di esse il Salvatore del mondo che ha preso su di Sé tutti i mali dell’umanità e li ha portati sulla croce.

Quest’opera di salvezza e di redenzione viene innanzi tutto attuata dal Signore Gesù attraverso i suoi sacramenti, in cui gli infermi del corpo, ma ancor più gli infermi dello spirito, trovano guarigione e salute, dove i lebbrosi e i morti nell’anima risorgono a vita nuova nella santità; in cui le anime vengono liberate dall’aberrante schiavitù del peccato e strappate così con forza dal dominio del demonio.

“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, così conclude Gesù l’insegnamento ai suoi Apostoli che manda nel mondo ad annunciare il regno del Padre che è regno d’amore gratuito: amore ricevuto, amore donato. 

 

La Vergine Maria che, Madre della Chiesa, ma soprattutto Madre di coloro che suo Figlio chiama ad essere “operai nella vigna del Padre suo”, interceda per noi e ci ottenga la gioia di vedere germogliare e crescere nelle nostre comunità vocazioni alla vita sacerdotale che permettano a Gesù di continuare a commuoversi per quest’umanità “stanca e sfinita” bisognosa più che mai di luce e di salvezza. 

Amen  j.m.j.

 

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Dodicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                   Omelia

 

 

“Non temete: voi valete più di molti passeri!”

Gv 15,26b.27a

Vangelo: Mt 10,26-33

Carissimi fratelli e sorelle,

nel breve brano del Vangelo che abbiamo appena proclamato è risuonato nella nostra assemblea, per ben tre volte, l’invito del Signore Gesù a non avere paura. Ebbene, vorrei – con l’aiuto dello Spirito Santo – riuscire a farvi entrare dentro questi inviti del Signore, perché possiamo essere nel mondo dei testimoni forti e coraggiosi della sua Parola che salva.

“Non temete gli uomini poiché non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti”.

Qui il Signore Gesù invita i suoi Apostoli a non farsi vincere da ogni timidezza, vergogna, paura che li potesse portare a chiudere le proprie labbra alla proclamazione del Vangelo. Gli Apostoli hanno ricevuto dal Divino Maestro la missione di “ammaestrare tutte le genti” (Mt 28,19), facendo risuonare ovunque quanto Egli insegnò loro nei tre anni che li volle con Sé.

Paolo, riprendendo quest’insegnamento del Maestro, dirà al suo discepolo Timoteo: “Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2Tm 4,2-4). 

«“Non temete gli uomini”, ci dice oggi il Signore. Non si tratta semplicemente di un incoraggiamento psicologico. Gesù pensa piuttosto alla paura, allo scoraggiamento, alla sfiducia che il discepolo può vivere di fronte agli uomini che si oppongono alla predicazione del Vangelo, ed in questo modo sembrano far fallire l’opera stessa di Cristo. Che cosa rende forte e coraggioso il discepolo del Signore? L’intima convinzione che non potrà accadere a lui se non ciò che è accaduto a Cristo» – Mons. Carlo Caffarra.

La persecuzione è propriamente il bagaglio di viaggio di ogni buon cristiano secondo la promessa di Gesù:

«In verità vi dico: non c'é nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» – Mc 10,29-30. 

La Parola di Dio, infatti, è sempre scomoda, provocatrice e illuminatrice (cf Eb 4,12-13) e dà fastidio a chi preferisce vivere nelle proprie comode tenebre (cf Gv 1,5; 3,19). E così, “tutti quelli che vogliono vivere pia-mente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2Tm 3,12). Ne seppe qualcosa di questo il profeta Geremia, che ebbe a patire non poco per Essa. Infatti, incaricato dal Signore di un messaggio duro per Gerusalemme, fu odiato e perseguitato, ma seppe star fermo nella fiducia di avere al suo fianco Dio (prima lettura).

Veniamo ora al secondo invito di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna”.

I primi cristiani vissero l’esperienza della persecuzione fisica e la stessa esperienza la vivono oggi molti cristiani in alcuni Paesi dove è in atto la persecuzione religiosa. Il mondo di ieri e di oggi, comunque, non sopporta che la Parola risuoni alla proprie orecchie e cerca sempre di uccidere chi la proclama, se non fisicamente almeno moralmente, deridendo ed emarginando. Ma qualunque pressione operi il mondo per far desistere i cristiani dalla proclamazione della Parola, qualunque condizionamento venga messo in atto, essi non possono tacere perché bisogna obbedire a Dio e non agli uomini (cf At 4,19).

“Non hanno il potere di uccidere l’anima…”, il mondo rinchiude tutta la sua fallace sapienza, tutte le sue allettanti proposte, tutte le sue prepotenti minacce, al materiale, al passeggero, al superficiale, evitando sempre con cura di entrare nella dimensione dello spirituale e quindi dell’anima e della vita eterna per la quale essa ci è stata donata. Carissimi fratelli e sorelle, se vogliamo uscire interiormente vincitori nell’inevitabile scontro con il mondo, dobbiamo farci forti delle verità eterne della nostra fede, dobbiamo assimilarle, farle nostre perché diventino luce e guida delle nostre scelte e dei nostri comportamenti. La prima verità che dobbiamo assimilare è quella della “vita eterna”: non cadiamo nel tranello di credere che siamo fatti solo per questa piccola terra, siamo fatti per qualcosa di infinitamente più grande, più bello che si chiama “vita eterna”. Tutti gli umani ragionamenti crollano di fronte ad essa e manifestano la loro inconsistenza, non facciamoci dunque strappare dal cuore e dalla mente questa verità che vivremo per sempre al di là della morte fisica, perché la nostra anima è immortale e che “tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2Cor 5,10). 

Veniamo ora al terzo invito di Gesù a non aver paura: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!”.

Dopo aver detto ai suoi di annunciare la sua Parola senza paura della prepotenza degli uomini perché c’è un castigo eterno, richiamandosi così alla potenza, alla forza e grandezza di Dio, ora Gesù richiama i suoi Apostoli all’amore del Padre per noi. 

«“Voi valete più di molti passeri!” La tenerezza di un Dio che si prende cura dei passeri, che tiene conto delle mie cose più fragili ed effimere: mi conta i capelli in capo. Sono un passero che ha il nido nelle mani di Dio, eppure ho paura, perché i passeri continuano a cadere a terra, continuano a morire bambini a migliaia, venduti per poco più di due denari. Lui lo sa e ripete per tre volte: Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore. Neppure un passero cade a terra senza che Dio lo voglia. Ma allora è Dio che spezza il volo? È Lui che vuole la morte? No. La parola greca (aneu) è tradotta in modo errato, essa non evoca il volere di Dio, ma significa «senza Dio, lontano da Dio, senza che lui ne sia coinvolto». Nulla accade nell'assenza di Dio; invece molte, troppe cose accadono contro il volere del Padre. E allora il dramma non è solo nostro, esso è anche di Dio (Turoldo). Che è presente, partecipa, si china su di me, intreccia la sua speranza con la mia, il suo respiro con il mio, la sua parola con la mia, Dio non si colloca tra salute e malattia, ma tra disperazione e fiducia. […] Dio sta nel riflesso più profondo delle lacrime, per moltiplicare il coraggio. Non uccide gli uccisori di corpi, dice che qualcosa vale più del corpo. Non placa le tempeste, dona energia per continuare a remare dentro qualsiasi tempesta. E noi proseguiamo nella vita per il miracolo di una speranza che non si arrende, di cuori che non disarmano. Verranno notti e reti di cacciatori, verrà anche la morte, ma nulla ci potrà separare dall'amore di Dio, né spada, né morte, né angeli, né demoni (Rom 8,39). Sì, è vero i passeri e i capelli contati hanno da attraversare la morte. Ma nulla andrà perduto. Gesù mi insegna a proclamare il diritto a che mi sia restituito fino all'ultimo capello di quel corpo che ha sofferto e testimoniato che la vita appartiene solo a Dio» – P. Ermes Ronchi.

Ecco, possiamo trovare proprio in quest’amore di Dio per noi, l’aggancio per la seconda lettura di oggi dove Paolo ci ha ricordato come esso sia veramente sovrabbondante e non si lascia vincere da nessuna chiusura o miseria umana. L’esperienza concreta di quest’amore sovrabbondante di Dio, sia per ciascuno di noi fonte di una incrollabile speranza della possibilità di un mondo nuovo. 

Di fronte alla continua, tremenda pressione del mondo degli anti-valori, di fronte ai suadenti e fortissimi condizionamenti messi in atto dal mondo dei senza-Dio, di fronte al progressivo svuotamento morale delle masse, di fronte alla dilagante corruzione delle coscienze, mai dobbiamo perdere di vista la presenza in questo stesso mondo di un “Amore” più forte, più potente, più grande che non getta la spugna e si arrende lasciandolo andare in rovina, ma che interpella la singola persona per permettergli di attuare la sua opera di redenzione. Infatti, il Salvatore del mondo, il Signore nostro Gesù Cristo cerca, ancora oggi, persone che Gli permettano di continuare a gridare al Padre che perdoni questo mondo che non sa quello che fa (cf Lc 23,34), persone che come agnelli in mezzo ad un mondo di lupi (Mt 10,16) vivano il Vangelo dell’amore seguendo fino in fondo il suo esempio, accettando di portare con Lui, in Lui e per Lui la propria croce, cooperando così alla salvezza di questo povero mondo che va alla deriva.

La Vergine Maria ci aiuti in questo e ci aiuti a non arrossire del Vangelo (cf Rm 1,16) e ad essere cristiani autentici che temono solo di non ricambiare abbastanza quell’amore con cui il suo Divin Figlio ci ha amati.

Amen.     

j.m.j.

 

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Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                Omelia

 

 

“Chi ama qualcuno più di me, non è degno di me!”

Carissimi fratelli e sorelle,

possiamo leggere nella Parola di Dio di questa settimana due tematiche diverse che si incrociano. La prima è quella dell’accoglienza del profeta, dell’uomo di Dio. Nella prima lettura, infatti ci siamo incontrati con quell’episodio bello ed edificante di Eliseo che viene ospitato con tanto affetto e generosità da una coppia di sposi. Protagonista principale è la moglie che, intuendo la santità di Eliseo, insiste con suo marito perché egli possa avere sempre una degna accoglienza nella loro casa e addirittura fanno costruire per l’uomo di Dio una cameretta tutta per lui dove poteva starsene tranquillo.

Questo brano è stato posto oggi dalla Liturgia a cornice del testo evangelico proclamato in cui Gesù parla di una ricompensa che sarà data a coloro che ospiteranno con amore coloro che Lui stesso manderà e che anche un bicchiere d’acqua dato non sarà senza una grande ricompensa, perché in essi è presente Lui: “Chi accoglie voi, accoglie me!”.

Quando nel mio ministero sacerdotale mi incontro con famiglie che mi accolgono con grande rispetto e onore nella propria casa proprio perché sono prete e vengono incontro con sollecitudine alle mie necessità, talora penso a questa coppia di Sunem che ospitò Eliseo e prego il buon Dio che li ricompensi come ricompensò loro. Ogni volta, la lettura di questo brano mi commuove tantissimo. La bontà di quella coppia sterile era veramente grande! E così pure la loro discrezione: costruirono una stanzetta tutta per lui, perché Eliseo se ne potesse stare tranquillo. Vivono una grande afflizione interiore a causa della propria sterilità, ma non chiedono nulla all’uomo di Dio. Non agirono in quel modo per barattare la preghiera di Eliseo con la propria agiatezza economica. Fanno tutto in silenzio…, fanno tutto con amore…, fanno tutto con fede vedendo in quel sant’uomo la presenza nella loro casa di Dio stesso e Dio li premiò con il dono di un figlio.

La seconda tematica è quella dell’amore grande e assoluto che dovremmo avere per il Signore Gesù e viene introdotta dalla seconda lettura che ci parla della necessità che abbiamo di partecipare alla morte di Gesù per poter vivere con Lui. Paolo ci parla di un dover “morire al peccato” partecipando in maniera piena e totale alla passione di Gesù, fino ad considerarsi morti e seppelliti con Lui. Sono concetti forti che troppo spesso scivolano via sull’ombrello della nostra superficialità

Essere cristiani significa partecipare intimamente e pienamente al mistero pasquale di Gesù, per morire con Lui e vivere con Lui: morire con Lui a tutto ciò che è peccato, vivere con Lui a tutto ciò che vero, buono, bello. Cerchiamo un po’, con l’aiuto dello Spirito Santo, di capire cosa significa concretamente morire e risorgere con Gesù, cosa significhi partecipare al suo mistero pasquale.

Il mistero pasquale di Gesù è un mistero di amore, di un amore infinito, sovrabbondante ed eccessivo. Egli per salvare noi, poveri uomini, da Dio si è spogliato della propria divinità e ha assunto la nostra umanità e da uomo ha voluto nascere povero, vivere povero e morire povero e umiliato su una croce (cf Fil 2,6-8). Perché tutto questo? Perché avendo l’umanità contratto con Dio un debito che non poteva saldare, Lui si è fatto uomo per dare la possibilità all’umanità di pagare quel debito e in questo modo salvarsi. E così ha fatto “annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2,14).

Il cristiano è dunque innanzi tutto colui che ha creduto a questo amore: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16) riconoscendo che il Figlio di Dioci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). 

Questo riconoscimento non può avvenire se non alla luce dell’esperienza della risurrezione, perché è la risurrezione la prova definitiva della divinità di Gesù. La passione di Gesù è infatti salvifica perché è la passione del Figlio di Dio. Nessuna passione di un semplice uomo avrebbe potuto salvarci, se la sua passione ci salva è perché è quella del Figlio di Dio, Dio Lui stesso con il Padre e lo Spirito Santo.

Essere cristiano quindi significa credere che il Figlio di Dio è veramente morto e veramente risorto per amore nostro, ma questo non basta. Certamente da questa affermazione di fede inizia il dinamismo della salvezza, che è un dinamismo d’amore.

Il passo successivo all’affermazione di fede in Gesù Crocifisso, vero Dio e vero uomo, è l’essere attirati da Lui: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Cosa significa essere attirati da Gesù Crocifisso? Significa cominciare a ragionare in un modo nuovo, a vedere le cose in un modo nuovo: quello che prima di essere attratto da Gesù, mi attirava ora non mi attira più e viceversa, quello che prima non mi attirava ora mi attira (cf Fil 3,8). La persona comincia a capire, guardando Gesù Crocifisso, quello che veramente vale nella vita, ciò che è importante, ciò che dà senso e comincia a capire la vanità del mondo (cf Qo 1,2) e della sua sapienza (cf 1Cor 1,21). Guardando Gesù Crocifisso, la persona comincia così anche a capire cosa vuol dire amare e cos’è il vero amore e lo comincia a distinguere da tutti i suoi surrogati.

Il terzo passo del dinamismo della salvezza è la “sequela”: seguire Gesù, mettersi al suo seguito scegliendo di rispondere di “Sì” al suo invito. Infatti il protagonista è sempre Lui, Gesù, che dopo averci attirato a Lui ci invita a seguirLo. Qui possiamo dire di “No” e andarcene via “tristi” (cf Mt 10,22) o possiamo dire di “Sì” e andargli dietro attratti dalla sua bellezza e dalla soavità del suo Vangelo (cf Ct 1,4) impegnandoci, con l’aiuto del suo Santo Spirito, a conformare la nostra vita con la sua.

Ed è a questo punto e solo a questo punto che la persona si rende capace di capire e vivere quelle parole che abbiamo sentito oggi proclamare: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.  Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.

E allora, carissimi fratelli e sorelle, vedete bene che se queste parole di Gesù ci suonano troppo forti, se queste parole ci danno fastidio, se queste parole ci sembrano difficili da capire e impossibili da attuare, è evidente che ancora non abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, che ancora non siamo stati affascinati e attratti da Gesù Crocifisso, che ancora non siamo entrati con il nostro dito nelle piaghe del Risorto (cf Gv 20,27).

E allora non ci resta altro da fare che fermarci un po’ più seriamente davanti a Lui mentre muore d’amore per noi, interpellarLo e interpellarci profondamente: “Chi sei Tu che sei lì inchiodato?… Perché sei lì appeso a quel legno?…”.

E quando nel mio cuore scatterà quella fede che mi farà capire che Lui è “il Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20) non potrà non affiorare al mio spirito quella triplice domanda, la cui risposta è il segreto di ogni vita nuova: “Signore Gesù, Tu sei morto per me e io, invece, cosa ho fatto finora per Te?… cosa faccio oggi per Te?…cosa farò domani per Te?”.

La Vergine Santa, nostra Madre e Maestra, ci insegni a fermarci sotto la croce del suo Figlio e lasciarci attirare da Lui in una vita nuova e santa. 

Amen.

 

j.m.j.

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Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                   Omelia

 

“Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

Zaccaria ci ha parlato, nella prima lettura, di un re giusto e umile che avrebbe portato la pace in Israele e in tutto il mondo. Profezia che si avverò pienamente in Gesù, il Messia atteso e sperato che, come predisse questo profeta, entrò in Gerusalemme cavalcando “un’asina con un puledro figlio di bestia da soma” (cf Mt 21,5).

È Lui, Gesù, “il Principe della pace” (Is 9,6), che inaugura i tempi messianici di pace annunciati da Zaccaria e dagli altri profeti (cf Is 11). È in Gesù che finalmente abbiamo pace, tutti. La pace che è venuto a portare Gesù è una pace speciale, non si tratta della pace che anche il mondo può dare, Gesù è stato chiaro in questo, infatti nella Notte dell’Amore prima di lasciare i suoi per la sua Passione, Egli disse loro: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27). Già prima aveva detto loro che Lui non era venuto a portare una certa pace, ma una “spada” (Mt 10,34). Il suo Vangelo, infatti, impone scelte e comportamenti che il mondo condanna come “sciocchi” sentendosi accusato di peccato da chi vive nella purezza e nella santità. Poiché il mondo non sopporta chi vive il Vangelo, il cristiano non può vivere in pace, serenamente, perché sarà sempre emarginato e perseguitato (cf 2Tm 3,12; Sap 2, 12-20). 

Ma allora di quale pace Gesù è il Principe? Quale pace Egli è venuto a portarci? Si tratta di una pace che si situa ad una profondità più alta che raggiunge l’intimo del cuore umano e lo riannoda al suo Creatore:

Gesù infatti è la nostra pace…… Egli è venuto ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” – Ef 2,14-18

Si tratta del fatto che possiamo presentarci al “Padre”: è stata fatta pace tra ogni persona umana, e Dio “che ci ha riconciliati con sé mediante Gesù Cristo” (2Cor 5,18). 

“Il cuore dell’uomo non può avere pace finché non torna a riposare in Dio” (S. Agostino), esso troppo spesso si affatica e si stanca cercando riposo e pace in tutt’altro che Dio, ma dovunque cerchi sollievo non ne trova e quando ne trova un po’ viene divorato dall’angoscia di perderlo.

Gesù è venuto a svelarci il segreto del possesso di una pace che non viene intaccata da nessuna angoscia, niente e nessuno possono scalfirla minimamente. È di questa pace che Paolo parlava quando diceva: 

“Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada […] Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” – Rm 8,35-39

Per possedere questa pace, per possedere quest’amore bisogna perdere qualcosa, per questo non è così semplice e facile possederli: bisogna perdere la propria vita! È questo l’insegnamento di Gesù: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25) e a quest’insegnamento si richiama anche Paolo nella seconda lettura odierna quando ci dice: “Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete”

Cosa vogliono dire queste parole? “Questo linguaggio è duro chi può intenderlo” (Gv 6,60)?

Anche noi, forse, come quei discepoli vorremmo scappare via al suono di queste parole così fastidiose che ci invitano a morire…, a rinunciare… a rinnegare noi stessi (cf Mt 16,24-25), ma che pace è mai questa che impone simili sofferenze? Però, grazie a Dio, non siamo ancora scappati via, siamo lì vicino a Lui e con Pietro anche noi Gli gridiamo forte forte: “Signore, da chi andremo, Tu solo hai parole di vita eterna, noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).Sì, chi può intendere questo linguaggio? Esso è follia per i sapientoni di questo mondo, le cose di Dio infatti il mondo non può capirle “esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1Co 2,14).

Per questo Gesù oggi ringrazia il Padre perché ha “tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”, chi sono questi piccoli di Gesù? Sono appunto coloro che si fidano di Lui e a  Lui si affidano, e hanno creduto in Lui  perché nessuno ha mai parlato come Lui  e, soprattutto, perché nessuno  ha mai amato come Lui. “Venite a me, voi che siete affaticati e stanchi ed Io vi ristorerò”. Quante promesse simili risuonano alle nostre orecchie sempre più intasate da messaggi di felicità promesse e mai mantenute. Ma Gesù non è un pubblicitario, Gesù è Dio! La sua parola è “Verità”, Lui stesso è “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6), la sua promessa la mantiene sempre, chi si fida di Lui non rimarrà mai deluso (cf 2Tm 2,13; Sal 31,2).

«Questa mattina risuona nelle nostre orecchie e – Dio ce lo consenta – anche nel nostro cuore, l’invito di Gesù: "Venite a me; venire a me voi tutti che siete affaticati e oppressi. Io vi ristorerò, venite"…[…] Colui che ha la medicina che ci guarisce dalla nostra malattia mortale – il peccato – non ha atteso, non ha aspettato che fossimo noi ad andare alla sua ricerca, a metterci in lista d’attesa, aspettando il nostro turno per essere ricevuti, visitati, guariti. Lui stesso è venuto e ha detto: “Venite!” A chi ha rivolto questo suo invito? A tutti! […]. L’unica qualità è che siano "affaticati e oppressi". Affaticati e oppressi da che cosa? La dolcezza dell’amore di Cristo! Non lo dice. Se l’avesse detto avrebbe già fatto delle discriminazioni: chi non si fosse trovato in quella forma di oppressione e di affaticamento non avrebbe sentito per sé l’invito: "Venite a me". Qualunque oppressione, qualunque fatica senza distinzioni»

Mons. Carlo Caffarra.

Ma in che modo Gesù ristora coloro che accolgono il suo invito? Non c’è ristoro più grande per l’anima affaticata e stanca che quella di riposare in Gesù stando con Lui, assaporando la sua presenza, gustando la sua bellezza, guardandoLo e lasciandosi guardare da Lui: è lì che veniamo ristorati nell’intimo e troviamo la forza di ritornare a vivere.

«Si può andare con una persona e stando con lei ricevere consolazione e aiuto o perché è talmente buona che sa immedesimarsi con la nostra sofferenza e da questa compassione ne abbiamo un certo aiuto; o perché questa persona, pure nella sua grandezza, è disposta ad ascoltarci per qualche tempo. Ma è una forma di aiuto relativo: all’uomo resta ancora la sua oppressione. Ha solo avuto un momento di sollievo. Qui no. Il Figlio di Dio ha condiviso la nostra oppressione, il nostro affaticamento per cui noi possiamo andare a Lui perché Egli stesso ha vissuto ciò che noi viviamo. Possiamo andare a Lui non semplicemente per rimanere nella nostra condizione, ma per trasformare ed elevare la nostra condizione umana nella sua condizione divina. Egli infatti termina l’invito dicendo: «"E io vi ristorerò", trasformerò la vostra condizione umana. Avendo Io – Dio – partecipato alla vostra condizione umana, questa mia divina condiscendenza ha fatto sì che la vostra condizione umana potesse essere elevata alla mia condizione divina». Mirabile scambio! Noi a Lui abbiamo dato la nostra fatica e la nostra oppressione; Egli a noi ha dato il suo riposo, la sua libertà: "Venite a me". Noi abbiamo ascoltato questo invito e proviamo a metterci in cammino. Ma ci sono delle forze che ci trattengono, che ci tirano indietro: il potere ammaliatore del piacere, la malinconia e l’angoscia che a volte ci prendono, la distrazione che consuma la nostra esistenza nella spensieratezza… Ecco perché Gesù dirà non solo: "Venite a me", ma anche: "Quando sarò innalzato, attirerò tutti a me". Che il Signore ci attiri con tale forza da spezzare in noi tutto ciò che ci impedisce di correre dietro a Lui» – Mons. Carlo Caffarra.

Sì, il nostro ristoro è nascosto lì in quel “giogo” d’amore che Gesù ci invita a portare con Lui e in Lui per portarci al Padre, unica vera, definitiva e assoluta pace del cuore dell’uomo, “Mare pacifico” come amava chiamarLo s. Caterina da Siena:

«Subito passando (annegata nel Sangue) per la porta stretta del Verbo, giunge in Me, Mare pacifico, che siamo insieme uniti, il Mare e la Porta: perché Io e la mia Verità, unigenito mio Figliuolo, siamo una medesima cosa» – S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 131.

Sì, il nostro ristoro è lì nascosto in quella croce che il buon Gesù mi chiede di portare insieme a Lui per la salvezza mia e dell’umanità: giogo pesante il cui peso è schiacciante quando lo si porta per forza, giogo soave e leggero quando la si abbraccia per amore e con amore. Il giogo poi – cosa mirabile! – è sempre doppio, sono due i buoi che vengono sottoposti al giogo per tirare l’aratro. Questo particolare era certamente presente al Cuore divino-umano di Gesù quando ci proponeva di portare il suo giogo: Gesù non ci lascia soli a portarlo, ma lo porta Lui con noi, per questo noi siamo ristorati!

La Vergine Santa, nostra Madre e Mastra, ci insegni e ci aiuti ad ascoltare l’invito di Gesù di andare a Lui e portare con Lui il suo giogo soave e leggero della croce e trovare così finalmente ristoro e pace per le nostre anime inquiete.                                            Amen.           j.m.j.

 

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Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”               Omelia

 

“Ecco, il seminatore uscì a seminare…”

Carissimi fratelli e sorelle,

abbiamo iniziato oggi la lettura del Discorso parabolico del Vangelo di Matteo, questo Vangelo è organizzato attorno a cinque grandi discorsi di Gesù: il Discorso della Montagna (le Beatitudini), il Discorso Apostolico (rivolto ai 12), quello odierno, il Discorso ecclesiastico (sulla vita della comunità ecclesiale), il Discorso sulle realtà ultime (la fine del mondo, il giudizio di Dio).

Il discorso odierno parabolico occupa tutto il capitolo 13° di Matteo e riporta sette parabole chiamate Parabole del Regno, in quanto in esse il Signore Gesù presenta “situazioni o fatti che diventano, nella luce di Cristo, simboli/ immagini semplici mediante le quali siamo introdotti nella comprensione di ciò che Dio sta compiendo in mezzo a noi, del suo Regno cioè” (Mons. Carlo Caffarra).

Il contesto in cui Matteo inquadra il Discorso parabolico è molto bello:

“Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose in parabole” – Mt 13,1-3.

È una scena che si addice molto ad essere gustata in una orazione contemplativa: Gesù seduto sulla spiaggia che guarda il mare… Ma la sua serena contemplazione non può durare molto in quanto, appena si accorgono che Lui è sulla  spiaggia, tutti accorrono perché desiderano ascoltarLo.

Che bella questa scena! Fermiamoci qualche istante a gustarla nello spirito… La gente che accorre da Gesù, che fa ressa attorno a Gesù per ascoltarLo… Quanto bisogno ha questa nostra povera umanità di ascoltare Gesù!… E quanta gioia nel cuore di Gesù nel vedere quelle persone desiderose di ascoltare la sua parola di verità… La gente è talmente tanta che Lui deve salire su una barchetta e parlare da lì… Dall’evangelista Luca sappiamo che quella barchetta da cui parlava Gesù era quella di Simon Pietro (cf Lc 5,3)… Ancora oggi Gesù continua a parlare dalla stessa barca… ma ci sono altri che attirano di più, da altre barche apparentemente più belle e comode, ma da quelle barche non parla Gesù, non parla la Parola, parlano i parolai di questo mondo che attraggono le masse attirandole con il luccichio effimero di una felicità proposta a poco prezzo che inevitabilmente lascerà il cuore vuoto e deluso.

Vedendo quella gente, Gesù cominciò a dire: “Ecco il seminatore uscì a seminare…”. Gesù sta parlando di Se stesso: è Lui il Divino Seminatore della Parola, Lui è la Parola di Dio che si è fatta carne perché noi potessimo ascoltarla! 

Risalta subito nella parabola il contrasto con quanto fa un buon contadino quando semina: cerca di non sciupare il prezioso seme! Invece questo Seminatore della parabola è proprio uno sprecone: getta il seme dappertutto, anche dove si suppone che non potrà crescere!… Dio dà a tutti una possibilità di salvezza, non esiste una situazione dove la sua Parola di luce non possa essere accolta e portare frutto di vita nuova.

Il seme della Parola che viene seminato è un seme potente! Esso ha in sé una potenza divina, per questo non può tornare indietro senza frutto. Isaia ce lo ha ricordato nella prima lettura:

“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo  e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,  senza averla fecondata e fatta germogliare,  perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare,  così sarà della parola uscita dalla mia bocca:  non ritornerà a me senza effetto,  senza aver operato ciò che desidero  e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” Is 55,10-11.

Ma se è potente, divinamente potente, il seme della Parola, perché esso non porta sempre frutto? Cosa è così forte e potente da impedirgli di fruttificare? 

Quando il buon Dio rivolge la sua Parola al creato esso risponde alla Parola ubbidendo pienamente: Egli disse e tutto fu fatto (Sal 148,5) e tutte le cose gli ubbidiscono (Sir 42,23), solo all’uomo è dato, nella sua libertà, il potere di rispondere o meno alla Parola, il potere cioè di accogliere la Parola di Dio come Parola di Dio e non semplicemente come comune parola di uomini, quando la Parola di Dio viene accolta come tale, Essa opera nel cuore di chi l’accoglie come ben ricorda Paolo ai Tessolonicesi: 

“Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio che opera in voi che credete”- 1Tess 2,13.

È l’adesione di fede alla Parola che la rende operante nel cuore dell’uomo. Nella seconda parte della parabola vengono mostrate da Gesù quattro possibili modalità di accoglienza della Parola di cui solo una, la quarta, è veramente fruttifera, le altre tre sono apparenti accoglienze che non portano frutto.

«"Voi dunque intendete la parabola del seminatore: …". Inizia così il secondo fondamentale insegnamento datoci dalla parabola: quello riguardante la risposta dell’uomo. La proposta divina non si impone: si propone alla nostra libertà. Ed il Signore prefigura le quattro possibili risposte, perché ciascuno di noi si confronti con questa parola e si specchi in essa. Quando uno ascolta la proposta cristiana, ma non si sforza neppure di capire di che cosa si tratta e di come la sua persona ne sia interpellata, il maligno ha buon gioco: è semente seminata sulla strada. Quando uno appare pieno di buona volontà, ma non consente alla proposta cristiana di scendere nel profondo del suo essere, allora, quando arriva il momento serio della vita, quello in cui "giunge una tribolazione o persecuzione", pensa e dice che aveva sì dato il proprio assenso alla fede, ma non pensava che le cose fossero così serie: e se ne va. Quando la proposta cristiana scende sì nel profondo, ma il profondo è già occupato da altri interessi o legami – Gesù significativamente parla di "preoccupazione del mondo e inganno delle ricchezze" – il Vangelo viene soffocato e vanificato anche in chi aveva ben cominciato. Alla fine, sta il discepolo vero. Egli è caratterizzato, come avete sentito, da tre fatti: "è colui che ascolta la parola, la comprende e porta frutto". La parola annunciata diventa la sorgente che determina le sue scelte» – Mons. Carlo Caffarra.

Di fronte all’incomprensione della parabola da parti dei tanti che l’avevano ascoltata, Gesù disse ai suoi Apostoli che loro erano beati perché potevano ascoltare quelle cose e capirle! Quale grande grazia è quella di conoscere e capire il Vangelo!

Sì, non basta conoscere il Vangelo, bisogna anche capirlo, capirlo in profondità, entrare nella sua intima logica, possederne la chiave di lettura, questa chiave è Gesù stesso, è Lui la “porta” (Gv 10,7) d’accesso alla comprensione del Vangelo, non possiamo staccare il Vangelo dalla persona di Gesù e, in definitiva, il Vangelo che annunzia la Chiesa è lo stesso Gesù (cf Mc 1,1).

Quindi, è solo una vicinanza intima con Gesù, realizzata nel silenzio della preghiera, nel fervore dell’adorazione e nella meditazione della sua Parola, che ci permetterà di comprendere la logica del Vangelo. Il Vangelo non è qualcosa che si possa apprendere a tavolino, ma è il frutto di un incontro prolungato con la Parola di Dio che si è fatta carne in Gesù. Sarà Lui, Gesù, che – come ha fatto con i suoi Apostoli – ci spiegherà i segreti  del suo Vangelo, quei segreti che Lui non può rivelare ai sapienti e ai dotti di questo mondo, ma solo ai “piccoli” (Mt 11,25).

È nell’incontro prolungato con Gesù che viene aperta la nostra mente e resa capace di accogliere la “verità”, viene toccato il nostro cuore e mosso all’“amore” e diventiamo così anche capaci di riconoscere il gemito nascosto che sale al Padre dall’intimità del nostro essere che anela a Dio da sempre (seconda lettura).  Gemito che prima non sapevamo riconoscere perché soffocato dalla confusione delle nostre emozioni e dei nostri desideri. E così diventiamo anche capaci di distinguere nell’apparente caos di voci che salgono da questo povero mondo gaudente e rabbioso, il suo gemito nascosto che grida a Dio il suo dolore, la sua profonda solitudine e la sua sete di pace e d’amore che solo l’incontro con Gesù potrà spegnere.

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, che seppe accolse nel suo immacolato seno la Parola del Padre che in Lei si fece carne, ci aiuti ad accogliere nel nostro cuore la stessa Parola che la Chiesa ogni domenica ci porge perché porti frutti di amore generoso, puro e santo nella nostra vita di ogni giorno.   

Amen.

j.m.j.

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Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                Omelia

 

 

Due sguardi diversi

 

Carissimi fratelli e sorelle,

il Signore Gesù continua a parlare anche in questa domenica dalla barchetta di Pietro e la folla fa ressa lungo la spiaggia per ascoltarLo.

Ha iniziato il suo discorso parlando di un seminatore strano che gettava il suo buon seme dappertutto, anche dove c’era poco da sperare che crescesse e oggi continua il suo discorso parlando di un altro seminatore che ha seminato per bene il suo campo con buon seme, ma che vede crescere insieme al buon grano l’erba cattiva, la zizzania. Poi racconta anche due altre brevi parabole, una su un piccolo seme che diventa con il tempo un arbusto grande grande, e un’altra, che opera uno stacco dalle altre perché non parla più di campi seminati, ma di una donna che impasta una massa di farina con del lievito.

Con la prima parabola del buon seminatore, Gesù tratta della necessità di accogliere la sua Parola nel cuore perché Essa possa produrre frutto, con le altre tre parabole tratta di come si sviluppa e matura questo frutto nel mondo.

Con la parabola della zizzania, più elaborata, Gesù ci mostra come della buona terra possa produrre anche dell’erba cattiva che non viene da sé, ma da qualcuno cattivo che ha piacere che non produca buon grano perché odia il suo padrone. È una metafora per indicare una grande verità: la presenza nel mondo di un qualcuno che semina cattiveria e malizia per gelosia di non essere quel Dio che vorrebbe essere e invece è un povero maledetto diavolo. 

Il tentatore semina la sua zizzania dappertutto. La tentazione è una realtà presente nella vita di tutti, certamente non tutte le tentazioni vengono direttamente dal maligno, molte vengono dal mondo che – non dobbiamo dimenticare – “giace tutto sotto il potere del maligno” (1Gv 5,19; cf Mt 4,9), e diverse vengono da noi stessi, dalle insenature della nostra malizia e superbia che sono ben conosciute dal tentatore che sa bene come stimolarle.

E così quella buona terra del nostro cuore viene ad ospitare sia il seme buono di Dio con le sue buone ispirazioni al bene, che quello cattivo del nemico che cerca, ingannandoci, di indirizzare la nostra esistenza verso ciò che non ha valore, non dura per sempre e che inevitabilmente ci lascerà delusi e vuoti.

Ora la parabola di Gesù è rivelatrice di qualcosa di assolutamente nuovo, non conosciuto, non immaginabile, perché si tratta di qualcosa proprio di Dio: il suo sguardo positivo e buono! Nella parabola, infatti, si contrappongono due sguardi: quello dei servi che vedono la zizzania e vorrebbero strapparla subito, agendo quindi con giustizia e quello di Dio che, invece, vede il buon grano e fissa il suo sguardo d’amore su di esso non considerando la zizzania che vi cresce insieme.

Il brano della Sapienza che abbiamo ascoltato come prima lettura ci ha parlato proprio di questo sguardo positivo, ricco di personale affetto di Dio verso le sue creature, brano che continua con questa significativa frase: “Tu hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento” (Sap 11,23).

È proprio così il buon papà di quel figlio balordo, quando l’abbracciò piangendo, non vedeva in lui un figlio scapestrato, ma quel figlio buono che sarebbe diventato dopo la sua conversione (cf Lc 15,20). Il tempo che viviamo è l’espressione tangibile di quest’amore paziente di Dio che sa attendere i tempi della nostra conversione a Lui, sa attendere che la cattiva zizzania si trasformi in buon grano! Cosa impossibile nel mondo naturale che diventa storia di tanti nel mondo spirituale! Sì, è così, nel mondo dello spirito la zizzania può diventare non solo buon grano, ma anche eccellente grano. Pensiamo, ad esempio, ad un gaudente e spensierato Agostino che diventerà un gran santo, addirittura un Padre della Chiesa! E quell’orgoglioso e vanitoso Ignazio che sognava imprese eclatanti per conquistare una donna di corte, che diventerà pellegrino mendicante per amore di Gesù povero! E quanti altri e altre che hanno cambiato vita e da peccatori sono divenuti persone esemplari per virtù e santità?

Di fronte al malvagio che attua il male, chi poteva immaginare un Dio che non lo fulmini, ma che aspetta paziente che rientri in se stesso” (Lc 15,17) per poterlo perdonare? La pazienza di Dio! 

E allora ecco il tempo che scorre con i suoi imprevisti…, i disastri economici…, le sciagure…, le malattie…, la vecchiaia che si affaccia con i suoi acciacchi…, nostra sorella morte che s’avvicina e porta un po’ di senno agli insensati: tutto serve al buon Dio per far rientrare in se stessi questi poveri uomini spensierati che camminano verso la propria dannazione eterna.

Dobbiamo imparare a far nostro questo sguardo positivo e ricco di affetto di Dio, non solo per guardare il mondo con occhi più benevoli, sapendovi scorgere i germi di bontà che in esso crescono insieme alla zizzania, ma anche per saper guardare noi stessi con quella stessa benevolenza paterna con cui il buon Dio ci guarda incoraggiandoci in ogni nostra difficoltà, debolezza, miseria e saper così sperare in una reale possibilità di cambiamento interiore che possiamo raggiungere con il suo aiuto, qualunque sia la situazione esistenziale che viviamo.

Ma, attenti, però a non banalizzare la pazienza e la misericordia di Dio, essa ha un tempo ben preciso: è l’oggi che viviamo, è questo “oggi” il tempo della misericordia, “per questo, come dice lo Spirito Santo: oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori… ma esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura quest'oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato” (Eb 3,7.13). 

Anche l’albero, di quell’altra parabola del buon contadino che chiese al padrone di non tagliarlo, ebbe un tempo, un anno di grazia: “Lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai” (Lc 13,9). È proprio quest’“anno di grazia” (Lc 4,19; Is 61,2) che Gesù è venuto ad annunziare (cf Lc 4,21).

Le altre due parabole che seguono quella della zizzania, mostrano altri due elementi che riguardano lo sviluppo dell’accoglienza della Parola nel mondo e quindi la crescita in esso del regno di Dio.

Anch’essi sono elementi positivi che hanno bisogno di una buona dose di fede per essere accolti.

Infatti, il primo, di fronte al dilagare dell’iniquità, della malizia, dell’insensatezza nel mondo, ebbene di fronte a questo mondo di tenebre che sembra vincere, dilagare e inquinare tutto, Gesù afferma che c’è anche una presenza di un altro regno, quello della bontà, della verità, della purezza, della santità  che non fa chiasso, ma che costruisce amore silenzioso che Dio vede e benedice. È questo il messaggio della parabola del piccolo seme di senapa che diventa un grande albero.

E l’altro messaggio, anch’esso positivo di speranza: una donna impasta la farina con il lievito. Il lievito del Vangelo è stato inserito nella massa del mondo, agisce nascostamente, ma lo lievita. Infatti in mezzo a tante contraddizioni il Signore porta avanti la storia del mondo e la conduce a salvezza. E tanti valori positivi che fanno parte ormai del bagaglio culturale di una buona parte di umanità anche non credente, trovano proprio nel Vangelo di Gesù la loro radice nascosta e quel lievito che li ha fatti maturare nel tempo.

Non ci resta che chiedere allo Spirito di Gesù che venga incontro alla nostra debolezza (seconda lettura), debolezza soprattutto di fede, di fiducia nella potenza divina di quel seme che è stato seminato in noi e che vuole portare frutti di amore nel mondo.

La Vergine Maria, Vergine dell’ascolto da cui nacque il fiore più bello dell’umanità (cf Sal 45,3) ci aiuti a scoprire tutta quella ricchezza di talenti e di grazia che il buon Dio ha seminato in noi e nel mondo, perché fissando il nostro sguardo su questa bellezza, sappiamo eliminare da noi stessi ogni zizzania e ogni tenebra per risplendere sempre più nel mondo come veri e gioiosi figli di Dio.

Amen.

j.m.j.

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Diciasettesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                Omelia

 

 

Il Regno: un tesoro e una perla!

 

Carissimi fratelli e sorelle,

si conclude oggi il Discorso parabolico di Gesù fatto nello stupendo scenario del Mare di Galilea sulla spiaggia del paese di Pietro, Cafarnao, che aveva preso come sua base apostolica. A causa della folla era dovuto salire sulla barchetta di Pietro e dà lì parlava del Regno del Padre suo in parabole. Iniziò con quella del seminatore, proseguendo con quella della zizzania, del grano di senapa e della donna che impasta la farina con del lievito, che abbiamo ascoltato nelle due passate domeniche, e oggi viene chiuso il discorso con le ultime due: quella del tesoro nascosto e della perla preziosa.

In esse Gesù annuncia come inaugurato, in atto, il Regno del Padre suo, quel Regno a lungo atteso dal popolo di Dio e ampiamente preannunziato dai profeti e, nello stesso tempo, intende correggere quell’idea sbagliata che il popolo si era fatta, di un regno prevalentemente politico-sociale che coincideva con il trionfo dello stato d’Israele su tutte le altre nazioni.

Il Regno di Dio è uno dei concetti chiave della Bibbia e della stessa predicazione di Gesù che, come quella del suo Precursore, inizia con queste parole: “Convertitevi perché il regno di Dio è vicino!” (Mt 3,2; 4,17). Ma questa parola cosa dice più al cristiano moderno? Quali risonanze provoca nel suo cuore l’udirla? Quali sentimenti si accendono in esso sentendo parlare del “Regno di Dio”?

Nell’insegnamento di Gesù, questo Regno si presenta anzitutto come un intervento di Dio nel corso della storia. Questo è vero anche dell’Antico Testamento; ma nel Nuovo Testamento l’intervento si manifesta nella venuta del Figlio di Dio.

Nella Storia della Salvezza vediamo come Dio voglia stabilire il suo Regno in mezzo agli uomini. Nel susseguirsi dei tempi, il popolo di Dio aveva maturato diverse comprensioni del Regno di Dio che trovano tutte compimento nella persona di Gesù Cristo, è Gesù infatti la piena, definitiva e assoluta manifestazione del Regno di Dio.

“Regno” richiama “autorità” – “potere” – “dominio”, ora questo regno di Dio non è però un regno alla maniera umana, ma tutta sua: è “autorità” che non opprime ma che illumina, è “ potere” che non schiavizza, ma libera; è un “dominio” che non schiaccia, ma innalza.

I PROFETI più antichi avevano visto questo Regno come il giudizio di Dio su Israele e i peccatori, i PROFETI più recenti vedevano questo Regno in un mondo ricreato che vive all’ombra della presenza di Dio. Gli autori APOCALITTICI descrivono lo stabilirsi del Regno secondo lo scenario di una catastrofe cosmica. Nei libri SAPIENZIALI il Regno di Dio è presentato come frutto dell’osservanza della Legge di Dio. Questa osservanza è propriamente la Sapienza che si attenda in mezzo al popolo di Dio (cf Sir 24,8) e Salomone, con la sua ricerca spassionata di essa, preferendola alla ricchezza e a ogni altro bene (prima lettura) diventa modello dei membri di questo Regno dei timorati del Signore.

Il NT, infine, annuncia il Regno come imminente in forza della morte e risurrezione di Gesù, o come già avvenuto nella sua Persona, e pone l’accento sul suo carattere essenzialmente interiore, fondato sulla carità. Il nostro mondo cristiano vive nell’attesa della manifestazione piena di questo Regno alla fine dei tempi.

Con le sue parabole del Regno di Dio, Gesù afferma che il Padre suo regna nei cuori dove attecchisce la Parola che come seme è stata seminata in loro; che questa Parola si sviluppa nella dinamica della lotta, del contrasto con quella gramigna che vorrebbe soffocarla; che bisogna avere fiducia nella potenza divina di questa Parola che ha in sé la forza di svilupparsi e di produrre frutto. 

Oggi, nelle due parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa, Gesù mette in risalto un altro aspetto del Regno del Padre, e cioè che esso è un Regno di amore. Sì, un Regno di amore! Cosa, infatti, può spingere un tale a vendere tutto per comprare quel campo dove ha scoperto un tesoro, se non l’amore per quel tesoro, il desiderio di far proprio quel tesoro, di possederlo, perché lo stima, lo apprezza, lo considera di valore unico, superiore, e quindi lo ama talmente tanto da vendere ogni altra cosa per impossessarsene? E così, parimenti, il mercante di perle preziose, per l’amore a quell’unica perla, vende tutto per averla.

È l’amore la molla del Regno di Dio! Dire che esso è un Regno d’amore significa innanzi tutto dire che è un Regno di innamorati, cioè di persone conquistate da un Qualcosa o meglio da un Qualcuno che ha sedotto loro il cuore, ha soggiogato il loro cuore talmente tanto che non pensa ad altro, non vuole altro, non desidera altro che possedere il Desiderato.

Quando un uomo si innamora di una donna o una donna di un uomo, scattano nei loro cuori delle molle nascoste che sconvolgono completamente le loro vite proiettandole l’una nell’altra e tutto diventa più bello, più facile, più tutto. Ora tutto questo non è che un piccolo e lontano segno di quell’amore più profondo, più forte, più grande che ogni persona è chiamata a realizzare in Dio suo Creatore, suo Padre, Sposo e Amico fedele.

Il Regno di Dio è dunque il Regno di coloro che amano Dio da Dio, riconoscendoLo come il proprio Dio e Signore e Padre. Già il VT aveva l’indicazione di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) e trovava nell’amore verso Dio la motivazione dell’osservanza della Legge, come diceva bene il Salmista: “Corro, Signore, per la via dei tuoi comandamenti perché Tu hai dilatato il mio cuore” (Sal 119,32). 

Ora, nel NT, il nuovo comandamento è quello di amare come Gesù (cf Gv 13,34), ma come riuscire ad amare come Gesù, cioè a far propri tutti i suoi sentimenti (cf Fil 2,5) se prima non si è attratti, conquistati, sedotti dalla sua Persona (cf Fil 3,7-8.12)? 

Tutta l’opera del Padre nei nostri confronti è quella di attirarci al Figlio (cf Gv 6,44; Mt 17,5 e paral.) il quale ci attira con la sua bellezza (cf Sal 45,3), bellezza che rifulge in tutta la sua Persona, in ogni suo gesto o parola. Gesù ci attira fortemente e se non ci attira è solo perché non perdiamo tempo a guardarLo!

Ma perché Gesù ci attira? E se ancora non ci ha attirato significa che non siamo ancora suoi, ma di altri… sono altri che posseggono il nostro cuore, non Lui, perché se amiamo qualcuno o qualcosa più di Lui non siamo proprio degni di Lui (cf Mt 10,37) e siamo schiavi di chi ha conquistato il nostro cuore “perché ognuno è schiavo di ciò che l'ha vinto”(2Pt 2,19), se invece ci lasciamo vincere da Lui, non siamo più schiavi, ma liberi. Perché questo? Perché il nostro cuore se si lascia sedurre da Gesù diventa un cuore libero, un cuore nuovo, un cuore più bello?

La risposta ce l’ha data Paolo oggi nella seconda lettura dove ci dice che siamo chiamati dal Padre ad essere “conformi” al Figlio. Quando il Padre ci ha pensati e inventati nella sua fantasia divina, ci ha pensati nel Figlio: è in Gesù quindi la nostra più intima verità (cf Gv 14,6), “è in Gesù che ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore predestinandoci ad essere suoi figli adottivi(Ef  1,3-5).

Per questo Gesù ci attira, non può non attirarci perché ogni fibra del nostro essere geme (cf Rm 8,23) anela intimamente a diventare “Lui”, a essere “Lui”, cioè a ritrovarsi nell’abbraccio del Padre. Siamo stati creati per questo e ogni nostra insoddisfazione e delusione trova la sua radice nascosta nella frustrazione di non corrispondere pienamente all’immagine del Figlio, cioè a non essere diventati ancora “Gesù”. Questa è la nostra vocazione: diventare Gesù, per realizzarla bisogna diminuire noi per far crescere Lui (cf Gv 3,30) fino al punto di non vivere più noi, ma solo Lui in noi (cf Gal 2,20).

Questo è il nostro “tesoro nascosto”, questa è la nostra “perla preziosa”: diventare Gesù, essere Gesù, trasformarsi in Gesù e quindi amare come Gesù. Questo è il Regno di Dio quaggiù e lassù: Gesù Cristo. Appartenere a Lui (cf Gal 3,29), essere Lui (cf Gal 3,28), vivere di Lui nell’unione di grazia che a Lui ci unisce (Rm 12,4-5) e in Lui ci trasforma (cf 2Cor 3,18).

Gesù pone poi come sua ultima parabola del Regno quella della rete piena di pesci buoni e cattivi, non per spaventarci, ma per metterci di fronte alla nostra responsabilità di darci da fare per realizzare la nostra vocazione a figli nel Figlio: abbiamo solo una vita per realizzarla e dobbiamo stare bene attenti a non sbagliare tutto lasciandoci attrarre da altri modelli e vie che non ci conducono certamente alla realizzazione piena e gioiosa di noi stessi, ma alla morte eterna.

La Vergine Maria, ci aiuti a liberarci di tutto ciò che impedisce al suo Figlio di manifestarsi pienamente in ciascuno di noi, per la gioia del Padre e nostra. 

Amen. 

j.m.j.

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Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                           Omelia

 

“Date loro voi stessi da mangiare!”

 

Carissimi fratelli e sorelle,

«Il brano evangelico di questa domenica fa parte di un complesso che gli esegeti designano convenzionalmente con il nome di «sezione dei pani», perché gravita attorno al racconto delle due moltiplicazioni dei pani. Tutta la sezione è concepita in modo che Gesù appaia come il nuovo Mosè, che offre una manna assai superiore a quella antica (Mt 14,13-21: domenica odierna), trionfa sulle acque del mare come Mosè (Mt 14,22-33: domenica XIX), libera il popolo dal legalismo in cui la legge di Mosè era caduta (Mt 15,1-9) e apre l’accesso alla terra promessa non solo ai membri del popolo eletto, ma anche ai pagani (Mt 15,21-28: domenica XX)».

Commento del Centro Catechistico Salesiano.

Saputo dell’uccisione di suo cugino e precursore Giovanni da parte di Erode, Gesù si ritira nel deserto con i suoi. Anche in quest’occasione risplende a noi per la sua umanità: come ogni altro uomo colpito negli affetti più profondi, sente il bisogno della solitudine, della preghiera profonda e intima con il Padre suo in cui getta (cf 1Pt 5,7) il suo dolore per la scomparsa dell’amico (cf Gv 3,29). Dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù si ritirerà ancora in solitudine, questa volta però tutto solo su un monte, senza neanche gli apostoli (cf Mc 14,22-23). Il miracolo della compassione di Gesù viene quindi incorniciato dalla sua preghiera solitaria con il Padre.

Dunque, mentre Gesù si trova nel deserto con i suoi, la folla lo raggiunge perché ha capito che Lui si trovava lì. Matteo mette in risalto come, appena Gesù vide quella folla “ne sentì compassione”.

«“Egli … vide una grande folla e sentì compassione e guarì i loro malati”. Carissimi fratelli e sorelle, queste semplici parole descrivono tutto l’avvenimento cristiano: esso è la “compassione di Dio” per l’uomo; è la compassione di Dio che “guarisce le nostre malattie”. Per avere una qualche comprensione di questo avvenimento possiamo aiutarci con l’esperienza della compassione umana. Chi di noi non ha sentito compassione per qualcuno, almeno una volta nella propria vita? E’ la condivisione, la compartecipazione affettiva della sofferenza altrui: è un immedesimarsi, in un qualche modo e per qualche istante con la condizione dell’altro. “Sentì compassione”, dice l’Evangelo. Ascoltate che cosa dice la lettera agli Ebrei: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe” [2,14a]. La compassione che Dio ha provato per la nostra condizione umana lo ha spinto a divenire Egli stesso partecipe della nostra condizione umana e della nostra natura. La compassione di Dio per l’uomo è nel fatto che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” [Gv 1,14a]. La compassione di Dio per l’uomo è Gesù Cristo. Ma proseguiamo sempre aiutandoci coll’esperienza della nostra compassione umana. Questa anche se completamente sincera, è impotente: essa è incapace di mutare la condizione di sofferenza della persona di cui sentiamo compassione. Al massimo può procurarle un po’ di sollievo psicologico. “E guarì i loro malati”: la compassione di Dio è efficace. Divenendo Egli partecipe della nostra natura e condizione umana, la muta intimamente. Vieni dunque a Gesù il medico divino, entra nello spazio della compassione di Dio per l’uomo, la Chiesa, e vedi che in essa tu puoi essere sanato, poiché “uno solo è il medico, carnale e spirituale, generato e ingenerato, Dio venuto nella carne, nella morte vita vera… Gesù Cristo” [S. Ignazio d’A, Lettera agli Efesini VII,2]. Sanato dall’avarizia, dalla sregolatezza morale, dall’ingiustizia, dall’ambizione» – Mons. Carlo Caffarra.

Ma, veniamo al come Gesù viene incontro a quella folla di cui sentì compassione. Le venne incontro dapprima guarendo “i loro malati”, questo sarebbe bastato alla folla, sarebbe rimasta contenta anche se Lui si fosse limitato a questo. Ma può Gesù limitarsi nel suo amore per noi? Ciò che è proprio dell’amore di Gesù è, che essendo pienamente divino, è eccessivo, sovrabbondante, al di là di ogni umana misura.

Aveva già fatto tanto per loro, poteva benissimo mandarli a casa o nei villaggi vicini a ristorarsi, e invece no, vuole far loro ancora qualche regalo, ma vuole farlo prima di tutto ai suoi Apostoli insegnando loro una logica sconosciuta, una nuova mentalità che ribalta completamente i nostri poveri e ristretti ragionamenti umani. 

«Una sera, in riva al lago, cinquemila uomini con donne e bambini: un amore li ha condotti nel deserto, al limite della notte: Gesù. I discepoli, uomini pratici, dicono: congedali perché vadano a comprarsi da mangiare. Il maestro ribatte: date loro voi stessi da mangiare. Due atteggiamenti opposti, riassunti da due verbi: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Ed è la nostra mentalità: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. Non c'è nulla di scandaloso, ma neppure nulla di grande in questa nostra logica dove trionfa l'eterna illusione dell'equilibrio del dare e dell'avere. In questo sistema chiuso, prigioniero della necessità, Gesù introduce il suo verbo: date voi stessi da mangiare. Non già: vendete, scambiate, prestate; ma semplicemente, radicalmente: date. E sul principio della necessità comincia a spuntare, a sovrapporsi un altro principio: la gratuità, l'amore senza calcoli, il disequilibrio, dare senza aspettarsi niente. Solo la gioia, forse. 

Ci sono molti miracoli in questo racconto, e il primo è che nulla, neppure la fame, il deserto o la notte, separa quei cinquemila dal fascino di Gesù; poi viene quello dei cinque pani che passano dalle mani di uno alle mani di tutti. Il miracolo della moltiplicazione comincia quando il pane da mio diventa nostro, nostro pane quotidiano. Il pane per me stesso è una questione materiale, il pane per il mio vicino è una questione spirituale

Dacci il nostro pane, diciamo. Ma quella domanda rimbalza da Dio fino a noi: date loro voi stessi da mangiare; date e vi sarà dato, una misura piena, abbondante (Lc 6,38). Misteriosa regola del Regno: poco pane, condiviso tra tutti, è sufficiente, diventa il pane di Dio. La fame comincia quando io tengo il mio pane per me, quando l'Occidente tiene il suo pane per sé.

In questo nostro mondo il primo miracolo, impossibile e pure necessario, è la condivisione. Sfamare la terra è un miracolo possibile se la condivisione si fa possibile. La moltiplicazione verrà, perché chi condivide convoca Dio, lo provoca, mette il pane nelle sue mani, diventa dipendente dal cielo, e Dio non abbandona, e cinque pani basteranno per una folla, e i pezzi avanzati riempiranno dodici ceste. Nulla andrà perduto, nulla è troppo piccolo per non servire alla comunione. Il profeta ripete: chi ha fame, venga e mangi, senza denaro e senza spesa (prima lettura). Ma quale fame morde dentro di noi? Fame solo di pane? Oppure fame di Dio per noi e per gli altri? Fame di giustizia, di felicità per noi e per gli altri? Fame solo di comperare o anche fame di dare? Il Signore sia il nostro vero affamatore, e sapremo dare pane a chi ha fame, e accendere fame di cose grandi in chi è sazio di solo pane». – P. Ermes Ronchi.

Non possiamo poi omettere come questo miracolo della compassione di Gesù prefigura e anticipa il banchetto eucaristico in cui si realizza la più grande manifestazione della sua compassione per l’umanità per la quale si fa “Pane di vita” (Gv 6,48) che “nutre d’amore questa smarrita terra che muore” (Madre Maria Oliva Bonaldo).

«La moltiplicazione dei pani non è che il segno di un pane di vita che sazia per l’eternità. Ma il pane divino che sazia l’uomo lo rende capace di amare di più i suoi fratelli; suscita in lui un dinamismo umano che lo induce a procurare il pane a coloro che ne sono privi. Il miracolo della moltiplicazione dei pani è per il cristiano un segno e un appello. La partecipazione al pane di vita si manifesta traducendosi necessariamente nella decisa volontà di tentare tutto affinché gli affamati siano saziati, coloro che hanno sete possano bere, coloro che sono nudi possano ricoprirsi, ecc. (Mt 25). La partecipazione al banchetto eucaristico diventa per il cristiano la sorgente di uno sforzo di promozione umana nel quale tutti e ciascuno siano riconosciuti nella loro fondamentale dignità personale nel seno di una sola grande famiglia. La celebrazione eucaristica introduce sempre più profondamente i cristiani nella comunità ecclesiale, che è comunità di fratelli e di poveri» – Commento del Centro Catechistico Salesiano.

Carissimi fratelli e sorelle, tutto questo ci aiuti a radicarci sempre più nell’amore di Gesù, nella confidenza nella sua compassione per noi e nella certezza che niente e nessuno potrà mai separarci da questo amore (IIa lettura).

La Vergine Santa ci ottenga di crescere in questi atteggiamenti e di rendere grazie con Lei al Padre per tutto l’“Amore” che Egli continua incessantemente a riversare nei nostri cuori nell’unione di grazia con il suo Figlio che trova nell’unione eucaristica la sua massima espressione e l’anticipo di quell’unità definitiva con Lui e con il Padre a cui quest’“Amore” ci prepara e introduce. Amen.

j.m.j.

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Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”               Omelia

 

 

“Signore, salvami!”

Carissimi fratelli e sorelle,

la Parola di Dio odierna ci mostra due modelli di discepolato con cui confrontare la realtà della nostra vita di fede: quello di Elia e quello di Pietro.

Partiamo da quest’ultimo, da Pietro.

«Vangelo di paure, Vangelo di grida: umanissimo Vangelo. Gesù dapprima assente, poi come un fantasma, infine come una mano salda che ti afferra. Un crescendo di fede. Eppure Egli è già qui, da subito, è la sorgente della forza dei rematori, è la tenacia del timoniere, è negli occhi di tutti fissi a oriente: “Vedetta, quanto manca della notte” (Is 21,11)?

E la barca, simbolo della comunità e della vita, intanto avanza non per il morire del vento, ma per il prodigio di rematori che non si arrendono e si sostengono l'un l'altro, primo miracolo. “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”, domanda Pietro. E alla parola del Signore (“Vieni!”) scende nella tempesta senza più riparo. E venne da Gesù. Pietro cammina sulle acque, perché guarda a Lui; poi inizia ad affondare, perché guarda il vento: vedendo il vento ebbe paura. Guarda al Signore e alla sua chiamata, e va; poi guarda alle onde, alle proprie difficoltà, e inizia la discesa nell'angoscia. 

Eterno oscillare tra fede e dubbio. E tra i due, come salvezza, un grido: “Signore salvami!”. Grido di fede, di paura, grido di morente, radice della fede: perché qualsiasi dubbio può essere redento anche da una sola invocazione gridata di notte, nella tempesta, nel vento, sulla croce. Pietro mostra che il miracolo di camminare sul mare non serve a rafforzare la fede: cammina e già dubita. Un giorno seguirà il Signore, ma non più attratto dal suo camminare sulle acque, bensì dal suo camminare verso il calvario; andrà dietro a Colui che sa far tacere non tanto il vento e il mare, ma tutto ciò che non sia amore; dietro a Colui che sa farsi prossimo sulla polvere di ogni strada e non sul luccichio di acque miracolose. Pietro è uomo di poca fede non perché dubita del potere di Gesù, ma proprio perché chiede miracoli, perché cerca l'onnipotenza di Dio più che il calore semplice della sua mano. Gesù invece abbraccia la debolezza della croce, anzi la forza immensa della croce e per questo verrà in aiuto a chiunque è sorpreso al largo, è catturato dalla tempesta, sta affondando. “Signore, salvami!” È là che Gesù ci raggiunge. Ci raggiunge e non punta il dito contro i nostri dubbi, ma stende la mano per afferrarci

Il grido di Pietro ci insegna a non temere la nostra piccola fede. Forse occorreva questo principio d'affondamento nelle acque della disperazione per trovare il coraggio di affidarci a Gesù, di gridare a Lui. Allora verrà. Ma verso la fine della notte. Verrà, ma dopo la lunga lotta, lui sì camminando sul mare, verrà, dentro la nostra poca fede, camminando sulla morte, a salvarci da tutti i naufragi. E il grido diverrà abbraccio, tra l'uomo e il suo Dio». P. Ermes Ronchi.

 

Un altro esempio di discepolato è quello di Elia. Questo profeta era scoraggiato, avvilito, deluso: aveva combattuto per il suo Dio e ora volevano ucciderlo, non è la paura della morte che lo abbatte, ma la delusione. Elia è profondamente deluso da Dio che non si era comportato come lui pensava. Infatti dopo aver affrontato 850 falsi profeti (cf 1Re 18,19ss) e averli vinti e uccisi, pensava ormai che tutto fosse fatto, che tutti avrebbero adorato il vero Dio e che lui sarebbe stato finalmente riconosciuto come profeta anche dal re e dalla regina, ma non fu così.  A questo punto Elia crolla e fugge incontro alla morte nel deserto, disperato vuole morire, è stufo di questo Dio che non capisce più, ma Dio gli viene incontro nel suo abbattimento e gli procura del cibo miracoloso che gli darà la forza di giungere al monte Oreb dove gli parlerà nel silenzio di una brezza leggera ordinandogli, di tornare indietro e affrontare il mondo.

«Davanti ai dubbi di fede, davanti alle tempeste della vita, il discepolo è chiamato, come Elia, ad ascoltare nel suo cuore il silenzioso mormorio di Dio, recuperando quella dimensione assoluta che è il silenzio, la preghiera, l'ascolto meditato del grande e quieto oceano della presenza di Dio». Don Paolo Curtaz.

Nella seconda lettura, Paolo manifesta il suo dolore per il popolo ebraico, di cui egli stesso è membro, popolo che non accoglie Gesù e dice una frase forte che è bene non passi da noi inosservata in questa domenica: «Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne»

Il dolore di Paolo per i suoi connazionali che non accolsero Gesù, è il dolore della Chiesa per ogni uomo che si chiude al Salvatore del mondo preferendo salvarsi da solo o affidarsi ad altri salvatori che tali, però, in realtà non sono, perché “uno solo è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,5-6).

«Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua…», è il dolore di ogni cristiano per il figlio o la figlia o il genitore o la sorella o il fratello o l’amico o l’amica che non credono più, che hanno smarrito la fede e i suoi valori, nella confusione dei messaggi della Babele di questo mondo e vanno vagabondando lungo la strada del vuoto e delle tenebre, lontano dai sentieri della verità, della luce e della gioia.

Di fronte a questo dolore che ci ferisce il cuore, abbiamo solo una cosa che possiamo e dobbiamo fare: impegnarci maggiormente nella nostra santità personale con una lotta decisa e ferma al peccato mettendoci così sulla porta dell’inferno perché nessuno vi possa entrare (P. Pio Bruno Lanteri) e gridare a Gesù Salvatore per coloro che non Gli gridano più: “Signore, salvali!”.

La Vergine Maria ci aiuti a fare in modo che tanta Parola di Dio che riceviamo ogni domenica porti frutti di vita nuova nella nostra vita di ogni giorno.

Amen.

j.m.j.

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Ventesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                Omelia

 

 

La cananea

 

Carissimi fratelli e sorelle,

l’umanità nell’Antico Testamento si divideva praticamente in due: da una parte il popolo ebraico, popolo eletto che aveva contratto con Dio una stretta alleanza e, dall’altra, tutte le diversi nazioni del mondo, popoli che non conoscevano Dio, i pagani.

«Ma Israele, scelto e separato di mezzo alle nazioni, si inserisce nel progetto universale di Dio che mira a salvare tutta l’umanità.

Tale visione di una salvezza a respiro universale è abbondantemente presente nell’Antico Testamento, specialmente in Isaia. […] La prima lettura allarga queste prospettive, e il tempio, centro e cuore del giudaismo, diventerà «casa di preghiera per tutti i popoli». Dio non riunirà soltanto i dispersi di Israele, ma moltissimi altri uomini con loro.

Gesù inaugura gli ultimi tempi (Mc 1,15). Ci si aspetterebbe che Egli spalancasse subito le porte ad un universalismo senza limiti, ed invece le sue parole e i suoi atteggiamenti sono contrastanti: non esce dai confini della Palestina per predicare e per compiere miracoli: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele»; «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» (Vangelo). Agli apostoli che invia in missione raccomanda: «Non andate fra i pagani» (Mt 10,5).

Accanto a questi atteggiamenti quasi «particolaristici» di Gesù c’è anche tutta un’altra serie di testi che esprimono la sua ammirazione per gli stranieri che credono in lui: il centurione di Cafarnao (Mt 8,10), il lebbroso samaritano (Lc 17) e la Cananea di cui parla il vangelo di oggi; sono come le primizie di una numerosa moltitudine di stranieri dei quali predice l’accesso alla fede e alle promesse, dopo che si sarà scontrato con la incredulità del popolo eletto» – Commento del Centro Catechistico Salesiano.

«Pochi personaggi del Vangelo sono simpatici come questa donna: è una madre, non prega per sé, ha immaginazione, non si arrende ai silenzi o al rifiuto, intuisce sotto il no di Gesù l'impazienza di dire sì» – P. Ermes Ronchi.

La fede di questa povera donna è senza pretese:

«Quel che appare più vistoso, è che la sua è una fede senza pretese. Gesù dice chiaramente di "essere stato inviato solo alle pecore perdute della casa d'Israele"; non per escludere la destinazione della salvezza a tutti gli uomini, ma per sottolineare la gratuità della scelta di Dio e la sua gradualità, prima in Israele e poi per suo tramite tutto il mondo. E la donna riconosce che i primi destinatari sono "i figli", i figli di Jahvè, il popolo eletto; ma nondimeno – aggiunge – "anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni" . 

Quale grande rispetto per le scelte storiche di Dio e i suoi modi di giungere fino a noi! Non abbiamo fissato noi le strade di Dio, e queste comunque passano dai fatti e dalle persone che Dio stesso ha scelto come suoi intermediari. Senza pretese perché si sente "un cagnolino", cioè una pagana (cani erano chiamati i pagani dagli Ebrei). È certamente questo riconoscersi senza meriti davanti a Dio, ciò che ha fatto decidere il gesto di Gesù. Perché proprio questa è la condizione decisiva di fronte alla salvezza. Ricordiamo il quadretto polemico del fariseo e del pubblicano: "Perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,9-14). In questo senso Gesù diceva: "Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà"  (Lc 18,17). La salvezza è assolutamente dono gratuito, nessuno vi deve avanzare pretese; e proprio per questo è offerta a tutti indipendentemente dai meriti. Esige solo di essere accolta, appunto con la semplicità di un bambino che gode tutto nel ricevere un dono. San Paolo oggi, nella seconda lettura, forza fino al paradosso questo pensiero che è il nocciolo di tutto il suo insegnamento: "Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia". Pagani ed ebrei sono peccatori perché abbiano a sentire la salvezza come gratuità e perdono, e non frutto di una loro giustizia. […] 

Ma ha un'altra caratteristica la fede, così come brilla da questa donna: una fede messa alla prova. Tre ostacoli sono posti sulla strada della sua richiesta. Dapprima Gesù "non gli rivolse neppure una parola". Sembra ignorarla. Poi il rifiuto più esplicito: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele". Infine ancora, anche se con un diminutivo affettuoso ma fermo: "Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini". Sono come barriere che però non scoraggiano la donna, ma fanno montare la sua fede come una diga fa crescere la potenza delle sue acque imbrigliate. Ed ecco la donna: "Pietà di me,… Signore" ; poi, crescendo nell'insistenza fino a infastidire i discepoli: "Signore, aiutami!". Infine, con humor intelligente che sa stare al gioco polemico: "Signore, anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni"

Nel Vangelo spesso Gesù parla dell'insistenza nella preghiera – fino a divenire importuni come l'amico che viene di notte a svegliare per avere dei pani, perché "vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza"  (Lc 11,5-8). E più ancora, della perseveranza, come fa quella vedova che va a stancare il giudice perché le faccia giustizia, così da deciderlo a intervenire "perché così almeno non venga più a stancarmi con le sue richieste" (Lc 18,1-8). Alla fine resta valido sempre che "chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto" (Mt 7,8). 

Quante volte anche noi abbiamo fatto l'esperienza amara di non sentirci esauditi da Dio! Dio sembra lontano, tacere…! Ma non sarà, anche per noi, per purificare la nostra fede, per provocare un atto di maggior coraggio, una audacia maggiore, una confidenza più piena e totale nel Dio che alla fine sa Lui meglio di noi quello che ci convenga? Fiducia non soltanto nella sua potenza, capace dell'impossibile; ma soprattutto fiducia nel progetto stesso che ha su di noi. La fede è appunto credere che Dio vede e vuole il mio bene più di quello che io non veda e voglia di me!» Don Romeo Maggiori.

 

La Vergine Maria, ci ottenga la grazia di crescere nella consapevolezza del nostro nulla e nella fiducia illimitata nell’amore del Padre che Gesù suo Figlio ci ha fatto conoscere dando la sua vita per tutti noi.

Amen.

j.m.j.

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Ventunesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                   Omelia

“Chi dice la gente che Io sia?”

Carissimi fratelli e sorelle,

era passato circa poco più di un anno da quando gli Apostoli avevano lasciato tutto per seguire Gesù, conquistati dal fascino della sua Persona. Durante quel tempo avevano potuto ascoltare i suoi insegnamenti pubblici e quelli che faceva loro in privato (cf Mc 4,34), erano stati testimoni di innumerevoli miracoli, avevano visto la liberazione di molti indemoniati e assistito alla conversione a Dio di poveri peccatori e peccatrici che ritornavano ad una vita onesta dopo aver incontrato il loro Maestro. Ebbene, giunti a questo momento, mentre erano in un territorio pagano, a Cesarea di Filippo, Gesù pone ai suoi Apostoli una domanda precisa: “La gente chi dice che Io sia?”. Abbiamo ascoltato le risposte: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”, cioè, in pratica, la gente pensava di Gesù che fosse un profeta simile ai più grandi profeti d’Israele.

Ma perché il Maestro fece fare agli Apostoli questo sondaggio d’opinione su di Lui? Forse per vedere se avesse il consenso dei più? No, non si tratta di un’indagine per verificare se ci fossero i presupposti di un’accettazione della sua Persona da parte della gente, per vedere se fosse il caso o meno di tentare una scalata socio-politica, no. 

La sua fu una domanda provocatrice che aveva lo scopo di suscitare negli Apostoli una presa di coscienza delle motivazioni personali della loro sequela. Quel “Che cercate?” (Gv 1,38a) che Egli disse all’inizio della loro sequela, ora, dopo un cospicuo periodo di tempo in cui hanno potuto non solo vedere dove Egli abitasse (cf Gv 1,38b), ma addirittura stare (cf Mc 3,14) con Lui condividendo la sua vita in tutto, ora si ampia e diventa: “Ma chi sono Io per voi?”.

Nessuno può sottrarsi a questa domanda che rimbalza, attraverso il tempo nell’“oggi” di ciascun uomo e di ciascuna donna che viene al mondo, ma in particolare che risuona nel cuore di ciascun cristiano: “Chi sono Io per  te?”.

In genere, la gente di tutte le epoche ha sempre risposto a questa domanda più o meno come in quella prima inchiesta di Cesarea di Filippo. Infatti, per tutti, anche per coloro che non l’hanno accolto come il Figlio di Dio, Gesù è pur sempre un grande uomo, uno che ha parlato bene, che ha proposto una dottrina molto bella. Ma allora come oggi, a Gesù non interessano questi sondaggi, interessa solo la tua risposta personale che sappia cogliere con sincerità quello che c’è nel tuo cuore per Lui: “Chi sono Io per te?”.

Pietro risponderà per tutti gli Apostoli, per ogni cristiano e quindi anche per me dicendo: “Tu sei il Figlio di Dio”, potendo affermare questo non in virtù di un ragionamento, ma di una rivelazione del Padre. È solo la fede, infatti, che mi permette di affermare che Gesù è il Figlio di Dio e quindi il mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28), chi può infatti arrogarsi di poter conoscere Dio e ciò che appartiene al mistero del suo essere senza una sua particolare rivelazione?

“O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?  Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen” Seconda Lettura.

“Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore  in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo”. – 1Cor 2,6

È il Padre l’unico che conosce il Figlio e, quindi, anche l’unico che ce lo possa rivelare (cf Mt 11,27). Tutta l’azione del Padre nei confronti dell’umanità da Lui creata per mezzo del Figlio è quella di farLo conoscere, mostrarLo, indicarLo come il nostro Salvatore, l’unico nostro Salvatore (cf 1Tm 2,5). E così, per questo, il Padre mandò un suo angelo ai pastori (cf Lc 2,8ss) e una stella ai Magi perché andassero a vederLo e adorarlo (cf Mt 2,1ss). Per questo al battesimo nel Giordano (cf Mt 3,17 e paral.) e sul monte della trasfigurazione (cf Mt 17,5 e paral.) fece udire la sua voce che Lo proclamava suo Diletto Figlio, sollecitando tutti ad ascoltarLo e quindi a seguirLo. E ancora il Padre proclamerà dal cielo il suo eterno amore per il Figlio poco prima che venisse innalzato sul legno della croce: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò” (Gv 12,28). 

Gesù, pienamente consapevole di questo, dirà: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44).

E il Padre, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4) rivelò il Figlio suo a Pietro e a tutta la Chiesa che trova in Pietro l’espressione della propria unità nella comunione di tutti i suoi membri. 

La Chiesa si edifica su questa professione di fede, non dimentichiamolo mai! È solo nella misura che noi la facciamo nostra con la nostra personale adesione di fede, che possiamo dirci cristiani, cioè membri vivi di quella Chiesa che Gesù fondò su Pietro a cui diede il potere di legare e sciogliere consegnandogli le chiavi del Regno dei cieli. La prima lettura del profeta Isaia, ricorda la figura di Eliakim, maggiordomo del palazzo del re. Al maggiordomo il re affidava le chiavi del suo palazzo: il potere di chiudere e di aprire.

«L’apertura e la chiusura delle porte della «casa del re» era una funzione del vizir egiziano, di cui il maggiordomo è l’equivalente in Israele. Questa sarà la funzione di Pietro nella Chiesa, regno di Dio (Mt 16,19). Questo testo sarà citato da Ap 3,7 e applicato al Messia, come fa la liturgia nell’antifona del Magnificat nei vespri del 20 dicembre: «O clavis David et sceptrum domus Israel [O chiave di Davide e scettro della casa d’Israele]» Nota della Bibbia di Gerusalemme a Is 22,22.

“A te darò le chiavi del Regno dei Cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, si tratta di una simbologia forte, ad effetto: potere di chiudere e aprire che s’incrocia con quello di legare e sciogliere. Si tratta di qualcosa di strettamente inerente alla libertà della persona, che permette alla persona di liberarsi da ciò che la tiene prigioniera e di poter andare dove desidera. Il riferimento al peccato è ovvio. Gesù stesso parla del peccato come ciò che schiavizza la persona impedendole di essere libera (cf Gv 8,34). La vera liberazione della persona è liberazione dal peccato, per cui questo passo in cui Gesù consegna a Pietro le chiavi del Regno dei Cieli, rimanda direttamente alla sera della Pasqua quando il Risorto, alitando sugli Apostoli dirà: “Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23).

È un potere tremendo: è un potere unicamente divino. Giustamente si scandalizzarono quegli ebrei quando Gesù affermò di possederlo dicendo al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 22,5), perché “chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” (Mc 22,7). E quello scandalo maturò fino alla decisione di inchiodare ad un legno il Figlio di Dio per far palese proprio che Egli non fosse Dio (cf Gv 5,18; 10,33) sfidandoLo a dimostrare la propria divinità scendendo dalla croce (cf  Mt 27,43; Lc 23,35).

E lo scandalo persiste nell’“oggi” della Chiesa che continua nel mondo la presenza del Figlio di Dio dal quale ha ricevuto le chiavi del suo regno con il potere di legare e sciogliere. La Chiesa, infatti, scandalizza i molti che non vogliono riconoscere questo potere divino che possiede. E spesso si preferisce anche un’appartenenza a Gesù svincolata del tutto dall’appartenenza alla sua Chiesa: Cristo sì, la Chiesa no, si afferma apertamente o implicitamente da parte di molti, come se si potesse conoscere Gesù Cristo fuori della Chiesa da Lui fondata appunto per farsi conoscere al mondo (cf Mt 28,19-20): “Non crederei al Vangelo – diceva giustamente s. Agostino se non fosse perché la Chiesa m’invita a credervi”.

La Chiesa scandalizza per la sua fragile umanità così come il Figlio di Dio scandalizzò per la debolezza della sua “carne” (Gv 1,14) che poté essere crocifissa. La Chiesa partecipa dell’essere del suo Sposo e Signore (cf Ef 5,22-25; Cor 11,2), “Essa è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1,23), per cui la Chiesa è pienamente divina e quindi santa e pienamente umana e quindi peccatrice, perché in Essa sussiste Lui, Gesù Cristo il Figlio di Dio, in cui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9) e in Essa ci siamo noi, poveri figli di Eva, uomini e donne reduci dal peccato originale e dai propri innumerevoli peccati personali che veniamo continuamente in Essa perdonati e salvati per quel potere che Gesù consegnò a Pietro e in lui a tutti gli altri apostoli. Se la Chiesa fosse fatta solo di perfetti santi, in Essa non ci sarebbe posto né per me né per voi che mi ascoltate. 

La Vergine Maria, Madre della Chiesa e nostra Maestra spirituale, ci aiuti a coltivare e maturare un forte spirito ecclesiale, di appartenenza alla Chiesa, di amore alla Chiesa, a quella Chiesa concreta che vive in ogni comunità parrocchiale e diocesana dove si realizza nel mondo la presenza dell’unica Sposa di Cristo, dell’unica Chiesa cattolica e universale che ha in Pietro e nei suoi successori il suo principio di unità e il suo Capitano attraverso il quale, Lui, il Signore Risorto, continua, con il suo Santo Spirito, ad attraversare i tempi alla guida di questa barchetta sconquassata investita da tutti i venti, che fa acqua da tutte le parti, ma che mai affonda e che sempre procede diritta verso il porto della vita eterna. Solo su questa barca l’umanità potrà trovare salvezza nel naufragio della vita.

Amen.                                                               j.m.j.

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Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “A”                   Omelia

Un Vangelo scomodo

 

Carissimi fratelli e sorelle,

la Parola di Dio di questa domenica cozza tremendamente con il clima vacanziero e spensierato che ci circonda e ci richiama fortemente ad una sequela concreta, forte e decisa, mossa da quel fuoco d’amore che dovrebbe ardere nel nostro cuore (prima lettura) e dovrebbe spingerci, come ci invita s. Paolo nella seconda lettura ad

“… offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il nostro culto spirituale.  Non conformiamoci alla mentalità di questo secolo, ma trasformiamoci rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” – Rm 12,1-2.

Che forza queste poche righe di s. Paolo! “Offrire i nostri corpi!”, cioè offrire la propria persona al Padre come “sacrificio vivente, santo a Dio gradito”. Sacrificio è un termine cultuale che indica l’azione di offrire a Dio qualcosa, si tratta di un ritorno, perché tutto viene da Lui, dal suo amore eccessivo che si espande nella creazione. L’uomo è chiamato per vocazione a realizzare questo ritorno al Padre nell’offerta di sé a Lui. Essendo creata a immagine di Dio (cf Gen 1,27) che è amore per essenza (cf 1Gv 4,8.16), la persona umana non può avere pace se non ama, se non si realizza nell’amore, se non si espande nell’amore. E l’amore non è semplicemente un sentimento che riscalda il cuore, ma attuazione vitale di una relazione personale con gli altri, innanzi tutto con Dio.

Amare significa entrare vitalmente in una relazione personale con qualcuno istaurando con questi un circuito di amore ricevuto e donato. Dio non aveva bisogno di una relazione d’amore con le creature, perché pienamente beato in Se stesso nella relazione interpersonale d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma per un eccesso di amore, ha voluto che l’amore trinitario si espandesse all’esterno nella creazione e ha creato l’uomo perché quest’amore potesse ritornare a Lui nel ringraziamento e nella lode.

L’uomo e la donna hanno ricevuto dunque la vocazione di essere i sacerdoti del cosmo, cioè gli strumenti viventi attraverso i quali possa ritornare a Dio quell’amore che gli è dovuto in quanto Creatore dell’universo. Come? Attraverso l’offerta di se stessi a Lui nella ricerca costante della sua volontà, perché non si può amare qualcuno facendo ciò che a questi non piace. Ma l’uomo e la donna abdicarono a questa vocazione, rinunciarono a questa missione scegliendo di non ritornare a Dio l’amore ricevuto, scegliendo così la propria morte, perché la persona umana se non ama Dio, non può vivere e “anche se vive è morta” (1Tm 5,6; cf 1Gv 3,14).  

E Dio, che non vuole la morte del peccatore, “ma che desista dalla sua condotta e viva” (Ez 18,23; 33,11) non si è limitato a creare il mondo, ma lo ha anche redento in Gesù Cristo, in una nuova effusione del suo amore creatore che fa nuovo tutto il creato attraverso la croce del suo Figlio (cf Ap 21,5). Per cui quella vocazione naturale della persona ad essere lo strumento del ritorno a Dio dell’amore effuso, viene ad essere restaurata, elevata e perfezionata dall’unione al Figlio di Dio, che facendosi uomo per salvare l’umanità, si è unito strettamente ad ogni uomo perché in Lui, con Lui e per Lui possa attuare la propria vocazione all’amore, ritornando a Dio l’immenso amore ricevuto, offrendosi con Lui e in Lui al Padre come “sacrificio vivente, santo e a Dio gradito”.

Il Figlio di Dio, facendosi uomo nel seno della Vergine Maria, è diventato nostro fratello “primogenito” (Rm 8,29), e ha potuto attuare in pienezza il ritorno d’amore al Padre di tutto il suo amore effuso nella creazione. Nella sua offerta d’amore sulla croce Gesù realizza pienamente questo ritorno e il cuore del Padre non può non compiacersi di Lui (cf Mt 3,17; 17,5 e paral.) e al suo “Tutto è compiuto”(Gv 19,30) risponde facendoLo risorgere da morte (cf At 2,24).

Tutta la vita di Gesù è stata mossa da questa volontà d’amore: ritornare al Padre tutto l’amore che Questi aveva effuso sull’umanità e su tutta la creazione. Per questo motivo il suo unico cibo, cioè il suo unico desidero, ciò che muoveva il suo cuore e lo spingeva all’azione era unicamente la volontà del Padre (cf Gv 4,34), cioè l’amore del Padre. Egli “si fece carne” (Gv 1,14) perché tutti potessero riconoscere e ricambiare l’amore infinito e soave del Padre, e consegnò se stesso alla morte per amore, per insegnarci ad amare nella verità e nella pienezza ricambiando l’amore ricevuto dal Padre, in amore donato nell’osservanza della sua volontà.

La croce, cioè quella spogliazione di sé per amore che Lo condusse da Dio a farsi uomo, scegliendo la povertà e l’umiltà come sue inseparabili compagne, che Lo condusse a lasciarsi spogliare delle sue vesti e della sua stessa dignità umana (cf Fil 2,6-8), consegnandosi “come agnello mansueto che viene portato al macello” (Ger 11,19), permettendo di essere vilipeso e umiliato, torturato e crocifisso, è la grande rivelazione che Gesù ci dona.

La croce, cioè il suo annientamento fino alla morte, annientamento iniziato a Nazareth, dove annientò la propria divinità per farsi uomo, è la rivelazione della verità dell’amore. Dopo il peccato originale non esiste verità di amore che l’umanità possa realizzare che non sia crocifissa. E questo Egli insegnò ai suoi Apostoli perché a loro volta essi lo insegnassero al mondo intero e agli uomini di tutti i tempi (cf Mt 28,19-20).

Ma quanto dovette faticare per farlo capire loro! Oggi abbiamo ascoltato la reazione di Pietro, la prima volta che Lui parlò loro apertamente e chiaramente della croce che era venuto ad abbracciare e della chiamata nostra a seguirLo in quella strada. Abbiamo ascoltato il duro e severo rimprovero che Pietro subì da Gesù e le chiare parole di Gesù che non ammettono equivoci: 

“Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.  Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria anima?”

Com’è difficile accettare quest’insegnamento! Eppure è il segreto della vita! Guardiamo questo mondo sempre più gaudente e frivolo che ricerca se stesso, la propria comodità, il proprio piacere e la soddisfazione di ogni voglia. È forse felice? Ma quando mai? Guardiamoci attorno: quante lacrime! Quanta sofferenza profonda c’è nascosta sotto quell’apparente superficialità di vita? Quanta angoscia? Quanto vuoto? Quanta frustrazione? E tutto questo perché? Perché si continua come matti a cercare la felicità, la pace, l’amore lì dove tutto questo non c’è!

Gesù ci rivela dove si nasconde la vera felicità, la vera pace, il vero amore, essi si nascondono nell’osservanza dei comandamenti del Padre, osservandoli in pienezza anche a costo di fatica, pena, sofferenza, sacrificio, fino a morire, se necessario. Solo quando l’uomo vive nella legge di Dio può essere felice, “non c’è pace infatti per l’empio” (Is 48,22) ed empio è chi non vive nella legge del Signore.

Ma è solo nell’unione a Gesù che noi possiamo accogliere e vivere il messaggio dell’amore crocifisso, abbiamo bisogno dei suoi occhi di Figlio per guardare alla nostra croce e leggervi l’amore del Padre; abbiamo bisogno del suo Cuore di Figlio per cogliere l’amore del Padre misteriosamente nascosto in quella mia croce così dura da portare. Per questo Egli ci invita ad andare a Lui, a guardare a Lui per fare come ha fatto Lui (cf Eb 12,1-3), a imitarlo per essere così ristorati (cf Mt 11,28-30) e resi capaci di amare come Lui ci ha amato, vivendo così il nuovo comandamento che Lui ci ha lasciato: “Amatevi gli uni gli altri come Io ha amato voi” (Gv 13,34).

Se troppo spesso non riusciamo ad assimilare l’insegnamento dell’amore crocifisso e rifuggiamo dalla croce e da tutto ciò che ce la fa intravedere, è perché abbiamo cessato di tenere “fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12,2). Basterebbe che Lo guardassimo più spesso: lì, fermo e immobilizzato da tre chiodi, nudo e morto per amore mio, per ritrovare la forza di riprendere quella croce che forse ho buttato alle ortiche inseguendo il miraggio di una felicità senza sforzo, di una pace senza fatica, di un amore senza impegni.

Ed è lì, in quell’abbracciare la propria croce che si attua quel ritorno d’amore al Padre dal quale abbiamo avuto tutto gratis. Ma è un ritorno faticoso, lento, che si attua in un cammino che non è esente da profonde contraddizioni, in cui talora allentiamo la presa di quel duro legno, fino a lasciarla del tutto, per poi riprenderla di nuovo e ricominciare da capo. 

Dapprima, mossi dalla fede che genera la pazienza (cf Gc 1,3), la croce la sia abbraccia con rassegnazione nella con-sapevolezza che è un nostro dovere il farlo e che questa è la strada se non vogliamo finire dannati. Ma poi, se si è costanti nel guardare Gesù e nel tenere fisso lo sguardo su di Lui, s’incomincia a portarla con serenità, con pace, perché la fede ci fonda nella speranza (cf Eb 11,1) che ci fa sentire il conforto sensibile della sua presenza che aiuta, solleva, incoraggia e allora, ad un certo momento – se continuiamo a non staccare i nostri occhi da Lui – ci accorgiamo che non la portiamo più per forza, né semplicemente con pace e serenità, ma che la portiamo con amore e quindi con gioia, infatti “la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Così l’esercizio della fede e della speranza ci potenzia nella carità e la carità è la capacita di amare proprio come ci ha amato Gesù, portando la sua croce per amore del Padre e nostro. E così anche noi, continuando sempre a guardare Gesù, attuiamo il ritorno d’amore al Padre vivendo crocifissi (cf Gal 2,20; 6,14; Rm 6,6) per amore suo e dei nostri fratelli.

La Vergine Maria che stette accanto al Figlio nella sua Passione d’amore, pronta ad aiutarLo, se solo avesse avuto bisogno di aiuto, per tenere ferme le mani e i piedi mentre Lo inchiodavano al legno, stia accanto a noi nel cammino della vita e ci aiuti a non sfuggire a quei chiodi che ci uniscono al suo Figlio, per con Lui morire e con Lui vivere per sempre. Amen.                                                j.m.j.

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Ventitreesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                              Omelia

Il debito dell’amore 

Carissimi fratelli e sorelle,

la tematica introdotta dal Vangelo odierno è molto delicata e anche complessa. Siamo nel contesto di quello che viene chiamato “Discorso ecclesiastico”, uno dei cinque grandi discorsi di Gesù attorno ai quali Matteo costruisce la narrazione del suo Vangelo, in esso il Maestro istruisce i suoi Apostoli intorno a varie tematiche inerenti a quelle comunità cristiane che un giorno avrebbero dovuto fondare e animare.

Due sono gli argomenti toccati dal brano oggi proclamato: il primo è circa la pratica di ciò che dalla tradizione spirituale ecclesiastica viene chiamata “correzione fraterna”, il secondo è quello dell’importanza e del valore della preghiera in comune.

Certamente il discorso di Gesù sulla correzione fraterna suppone l’esistenza viva di una Chiesa-Comunità in cui i membri sono in reale e vitale relazione d’amore:

«Ciò che rende imbarazzante l’applicazione dei temi contenuti nelle letture bibliche alle concrete assemblee eucaristiche domenicali è il fatto che molto spesso queste assemblee non sono vere comunità. Manca, cioè, un vero rapporto personale fra i membri, per cui ognuno si senta responsabile nei confronti del proprio fratello. Per questo il discorso della correzione fraterna, del perdono domandato alla comunità oltre che a Dio, viene a mancare di un supporto «sociologico» importante» – Centro Catechistico Salesiano

La condivisione domenicale comune dell’unico Pane presuppone una certa condivisione di vita, un certo tessuto di rapporti che trovano poi, nella condivisione dell’unico Pane e dell’unico Calice, una particolare vivificazione, purificazione ed elevazione. Da qui anche il gesto liturgico dello scambio del segno della pace, come condivisione di quella pace che è il dono del Risorto alla sua Chiesa (cf Gv 20,19).

Ben a ragione noi oggi, abitualmente, diciamo che è la Comunità che celebra l’Eucaristia e una Comunità liturgica celebrante il mistero del più grande amore di Dio per l’umanità non può limitarsi ad essere una Comunità di persone che condivide solo la partecipazione alla liturgia senza condividere anche l’esperienza di una relazione concreta personale dove trabocchi reciprocamente quella sovrabbondanza dell’amore di Gesù che in ogni celebrazione viene riversato nei cuori dei fedeli (cf Rm 5,5) che si nutrono dell’Eucaristia. 

In altre parole, l’assemblea liturgica suppone l’esistenza di una reale comunione interpersonale e lì dove essa non esiste, bisogna attivarsi per stimolarne lo sviluppo e la crescita. Di questo è particolarmente responsabile il sacerdote che, a nome del vescovo, presiede la celebrazione liturgica. 

È bello vedere anche come questa verità si vada sempre più comprendendo e come, in diverse comunità parrocchiali, sono stati istituiti servizi di accoglienza alle persone che giungono per partecipare alle liturgie, con la finalità di creare un clima di conoscenza e di amicizia.

Certamente, questo è un aspetto che tocca principalmente la vita ordinaria della Chiesa che si svolge comunemente nella comunità parrocchiale. Diversa è la cosa per quanto riguarda gli incontri ecclesiali straordinari, le s. messe a cui affluiscono gente di diversi luoghi e nazionalità dove non è possibile né pensabile una reale conoscenza tra i più.

Detto questo, torniamo alle parole di Gesù e cerchiamo di commentarle:

«Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano».

“Se tuo fratello commette una colpa…”

«La pagina evangelica enuncia una serie di norme che devono regolamentare la vita della comunità cristiana. Più precisamente: che prendono in esame la presenza del peccato pubblico nella Chiesa. Questa pagina quindi ci fa capire una verità fondamentale riguardante la Chiesa: essa è anche essenzialmente un organismo socialmente visibile e ha bisogno anche di una disciplina giuridica. Ma, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II, "l’aggregazione visibile e la comunità spirituale, la Chiesa della terra e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due realtà: esse costituiscono al contrario un’unica realtà complessa fatta di un duplice elemento, umano e divino" [LG 8,1]. In questo contesto, ciò che la Parola di Dio vuole oggi insegnarci è che dentro all’organismo visibile-invisibile che è la Chiesa, ciascuno di noi è responsabile di ogni altro. In che senso? Quale è la portata precisa di questa corresponsabilità? "Va e ammoniscilo", dice il Signore. Esiste una responsabilità che esige il rifiuto di ogni connivenza col male, e positivamente il dovere della correzione fraterna» – Mons. Carlo Caffarra .

Anche la prima lettura odierna parla del dovere dell’ammonimento da parte del profeta che è costituito come sentinella del popolo. È bella questa applicazione del termine “sentinella” al profeta in quanto ammonitore. Sentinella era colui che dall’alto di una postazione avvisava il popolo di un pericolo incombente. Era costituito tale dunque per la salvezza del popolo, infatti senza sentinelle il popolo non poteva salvarsi dall’attacco improvviso di un nemico. La sentinella non può dormire: mentre gli altri dormono deve vegliare perché possano dormire tranquilli. E così il profeta è costituito da Dio per svegliare il proprio popolo dai suoi sonni e renderlo consapevole che non può dormire tranquillo quando ha la coscienza sporca dal peccato e dalla dimenticanza del suo dovere d’amore verso Dio e i fratelli.

Ogni cristiano è costituito sentinella del fratello, della sorella in virtù del carisma profetico che riceviamo nel s. battesimo. Esso è un carisma dell’amore, perché la bocca non può e non deve parlare se non per amore. Ogni persona è dunque “custode” del proprio fratello, non possiamo quindi chiudere gli occhi di fronte al male manifesto compiuto da esso, se li chiudessimo non l’ameremmo e saremmo un po’ come Caino che non volle riconoscersi “custode di suo fratello” (Gen 4,9) perché lo aveva ucciso.

Certo non è cosa facile ammonire, correggere perché è arte delicata dell’amore e solo chi ama può farlo, anche perché solo chi ama è capace di rischiare di rendersi antipatico a qualcuno, sottoponendosi a questo rischio perché non cerca se stesso, ma il vero bene dell’altro.

Quando la persona capisce di essere amata dall’altro, accetta anche di essere da questi corretta, ammonita, rimproverata e legge tutto nell’ordine dell’amore. Quando non siamo capaci di amare una persona, non dovremmo neppure ammonirla, perché la umilieremmo, la feriremmo provocando in essa una reazione dura, offesa e contrariata. Per questo se vogliamo aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle che stanno sbagliando apertamente in qualcosa, dobbiamo dapprima sforzarci di amarli, di amarli molto così come sono e trovare in questo amore la luce e la forza di fare qualcosa perché si ravvedano:

«Se tuo fratello sbaglia, tu va', tu avvicinati, tu cammina verso di lui. Che cosa mi autorizza a intervenire nella vita dell'altro? Solo questa parola: fratello. Solo se porti il peso e la gioia dell'altro, se ne conosci le lacrime, se ne sei fratello, sei autorizzato ad ammonire. Ciò che ci autorizza non è la verità, ma la fraternità. I cristiani sono coloro che fanno la verità nell'amore. Che non separano mai verità e amore, per non farli morire» – P. Ermes Ronchi.

E tutto questo dobbiamo fare in virtù di quel “debito di amore vicendevole” di cui ci ha parlato Paolo oggi nella seconda lettura, e che abbiamo contratto tutti reciprocamente in quanto “tutti noi siamo uno solo in Cristo" [cfr. Gal 3,28b]. Infatti "pur essendo molti, noi siamo un solo corpo in Cristo" [Rom 12,5]. E in questo legame in Gesù Cristo che trova la sua radice ultima la nostra corresponsabilità reciproca.

“E se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano”. Non dobbiamo pensare che questa frase di Gesù riferita a colui che non ascolta l’ammonimento personale e non accetta neanche quello ufficiale della Comunità, significhi che bisogna tagliare i ponti con questa persona e lasciarlo con indifferenza affossare nel suo peccato. No! Perché anche i “pagani” e i “pubblicani” sono persone da amare, come Gesù ci ha ben insegnato tanto da essere chiamato “amico dei pubblicani e dei peccatori”(Mt 11,19), ma non possiamo più considerarlo come un membro vivo della Comunità e quindi non possiamo, finché permane nel suo comportamento peccaminoso, relazionarci con esso con quell’intimità amicale propria e reciproca di chi è non semplicemente “fratello nella carne”, perché uomo, ma “fratello nello spirito” perché membro vivo della propria comunità.

Gesù, dopo aver affermato il potere di legare e sciogliere che Lui ha deposto nelle mani dei suoi Apostoli, parla dell’importanza e del valore della preghiera comune:

«Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.  Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».

Il Signore Gesù promette una sua particolare presenza “in mezzo” ai suoi quando fra essi scorre l’amore vero, quello che Lui ha insegnato e comandato (cf Gv 13,34) e che porta alla comunione nella preghiera, alla gioia dell’esperienza della preghiera comune in cui Egli “prega per noi, prega in noi ed e pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui le nostre voci e le sue voci in noi” (S. Agostino).

La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Maestra di preghiera, che per prima esperimentò la presenza del suo Figlio “in mezzo” ai suoi quando pregava insieme agli Apostoli nell’attesa della Pentecoste (cf At 1,14), ci aiuti a costruire nella nostra Comunità cristiana relazioni amicali profonde, impregnate di amore, radicate e vivificate dall’esperienza dell’incontro con il Signore Risorto che nell’assemblea liturgica si rende presente “in mezzo” per animarla con la sua Parola che rischiara le menti liberandole da ogni perplessità e incertezza e con il suo Corpo e il suo Sangue che dilata i cuori rendendoli capaci di un amore sempre più grande e fattivo per il Padre e i fratelli.

Amen.

j.m.j.

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Domenica Ventiquattresima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                Omelia

La legge del perdono 

Carissimi fratelli e sorelle,

l’insegnamento che oggi risuona nelle nostre assemblee attraverso la Liturgia della Parola è un insegnamento molto semplice, non ci vuole molto a capirlo, ma nello stesso tempo è un insegnamento arduo, difficile, molto faticoso da attuare.

Si tratta del messaggio del perdono. Esso è tipicamente cristiano, perché Gesù lo ha messo particolarmente in risalto nei suoi insegnamenti e lo ha testimoniato in modo eccelso perdonando i suoi carnefici (cf Lc 23,34), ma questo insegnamento lo troviamo già nell’Antico Testamento come ben ci dimostra la prima lettura odierna. 

Infatti, il buon Padre del Cielo non si rivelò di colpo e in pienezza al suo popolo, ma lo fece in un lungo cammino nel quale Egli si è abbassato e adattato alla mentalità degli uomini del tempo e, come “prendendolo per mano” (Os 11,3), lo ha aiutato, attraverso i secoli a maturare la propria comprensione della verità di Dio e dell’uomo. Per questo l’Antico Testamento non va letto come se fosse un libro unico e scritto nello stesso tempo, ma va letto come la storia della maturazione progressiva della comprensione di Dio e dell’uomo, da parte di un popolo che cammina nella storia verso quella “pienezza dei tempi quando il Padre manderà il suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché potessimo ricevere l’adozione a figli” (Gal 4,4-5; cf Eb 9,26).

Sotto questo punto di vista è bello leggere l’Antico Testamento notando lo sviluppo e la maturazione di alcuni concetti fondamentali, quali ad esempio la vita eterna, la responsabilità dei singoli, l’universalità della salvezza e altri, tra cui quello del “perdono”. E così, in un cammino progressivo di affinamento spirituale, il Signore conduce il suo popolo dall’affermazione della legge del taglione (Es 21,23-25, Dt 19,21) – in cui “l’occhio non avrà compassione” (Dt 19,21) – al superamento di essa, nella novità del perdono affermata con forza dal testo del Siracide che abbiamo ascoltato. Questo perché all’inizio della costituzione del popolo di Dio, era in gioco la salvaguardia della propria identità di popolo “santo” (cf Lv 11,44-45; 19,1; 20,7) che doveva risplendere per la correttezza del proprio agire morale (cf Dt 4,5-8), in mezzo agli altri popoli – immorali e pagani – che lo circondavano, per questo si rese necessaria, all’inizio, l’affermazione della severa punizione del cattivo esempio onde scongiurarne l’imitazione (cf Dt 19,20).

«Nel testo del Siracide si intende definitivamente annullata la legge del "taglione": occhio per occhio, dente per dente. Esiste un atteggiamento più saggio e giusto per un uomo che crede in Dio: questo è il perdono, non la giustizia vendicativa.  Il libro di Ben Sirach fu scritto in lingua ebraica a Gerusalemme, intorno agli anni 190 – 184 a.C. Cinquant'anni più tardi è stato tradotto in greco, per gli ebrei che vivevano in Egitto. Questo libro, fino all'epoca di san Cipriano (+ 258) e fino a qualche anno fa veniva chiamato l'"Eccle-siastico" e si utilizzava per istruire i catecumeni. Il libro ci presenta un problema proprio della esistenza umana: di fronte alle offese e agli affronti subiti, l'uomo di solito reagisce in modo violento e alimenta sentimenti di vendetta e di rivalsa, facendo crescere ira e indignazione.  Ben Sirach si oppone in modo radicale a questo modo di procedere. Nel testo, l'ira è qualcosa di abominevole. È propria dei peccatori. I padri del deserto, ripieni di questo spirito, ripeteranno con frequenza il monito "non irritare, non irritarti", cioè non lasciare spazio all'ira nel tuo cuore. Resta così chiaro che ostinarsi nel rancore e nell'ira davanti a colui che ci offende, è un peccato. È necessario, in modo imperativo, perdonare. Perdonare sempre e tutto, perché davanti a Dio siamo stati perdonati. "Ora – diceva Doroteo de Gaza -, niente irrita di più Dio, niente impoverisce di più l'uomo e lo conduce all'abbandono, che il fatto di criticare il prossimo, giudicarlo o parlarne male" (Doroteo di Gaza, Conf.)» P. A. Izquierdo – Om. XXIV Dom. del T. O. – 2002.

Questo testo del Siracide ci trasmette una grande saggezza e possiamo in esso già leggervi tutto l’insegnamento di Gesù sul perdono che abbiamo ascoltato nel Vangelo. Anzi possiamo dire che il Vangelo odierno si pone quasi a commento di esso. Prima di passare a commentare il Vangelo, osserviamo come sia saggio l’invito del Siracide a ricordarsi della “propria fine” per essere aiutati a “smettere di odiare”:

«Lo diciamo anche noi: cos'è tutta la nostra superbia se pensiamo che tutti dovremo morire? Ma anche la consapevolezza che noi per primi e sempre abbiamo bisogno di farci perdonare molte cose dagli altri, ci rende umili, tolleranti, per lo meno prudenti, pensando che il torto o la ragione non stanno mai da una sola parte. È  l'umorismo e il distacco che si impara con gli anni; sì, capita magari di arrabbiarsi, ma si sente bene poi che i nostri sono piccoli problemi che non meritano puntigli duraturi. Il tempo e la preghiera fanno quello che manca alla nostra incapacità di dimenticare» – Don Romeo Maggioni – XXIV Dom. del T. O. – 2002.

E veniamo ora al Vangelo, a questa parabola così semplice e profonda del servo ingiusto che non perdona pur essendo stato perdonato. Gesù la racconta provocato da Pietro che desiderava che ci fosse un limite al perdono del prossimo:

«Gesù aveva detto di amare i propri nemici, e di pregare per quelli che ci perseguitano per essere figli del Padre che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,44-45). Nel Padre nostro aveva insegnato a pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Pietro, che dal contatto con Gesù ha capito che le misure fino allora ritenute valide ora non servono più, abbozza una risposta: «Fino a sette volte?». E più del doppio di tre, ed inoltre è un bel numero di valore simbolico che richiama la completezza. Gesù formula la sua risposta riprendendo il bel numero simbolico, ma in una moltiplicazione tale da proporre una completezza senza limiti. Bisogna perdonare sempre» – Centro Catechistico Salesiano

Per spiegare questo Gesù racconta la parabola del servo ingiusto. Facciamo ad essa due annotazioni. La prima è che ciò che fa scattare la molla del superamento della logica dell’equa giustizia, è il fatto che il padrone s’impietosì:

«Ecco la sorpresa e la svolta. Appena "quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza e ti restituirò ogni cosa, impietositosi di lui, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito". Tutto d'un colpo è cancellata la distanza, è perdonato il peccato, è restituito libero per ricominciare una vita nuova. Cosa è capitato? Dove sta la causa di tanto capovolgimento? In quella parola grande che è la sintesi di tutta la Bibbia: «SI IMPIETOSI'». Che significa: si commosse fin nel profondo delle viscere, nel profondo del cuore.  Dio si commuove, Dio ha il cuore tenero di una madre (cf Is 49,15( […] È il medesimo verbo che Gesù ha usato per il buon Samaritano che s’è chinato sulla nostra umanità incappata nei ladroni per restituirla alla salute e alla vita, “portando su di sé il peccato di tutti noi” (1Pt 2,24). Tutto noi riceviamo da Dio e per pura gratuità: “Egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). […] L'amore di Dio è un amore di misericordia, che ama anche quando lo si rifiuta, che stravince nel dono di Sé con il perdono. È la sua soddisfazione, la sua gloria, la sua gioia: "Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione" (Lc 15,7)» –
Don Romeo Maggioni – Omelia XXIV Domenica del Tempo Ordinario – 2002.

Sì, la gioia di Dio è quella di poterci perdonare, d’altra parte quale gioia può avere l’“AMORE” (1Gv 4,8.16) se non quella di poter amare? È questa la SETE (Gv 19,28; cf 4,7) di Dio: poterci amare riversando su ciascuno di noi il suo misericordioso e compassionevole Amore (cf Rm 5,5). Avendoci creati liberi, questa è una gioia che Dio non può darsi da sé, perché noi abbiamo il potere – tremendo! – di poter rifiutare il suo amore, rifiutare il suo perdono, rifiutare la sua compassione.

La seconda osservazione alla parabola è lo sdegno del padrone di fronte all’atteggiamento del servo nei confronti dell’altro servo. Vedendo quel comportamento così impietoso gli altri servi ne furono “addolorati” e riferirono il fatto al padrone, il quale sentendolo rimase “sdegnato”: “Come ha potuto fare questo?”.

Sì, come possiamo fare questo? Come possiamo non perdonare dopo che noi stessi abbiamo ricevuto, gratuitamente il perdono di Dio? Penso che le ragioni che ci impediscano di regalare perdono a chiunque ci faccia del male o ci offenda, sono essenzialmente due: 

  • La prima è quella di non aver preso consapevolezza della gravità dei nostri personali peccati e quindi della convinzione che in fondo in fondo, Dio non abbia gran che da perdonarci. Di conseguenza manca anche la coscienza di essere stati salvati dalla dannazione eterna. L’inferno non lo si prende neanche in considerazione, mentre è proprio per salvarci dalla morte eterna che Gesù si è consegnato alla morte di croce.
  • La seconda, diversa dalla prima, è quella di non credere veramente al perdono di Dio: non riconoscendoci perdonati, non riusciamo a perdonare.

«Solo l'esperienza della misericordia di Dio, la coscienza di averne ricevuto e di averne bisogno ancora molto, ci può dare la forza di perdonare. Sant'Agostino riassume col dire: "Perdonàti, perdoniamo!". Del resto Gesù l'ha posto come condizione: "Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello". […] "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori" (Mt 6,12). Gratuito è certo il perdono di Dio, ma ha bisogno della sincerità che si traduce in altro perdono, perché non sia una finta come ha fatto il primo servo col suo padrone» – Don Romeo Maggioni…

Carissimi fratelli e sorelle, preghiamo per questo nostro mondo che sembra sempre più chiudersi ad ogni invito al perdono e che si ritrova sempre più immerso nella spirale dell’odio e della vendetta. Non perdiamo la speranza della possibilità reale di un mondo nuovo, costruito da tutti quegli uomini di buona volontà che hanno capito – finalmente! – che l’unico modo per costruire la pace è promuovere una giustizia edificata sul perdono reciproco.

A noi, nel nostro piccolo, il compito di testimoniare al mondo che il perdono è possibile, perché lo viviamo ogni giorno perdonando tutti come ci ha insegnato il buon Gesù, per cui la sua morte non è stata vana, ma è seme di speranza per l’umanità.

La Vergine Madre che non solo seppe perdonare i carnefici di suo Figlio, ma anche accoglierli come figli propri ereditati sotto la croce di Gesù morente, ci aiuti e ci insegni ad essere “misericordiosi com’è misericordioso il Padre nostro del Cielo” (Lc 6,36). 

Amen. 

j.mj.

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Venticinquesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                               Omelia

“Sono ingiusto Io o siete voi ad avere il cuore piccolo?” 

Carissimi fratelli e sorelle,

in questa domenica la Chiesa ci invita a soffermarci sulla parabola di Gesù più dura, più ostica che suscita spesso nel cuore di chi l’ascolta un certo senso di rifiuto, di rigetto, un certa intima perplessità e incomprensione: la parabola degli operai invitati a lavorare alla vigna in diverse ore del giorno. A causa di questa difficoltà di comprensione, essa viene introdotta dalla prima lettura tratta dal profeta Isaia, che afferma con vigore che i pensieri e le vie di Dio non sono i nostri.

Come si fa a comprendere l’agire di Dio? Come si fa a comprendere i pensieri e le vie di Dio? Per poter comprendere queste cose bisognerebbe avere un cuore grande come il suo e il nostro invece è così piccolo e stretto! Di fronte alle nostre perplessità e chiusure, di fronte ai nostri giudizi cattivi su di Lui e il suo operato, Dio continua a chiederci: Dove eravate voi quando Io ponevo le fondamenta della terra?” (Gb 38,4), invitandoci così a quel silenzio riflessivo che è l’unico atteggiamento giusto che possiamo attuare quando non capiamo Dio e il suo agire e vorremmo protestare come protestò Giobbe, ma dobbiamo imparare come questi a tacere perché aveva esposto senza discernimento cose troppo superiori a , che non comprendeva (Gb 42,3).

Oggi più che mai si moltiplicano i “censori” di Dio “che vogliono contendere con l’Onnipotente” (Gb 40,2) e che, a differenza di Giobbe, stentano a tacere non riconoscendo la propria meschinità e povertà (cf Gb 40,4).

Dio, di fronte al rinnovarsi nel mondo delle proteste nei suoi confronti, continua a ripeterci: “Guardate che Io sono Dio e non un uomo” (Os 11,9); “Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” (Ez 18,25); Vi sembra giusto essere sdegnati così?” (Giona 4,4); “O non sarà forse che voi siete invidiosi perché Io sono buono?” (Vangelo odierno).

Ogni malevolo giudizio nei confronti di Dio è causato da una ristrettezza di cuore che fa presumere la persona di avere dei meriti nei suoi confronti e quindi di avere dei diritti. È la mancanza del riconoscimento della propria indigenza e povertà esistenziale, che spinge la persona umana all’arroganza e a protestare con Dio perché non è stato “giusto” nei suoi confronti. Così protestò il fratello del “figliol prodigo”, perché il padre – secondo lui – era stato ingiusto a far festa per quel fratello debosciato, la festa semmai la doveva organizzare per lui che era stato sempre bravo, buono e ubbidiente (cf Lc 15,28-29). Così protestano gli operai della vigna che, pur avendo lavorato tutto il giorno sotto il sole cocente, vengono ricompensati come gli altri che avevano lavorato un’ora sola e per giunta, quella più fresca! Ma dove sta la giustizia?

Non è vero forse che sentiamo tutti di dovere dar ragione a questi operai così ingiustamente ricompensati da questo padrone che paga di più chi lavora meno? Sembrerebbero nel giusto, la loro aspra critica e mormorazione contro quel padrone, sembrerebbe “giusta” a prima vista, sembrerebbe ben motivata, fondata, impeccabile e indiscutibile: “È proprio così: hanno proprio ragione”. Ma il nostro buon Gesù ci smonta subito, infatti possiamo imbrogliare noi stessi e quelli come noi, ma imbrogliare Dio non ci è dato di poter fare! E quante volte anche noi imbrogliamo noi stessi camuffando di giustizia e di diritto le nostre motivazioni ben più sporche? È il cuore ristretto che si appella alla giustizia per giustificare la propria incapacità di amare! Sì è proprio così, e Gesù, il Rivelatore del Padre e dell’uomo, ce lo svela.

Di fronte ad uno di quei suoi malevoli mormoratori, il padrone della vigna si mostra sdegnato e amareggiato: Come puoi pensare questo di me? Pensare che Io sia ingiusto!? Per amore e solo per amore ti ho preso a giornata quando eri disoccupato e senza far niente e ti ho fatto lavorare nella mia vigna accordandoti una giusta paga che tu hai ricevuto così come avevamo convenuto e ora, dopo il bene che hai ricevuto da me, mi accusi di essere stato ingiusto con te? Ma sono ingiusto Io o sei tu ad essere invidioso?”. 

Il padrone della vigna mette il dito nella piaga: “Ma non sarà forse che tu sei invidioso perché Io sono buono?”. Veramente la traduzione più esatta dovrebbe essere “Ma non sarà forse che il tuo occhio è cattivo perché Io sono buono?”. 

“Il tuo occhio è cattivo”, cioè tu interpreti in male il mio operato perché il tuo occhio è sporco: il male è in te, non in me. È il tuo cuore sporco e chiuso che ti impedisce di vedere bene.

“Il tuo occhio è cattivo”, cioè tu non sai guardare con amore, tu non ami! Se tu avessi visto in quell’altro operaio un amico, un figlio, un fratello, una persona che amavi non saresti forse stato contento che, pur non avendo lavorato come te, riceveva la tua stessa ricompensa? Solo chi ama sa gioire delle gioie altrui, chi invece non ama viene ferito da ogni gioia del prossimo e cerca sempre qualche modo per appannare o svilire quella gioia invidiata.

“Il tuo occhio è cattivo”, cioè tu non hai saputo riconoscere l’amore che Io ho avuto per te e sei stato ingrato con me! Il giudizio cattivo nei confronti dell’operato del padrone verso gli altri operai ha fatto dimenticare quanto aveva ricevuto da questi! Cosa avrebbe fatto se quel padrone non lo avesse preso a giornata?

L’ingratitudine è propria degli uomini cattivi!  Sì, perché chi è più cattivo di un ingrato? L’ingratitudine è il peccato proprio dei figli che non ricambiano con il rispetto e l’ubbidienza l’amore ricevuto dai genitori e anzi, alle volte se la prendono con essi perché non hanno dato modo loro di avere quella certa agiatezza e quelle comodità che sognavano.

E così quegli operai ingrati non ringraziarono neppure quel padrone che li aveva presi a giornata, anzi lo riempirono di proteste e di accuse di ingiustizia, perché credevano di avere dei diritti in seguito al loro lavoro: avevano – secondo loro! – meritato di più perché avevano lavorato di più e non tennero conto che il padrone li aveva presi a giornata per amore e non per altro, né tennero conto di quale onore fosse stato per loro lavorare in quella vigna!

«La parabola c'invita a conquistare lo sguardo di Dio: se l'operaio dell'ultima ora lo guardo con bontà, se lo vedo cioè come un amico, non come un rivale, se lo guardo come mio fratello, non come un avversario, allora gioisco con lui della paga piena, non mi sento defraudato, mi rallegro con il mio amico, faccio festa con mio fratello e ci sentiamo entrambi più ricchi. Questione di bontà. Che, impietosamente, svela la grettezza del nostro cuore. Che si sente impoverito se altri ricevono quanto me, umiliato se altri sono resi uguali a me; che vuole essere sempre uno della prima ora, superiore agli altri, che non gode del bene che si diffonde, che non sa gioire della fortuna toccata ad altri. 

Eppure, se Dio è andato oltre il contratto con gli ultimi, non poteva farlo anche con i primi, che meritavano di più? Lo sconcerto verso l'agire di Dio dipende dal posto che ci attribuiamo in questa parabola. Se ci stimiamo lavoratori instancabili della prima ora, cristiani esemplari, che danno a Dio impegno e fatica, che pretendono perché, pensano, Dio e la sua benevolenza si devono meritare, allora possiamo essere urtati dalla larghezza di Dio. Così fecero i farisei. Se invece con umiltà, con verità, mi metto tra gli ultimi operai, tra i servi inutili, accanto ai peccatori, a Maddalena e al buon ladrone, se conto non sui miei meriti ma sulla bontà di Dio, allora la parabola mi rivela il segreto della speranza: Dio è buono. 

Ti dispiace che io sia buono? No, non mi dispiace, perché quell'operaio dell'ultima ora sono io Signore, un po' ozioso, un po' bisognoso. No, non mi dispiace, perché spesso non ho la forza di portare il peso della giornata e del caldo. Vieni a cercarmi anche se si è fatto tardi. Non mi dispiace che tu sia buono. Anzi, sono felice di avere un Dio così, che urge così contro le pareti meschine del mio cuore fariseo, contro il povero dialetto dell'anima perché diventi, finalmente, la lingua di Dio» – P. Ermes Ronchi.

“Apri Signore il nostro cuore e comprenderemo le parole del tuo Figlio” (cf At 16,14b), così abbiamo giustamente proclamato al canto al Vangelo, non è possibile infatti comprendere questa parabola e tutto il Vangelo di Gesù se il nostro cuore non viene toccato da Dio e aperto, dilatato, allargato da Lui per essere reso capace di comprendere l’amore suo che è divino e ci supera, per questo il salmista dirà che corre per la via dei comandamenti perché il Signore gli ha allargato il cuore (cf Sal 119,32).

I nostri giudizi poi restringono la realtà umana in un orizzonte puramente terreno, sensibile, dimenticando troppo spesso che esiste un orizzonte più vasto, enormemente più vasto nel quale si situa la nostra esistenza e che è la “vita eterna”. La seconda lettura ci ha mostrato Paolo desideroso di entrare in questa vita eterna nella quale saremo per sempre con il nostro Gesù, per questo dobbiamo impegnarci a purificare i nostri cuori da ogni malizia, impurità e cattiveria e imparare ad amare nella sincerità e nella verità “comportandoci così da cittadini degni del Vangelo” (seconda lettura).

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra, ci insegni e ci aiuti a comprendere la Parola del suo Figlio e a incarnarla nella vita di ogni giorno.

Amen.                                                                j.m.j.

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Ventiseiesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                    Omelia

Il “terzo” figlio 

Carissimi fratelli e sorelle,

dopo la parabola degli operai dell’ultima ora che abbiamo ascoltato domenica scorsa, la Liturgia ce ne presenta altre tre che hanno come oggetto il ripudio del vecchio Israele da parte del Signore: la parabola dei due figli (vangelo di questa domenica), quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-44 – vangelo della XXVII domenica) e quella del convito nuziale (Mt 22,1-14 – XXVIII domenica). Il vecchio popolo di Dio che non ha voluto accogliere il Messia è ripudiato e viene costituito il nuovo Israele di Dio, la Chiesa.

Il Vangelo odierno viene introdotto da un brano di Ezechiele nel quale il Signore rispondeva a chi credeva che bastasse un’appartenenza esteriore al popolo ebraico per salvarsi: l’appartenenza deve essere continuamente confermata dalla condotta di vita e a nulla vale essere buoni, onesti e bravi solo per qualche tempo più o meno lungo, bisogna esserlo sempre, perché nel momento che il giusto commette ingiustizia non è più giusto e sarà condannato.

D’altra parte chi desiste dall’ingiustizia e inizia una vita virtuosa, è salvo e la sua ingiustizia passata non sarà più ricordata da Dio. I benpensanti di tutti i tempi si rivoltano all’udire un simile insegnamento espresso dalla meravigliosa icona del “buon ladrone” che dopo una vita di imbrogli, furti e delitti riesce pure a carpire il paradiso con una semplice raccomandazione al buon Gesù appeso accanto a lui sul Golgota (cf Lc 23,42-43).

Anche in questa domenica dunque risuona ai nostri orecchi il grido di protesta dell’uomo verso Dio: “Non è giusto questo modo di comportarsi di Dio!”. Anche questa volta, come domenica scorsa, il grido proviene da chi si pone davanti a Dio non nell’umiltà del riconoscimento del proprio niente, ma nell’arroganza di chi crede di avere accumulato dei meriti davanti a Lui considerandosi creditore di una salvezza dovuta e non donata.

La parabola di Gesù – a differenza di quella di domenica scorsa – è semplicissima, il suo messaggio lampante, profondo e chiaro, talmente chiaro che gli stessi farisei coinvolti da Gesù in un’interpretazione di essa, rispondono esattamente alla domanda di Questi. 

Prendendo spunto dalla vita ordinaria di famiglia, Gesù parla di un padre che invita i suoi due figli a fare un lavoro nella sua campagna. Quante volte i genitori hanno esperimentato nella concretezza della propria vita di famiglia esempi simili? Un figlio dice subito “Sì” e poi non fa nulla, un altro sbotta un po’, scuote le spalle nel suo solito “uffa” e sparisce dalla circolazione, poi magari ci ripensa un po’ e va a fare quanto richiesto. Non basta dire “Sì”! Chissà quante volte il buon Gesù aveva insegnato questo ai suoi discepoli: “Non chi dice Signore… Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Non basta quindi al figlio essere buono e educato se poi è disubbidiente e non fa quanto il papà gli chiede: a che serve la sua buona educazione, a che servono i suoi tratti gentili se poi fa quello che gli pare?

Gesù identifica gli scribi e i farisei – i quali della virtù avevano solo il rivestimento esteriore ma erano privi della sostanza e credevano non solo di essere salvi, ma di essere addirittura i primi del regno di Dio a causa di questo rivestimento che non toccava però il loro cuore – in quel figlio educato e gentile che disse il suo falso “Sì” al padre.

Gesù li smonta tutti e li offende terribilmente: “I pubblicani e le prostitute vi passeranno davanti nel regno di Dio!”. Proprio quelle persone da loro ritenute le più meschine e lontane da Dio che secondo loro non potevano meritare la salvezza, saranno ritenute da Dio più meritevoli di loro! Coloro che hanno calpestato apertamente la legge di Dio occuperanno quei primi posti da loro tanto ambiti: è uno scandalo! Come può dire simili cose quest’uomo? Con queste parole così dure, Gesù non poteva non attirarsi l’odio di queste persone e il loro furore “religioso” per il plauso verso chi aveva calpestato la Legge di Dio.

Ma la parabola non è solamente un richiamo morale di Gesù ad una virtù che non sia solo di rivestimento priva una vera interiorità virtuosa, non è solo un’accusa all’agire ipocrita degli scribi e farisei che li rendeva simili a “sepolcri imbiancati: belli all’esterno ma dentro pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Mt 23,27), questa parabola è qualcosa di più! Se dovessimo leggere la parabola solo in questa direzione essa potrebbe benissimo appartenere agli scritti sapienziali del Vecchio Testamento e quei pubblicani e quelle prostitute di cui parla Gesù, che passano avanti ai benpensanti del tempo, possono essere visti benissimo in quel “ingiusto che desiste dall’ingiustizia” di cui ci ha parlato oggi Ezechiele.

No, la parola di Gesù non è mai un semplice invito all’osservanza di una legge morale, ma è sempre un invito alla sua sequela. “Fare la volontà del Padre” (Mt 7,21) nel Nuovo Testamento non è più riducibile all’osservanza di una norma morale di comportamento, ma implica essenzialmente la sequela di Gesù. Quello che vuole il Padre è che si riconosca Gesù come il suo Figlio prediletto nel quale si è compiaciuto e che Lo si ascolti e Lo si segua (cf Mt 3,17). Per questo quando i giudei chiesero a Gesù cosa dovessero fare per compiere l’opera di Dio, Questi rispose: “L’opera di Dio è credere in Colui che Egli ha mandato” (Gv 6,29), credere in Lui cioè. 

In questo senso più profondo i “pubblicani e le prostitute passeranno avanti agli scribi e ai farisei”, non semplicemente perché hanno cessato di commettere peccati, ma perché hanno ascoltato il Battista che aveva indicato Gesù come il loro Salvatore e sono andati a cercare Gesù e trovando Gesù e seguendo Gesù hanno trovato la salvezza delle loro anime.

È questa la novità del Nuovo Testamento: seguire Gesù, imparare da Lui (cf Mt 11,29) e lasciarsi lavorare dallo Spirito che nel dialogo d’amore delle due libertà (la nostra e la sua) ci unisce e trasforma in Gesù (cf 2Cor 3,18) come veri figli del Padre (cf 1Gv 3,1). Trasformazione in Gesù che avviene nella misura in cui noi veniamo attratti e conquistati dall’uomo-Dio Gesù, dai suoi sentimenti e atteggiamenti più profondi (seconda lettura) con i quali Lui, “il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3) visse e passò in mezzo a noi per portarci al Padre attirandoci a Lui con il fascino della sua bellezza. 

Gesù è quel terzo figlio della parabola di oggi che viene da essa sottaciuto: è il figlio che non dice né subito “Sì” per far contento papà e poi fare come gli pare, né quello che sbuffa dicendo “No” e poi invece va a fare quanto richiestogli, Gesù è il figlio che dice sempre “Sì” (2Cor 1,19-20), un “Sì” sempre pronto, fermo senza tentennamenti, pieno, totale e amoroso (cf Gv 4,34; 19,30).

Il dialogo delle due libertà è un dialogo d’amore nel quale quanto più la persona umana s’innamora del Figlio di Dio, s’innamora dei suoi sentimenti, s’innamora del suo sguardo, s’innamora dei suoi gesti, s’innamora delle sue parole così luminose e vere, s’innamora del suo amore così folle che Lo portò Lui, il grande e onnipotente Dio, a farsi piccolo piccolo nel seno di una piccola donna; Lui il Padrone del mondo a farsi povero e bisognoso di tutto; Lui, l’immortale Dio a subire l’umiliazione e la morte per noi…, per me!…… Quanto più la persona s’innamora di tanto amore e s’impegna con gli sforzi della propria volontà ad amare anch’essa così, come Gesù, nella consegna di sé senza condizioni nel servizio, nel perdono e in qualunque altra esigenza dell’amore, quanto più in Lei lo Spirito Santo la unisce e trasforma in Gesù, finché anch’essa non potrà dire con Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me” (Gal 2,20).

La Vergine Maria che sotto la croce ricevendoci come figli, eredità del Figlio suo morente (Gv 19,26), ha ricevuto la missione di collaborare con lo Spirito Santo nella formazione in noi dell’immagine del suo Divin Figlio, ci aiuti e ci insegni a realizzare un’assimilazione sempre più grande e intima a Lui, permettendoGli così di crescere e maturare fino alla pienezza della sua presenza in noi (cf Ef 4,13). Amen.

 

 j.m.j.

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Ventisettesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                       Omelia

Il cantico d’amore 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

una delle immagini che ricordo con molta dolcezza, è un piccolo ricordo di una visita nella casa di campagna di un mio amico in  Sicilia, avevo credo 21 anni e lì ebbi l’occasione di vedere da lontano un vecchietto, era il nonno del mio amico, che stava in mezzo ad una piccola vigna.

La scena mi colpì tanto al punto da stamparla nel cuore: la vigna era piccolina con i vitigni alti, ben tenuta, pulita e delimitata da un reticolato. Ciò che mi colpì con forza fu quel vecchietto che, piano piano, ricurvo sulla sua zappetta la lavorava. Nel mio intimo percepii il grande amore con cui quel vecchietto lavorava la sua vigna. Non so cosa, non so perché, ma quello che colpì il mio cuore fu questo grande amore. Ebbene questo grande amore ha colpito anche il cuore di Dio, tanto da scegliere proprio quest’amore per renderlo segno del suo più grande e indicibile amore per noi.

Il cantico dell’amore di Dio per la sua vigna che Isaia ci ha riportato nella prima lettura di oggi, canta quest’amore grande, immensamente grande, incommensurabilmente grande di Dio per la sua vigna che è Israele…, che è la Chiesa…, che è ogni persona umana…, che sei tu…, che sono io! Quanta fatica…! Quanto amore…! Quanta attenzione per questa vigna e poi? E poi “al posto di produrre uva buona produce uva selvatica”: la delusione di Dio! 

Ma l’amore di Dio non si lascia vincere da nessuna delusione, il suo grido di minaccia, la sua promessa di non vangarla più, di abbandonarla alle intemperie e ridurla così a deserto è un grido di amore: è l’amore di una mamma, di un papà che buttano fuori di casa il figlio drogato quando questo è l’unico modo di riuscire a far scattare in lui la molla del ravvedimento, della redenzione personale. Fuori di casa, solo, senza più neanche un ricovero per dormire, abbandonato a se stesso forse troverà la forza di reagire e uscir fuori da quel tunnel. Così Dio abbandonò il suo popolo a se stesso, perché sperimentando inevitabilmente il fallimento e la rovina, tornasse a Lui con un cuore nuovo, un cuore umiliato e contrito capacitato così all’amore. È in questa luce che dovremmo leggere tutti i fallimenti della nostra vita, tutte le vicissitudini, le tragedie che Dio ha permesso che ci annientassero perché nascesse in noi “un cuore contrito e uno spirito umiliato” (Dn 3,39-40; cf Sal 51,19; 119,67.71) e capissimo l’amore di Dio che solo possono comprendere i poveri, gli umili, i piccoli, quelli il cui unico appoggio è Dio, quelli il cui unico desiderio è Dio, quelli la cui unica certezza, unica speranza, unico amore è Dio conosciuto come Padre attraverso Gesù, “Padre suo e Padre nostro, Dio suo e Dio nostro” (Gv 20,17). Quelli che camminano pellegrini in questo mondo ben sapendo di essere cittadini dell’eternità, anelando al Cielo che è la loro patria (cfr Col 3,1-2).

Una piccola bimba romana morta nel 1937 a sei anni in odore di santità di cui è in corso la causa di beatificazione, Antonietta Meo, “Nennolina”, scriveva: 

“Caro Dio Padre…Caro Dio Padre! Padre! Padre! Lo ripeterei sempre questo nome che è tanto bello!……Caro Dio Padre mi piace tanto questo nome, perché vuol dire padre di tutto il mondo… È molto bello questo nome di Padre e Gesù quando stava in terra non poteva insegnarci un nome più bello di questo nome… un Padre buono, amoroso, caritatevole e che perdona a tutti i peccatori che bel nome Padre!” 

Tratto da “Con occhi semplici” Antonietta Meo – Nennolina – Collana Testi Mistici Lib. Editrice Vaticana – a cura di Luigi Borriello.

Ma per entrare in una comprensione più piena di questo cantico dell’amore di Dio per la sua vigna dobbiamo tenere presente anche il vangelo odierno della parabola dei vignaioli omicidi, sia Giovanni 15, dove Gesù si presenta a noi come la “vera Vite”.

Infatti in questa parabola che tratta della vigna di Dio sotto un’altra angolazione, vediamo due cose: la prima come il Signore in seguito al comportamento scorretto dei vignaioli a cui aveva affidato le cure della sua vigna, ripudia quei disonesti vignaioli e affida la sua vigna ad altri: si tratta della nascita del nuovo popolo di Dio, della Chiesa a cui ora il Padre affida le cure della sua amata vigna che è l’umanità tutta e non solo Israele.

La seconda è che “manda il suo Figlio”, è Lui, Gesù, la risposta dell’amore del Padre alle deluden-ti attese d’amore da parte della sua vigna. Egli non si lascia vincere dal non-amore, dal rifiuto, dall’abbandono, non si lascia vincere dall’indifferenza né dal disprezzo, Egli ha un amore più grande, anzi Egli è AMORE SUSSISTENTE e chi potrà mai vincerlo l’Amore? L’amore è più forte anche della morte (cf Rm 8,35-39) chi potrà mai spegnere l’Amore? “Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,7). E così “per il grande amore con il quale il Padre ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Gesù (Ef 2,4-5). È Gesù la risposta definitiva del Padre di fronte alla rovina della sua amata vigna, al canto al Vangelo abbiamo proclamato: “Io sono la vera vite, voi i tralci, chi rimane in me e Io in lui porta molto frutto” (Gv 15,5):

«“Io sono la vite vera”. Gesù dunque si identifica con Israele, perché è Lui l’eletto ed è in Lui e per mezzo di Lui che il Padre realizza pienamente, veramente la sua opera di salvezza. 

“È per Lui che il popolo d’Israele è stato scelto; è per Lui che è stato collocato in quella terra; è per Lui che è stato visitato con tanta premura da Dio; è per Lui che ha ricevuto quella parola, il popolo: la rivelazione del Dio vivente, la conoscenza del nome di Dio; è per Lui, in ordine a Lui, che è stato costruito il tempio per preparare e significare Lui, tempio vero”

[U. Neri, L’addio di Gesù ai discepoli: il discorso della grande consolazione, ed. San Lorenzo, Bologna 2001, pag. 114]. 

Sempre nello stesso discorso Gesù aggiunge: “Ogni tralcio in me, che non porta frutto lo toglie” (Gv 15,2), ed anche il profeta aveva detto: “Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica”. Oggetto dell’amore e della cura di Dio [è che] chi è in Israele deve portare frutto: frutto di giustizia, di santità, di obbedienza, di fedeltà. E non di oppressione, di grida di angoscia, di corruzione. La cura amorevole di Dio aspetta la risposta della libertà umana» Mons. Carlo Caffarra .

Paolo nella seconda lettura oggi ci invita a portare questi frutti di amore: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” e perché non dubitiamo di poter vivere così orientati alla virtù, alla verità e all’amore si propone lui stesso a noi come ad esempio da imitare: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare”. È come se ci dicesse: “Vedete che portare frutti d’amore è possibile, io ci sono riuscito e se ci sono riuscito io perché non guardate come ho fatto io per fare anche voi come me?”.

E cosa ha fatto Paolo? Cosa chiede ai suoi Filippesi e a noi se non di essere “ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio Padre” (Fil 1,11).

Tutto si ottiene “per mezzo di Gesù” senza di Lui non possiamo fare nulla: “Chi rimane in Me e Io in lui, fa molto frutto, perché senza di Me non potete far nulla” (Gv 15,6). Rimanere in Gesù per portare frutto e così “in Gesù la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i nostri cuori e i nostri pensieri” (seconda lettura).

La Vergine Maria, attraverso la quale il Padre ci ha donato il Figlio, ci insegni e ci aiuti a rimanere nel suo Amore per non deludere più le attese e i desideri che il Padre ha su ciascuno di noi.

Amen.                                                     

j.m.j.

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Ventottesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                        Omelia

Invitati alle nozze 

Carissimi fratelli e sorelle,

Isaia oggi ci ha parlato di “un banchetto di grasse vivande” imbastito da Dio per “tutti i popoli” a Gerusalemme, sul monte Sion: sarà grande festa per tutti, “ogni lacrima sarà asciugata” e non si piangerà più:

«Il tema della «convocazione» e del «raduno» universale percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Dio. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno universale che avverrà alla fine dei tempi. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Dio radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra» – Centro Catechistico Salesiano

Il popolo di Dio, nel Vecchio Testamento aveva raggiunto, attraverso i suoi profeti, la consapevolezza della sua chiamata ad essere lo strumento del raduno universale dei popoli. Diversi sono i passi profetici a riguardo, ne ricordiamo uno particolarmente significativo di Zaccaria:

«Anche popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l'un l'altro: Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti; ci vado anch'io. Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a consultare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore… In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi”» – Zc 8,20-23.

Questa convocazione universale di tutte le genti, in seguito al rifiuto di Israele di accettare Gesù Cristo, si attua nel Nuovo Testamento attorno a Lui, a Gesù Crocifisso che risuscita dai morti effondendo il suo Spirito sulla sua Chiesa che

«…dal giorno della Pentecoste è il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno» – Centro Catechistico Salesiano

Dio Padre dunque ci convoca in Gesù suo Figlio, Egli Lo ha mandato “per radunare i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). La convocazione è per la festa, la gioia, la vita perché in Gesù veniamo ristabiliti nella nostra figliolanza divina e il Padre in Gesù ci abbraccia come figli perduti e finalmente ritrovati (cf Lc 15,24). Quest’unione a Gesù avviene attraverso i sacramenti della Chiesa in cui la nostra vita viene innestata nella vita di Gesù e alimentata e sostenuta perché giunga alla sua maturità e pienezza.

Gesù oggi ha voluto significare tutto questo con la parabola degli invitati alle nozze, che parabola stupenda…, toccante …, commovente…, bella! Questo Re che organizza una mega festa per le nozze del figlio e che vede le sale vuote, i posti vuoti, tutte le portate pronte con cibi prelibati e costosi e nessuno che le mangia…, i suonatori pronti per allietare con le loro musiche gli invitati, ma nessuno ha risposto all’invito…, nessuno danza…, nessuno canta: c’è solo lui, il Re, suo figlio, la sposa e i parenti stretti, tutti gli altri invitati hanno declinato l’invito e sono andati ad occuparsi delle loro cose per loro più importanti che venire a quella festa. Una festa che doveva far esplodere la gioia nei cuori diventa invece occasione di tristezza, di amarezza, di pianto sconsolato. È la tristezza, l’amarezza, il pianto di Dio: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi” (Mi 6,3).

Poveracci, avevano altro da fare che venire alla festa! Erano tutti presi dalle loro cose e cosa si sono perduti! E la storia continua nell’oggi dei tempi che sempre vedono i molti disattendere l’invito divino alla festa perché con la mente e il cuore intenti alle loro cosucce, ai loro problemi, alle loro faccende. Che tragedia! Sì è la tragedia di una vita sprecata, di un cuore chiuso impedito all’amore, di un’esistenza vuota e senza senso, senza perché, senza orizzonti più ampi che la incorniciano e la illuminano.

Ma  la mancata risposta degli invitati non scoraggia quel Re buono che vuole a tutti i costi una festa per il figlio

e allora apre le porte a tutti, non c’è più bisogno di biglietto d’invito, tutti possono entrare alla festa e far festa con lo Sposo. La festa si farà lo stesso e sarà anche più bella!

Sì, la festa si farà: dal momento che il Padre ha deciso le nozze del Figlio con l’umanità, gli invitati non possono non esserci perché essi stessi sono la “Sposa” del Figlio, le nozze li coinvolgono in prima persona perché è loro che il Figlio ha sposato nel seno della Vergine Maria quando per decreto dell’Eterno Padre iniziò la sua avventura di uomo come noi. Facendosi uomo in Maria, il Figlio di Dio ha sposato l’umanità tutta e ha consumato le sue nozze d’amore divino sul talamo nuziale della croce dove è morto dissanguato d’amore con il cuore squarciato dal troppo amore che ci portava, più che dalla lancia romana che Lo trafisse.

La “Sposa” dunque è la Chiesa e attraverso essa l’umanità tutta. Nel s. battesimo siamo diventati la “Sposa” nella s. Comunione consumiamo le nozze con il nostro Dio e Signore Gesù Cristo: Lui si dona a noi con il suo Corpo immolato, il suo Sangue versato, donato…, versato per amore nostro…, per amore mio e noi ci doniamo a Lui nell’impegno concreto di fare la volontà del Padre suo e nostro del Cielo (cf Gv 20,17) lasciandoci plasmare, dallo Spirito Santo, la nostra vita sulla sua, la nostra mente sulla sua, i nostri sentimenti sui suoi, il nostro cuore sul suo cuore e imparare così ad amare come Lui ci ha insegnando dando la sua vita per noi.

Carissimi fratelli e sorelle, riflettiamo un po’ seriamente su questa parabola il cui oggetto è farci conoscere l’amore di Dio e provocare nel cuore nostro una seria risposta d’amore. Ogni domenica abbiamo una concretizzazione reale di questa parabola al suono delle campane di ogni chiesa del mondo dove il Padre ci invita alla festa delle nozze del Figlio e dove ha preparato per noi un “banchetto succulento”, un cibo speciale molto più buono della “manna” che regalò ai nostri padri nel deserto, dove ci regala “il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51), dove ci consegna Gesù suo Figlio come cibo e bevanda di vita, ci consegna Gesù gratuitamente ma non senza che indossiamo l’abito delle nozze!

Ecco la nostra parte nella s. Comunione! Ecco il vestito nuziale che dobbiamo indossare, senza il quale saremo cacciati fuori come quell’invitato della parabola. Chissà a quanti di noi sarebbe piaciuta di più questa parabola senza questa complicazione dell’invitato cacciato fuori! Ci dà fastidio quest’atto di violenza, di forza con cui quell’uomo viene cacciato fuori, ma non ci dà fastidio che quest’uomo non abbia l’abito delle nozze! 

Non basta aver fame per mangiare a quel banchetto! Non basta un bel sentimento per star lì con gli altri a far festa! Non basta! Non basta! Non basta! L’amore di Dio è gratuito, ma esigente, esige l’abito nuziale! Come mangiare la s. Comunione senza abito nuziale? Come ha potuto mai diffondersi così fortemente questo uso scellerato e sacrilego di accostarsi alla Eucaristia senza abito nuziale, con il peccato nel cuore, con il peccato nell’anima, con il peccato nella vita e con una vita anni luce distante dagli insegnamenti del Vangelo? Come è possibile? È possibile per una confusione mentale provocata dalla cultura dominante, nella quale siamo tutti immersi, che fa confondere l’amore con i sentimenti, per cui basta aver un sentimento buono per far credere alla persona di stare amando il Signore e così ingannati dalla superficialità della propria coscienza, si accostano al Sacramento dell’amore credendo, erroneamente, di avere l’abito richiesto per accostarsi. Sì, perché l’abito nuziale richiesto è l’amore, è solo l’amore che mi abilita a comunicarmi al SSmo Corpo e Sangue di nostro Signore. Ma com’è facile ingannarsi sull’amore quando non si conosce né il Vangelo, né il catechismo, né si ascolta la voce della Chiesa. Non c’è amore vero, autentico, cristiano senza l’osservanza dei Comandamenti del Padre, non c’è amore vero, autentico, cristiano senza l’impegno a portare la propria croce, anche grande, pesante, dolorosa dietro Gesù (cf Lc 9,23). Come si fa a dire di amarLo senza osservare i Comandamenti del Padre suo (tutti e non solo qualcuno)? Come si fa a dire di amarLo e aver buttato per la via, alle ortiche, la nostra croce? Come è possibile? Non lasciamoci ingannare dai sentimenti che passano per il cuore, guardiamo ciò che passa nella nostra vita: se passa il peccato non amiamo anche se sentiamo un non so che nel cuore…, non amiamo! Non amiamo il Padre e quindi neanche il Figlio e non abbiamo diritto quindi a fare la s. Comunione perché solo l’amore vero ce ne dà diritto e l’amore, quello vero, è concreto, fattivo, operoso, ubbidiente!

Di fronte alle esigenze forti e impegnative dell’amore cristiano oggi Paolo ci ricorda che non dobbiamo mai spaventarci e gettare la spugna per la nostra debolezza e fragilità morale perché “tutto posso in Colui che ci dà la forza” e questa forza ce la consegna proprio nell’Eucaristia dove il Signore Gesù ci consegna se stesso e tutta la potenza d’Amore con cui ci ha amato e ci ama dall’eternità regalandoci la possibilità concreta di amare come Lui ci ha insegnato nella verità e nella santità.

La Vergine Maria nella quale la Chiesa vede realizzata pienamente e perfettamente la propria vocazione di Sposa immacolata del Verbo ci aiuti e ci insegni a presentarci in Lei e con Lei “quale Vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2) ogni domenica al convito nuziale che il Padre ha preparato per il suo Figlio e per noi.

Amen.                                                                                  j.m.j.

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Ventinovesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                         Omelia

Il dovere della restituzione

Carissimi fratelli e sorelle,

il Vangelo oggi ci parla di uno dei tanti scontri di Gesù con i farisei e gli scribi del tempo. Viene posta a Gesù una domanda con cattiva intenzione, chi gliela pone non cerca la verità, cerca solo di mettere il Signore con le spalle al muro e inchiodarLo costringendoLo ad una risposta che, inevitabilmente, Lo avrebbe posto sotto accusa o dal Sinedrio o dai Romani.

Sono veramente maliziosi, hanno deciso di togliere di mezzo Gesù e ogni mezzo sarà per loro lecito: farLo apparire come un bestemmiatore e farLo quindi mettere a morte dal Sinedrio o farLo apparire come un ribelle rivoluzionario e farLo così mettere a morte dai Romani. Infatti Roma Imperiale esigeva da tutte le popolazioni che sottometteva, tra le altre, una tassa personale annuale di un denaro, nota come il tributo a Cesare o tributum capitis. I contribuenti venivano individuati grazie ai censimenti eseguiti periodicamente (cf Lc 2,2; At 5,37). Questa tassa era fortemente contestata in Palestina soprattutto dagli Zeloti, perché ritenuta un’offesa all’unico Dio, cerchiamo di capirne il perché:

«La questione era se riconoscendo attraverso il pagamento delle tasse l’autorità romana, non si metteva in questione il riconoscimento di Dio esclusivo Signore del suo popolo. Per capire ancora meglio questa difficoltà, teniamo presente che l’imperatore romano andava attribuendosi poteri sempre più invasivi della vita della persona, assumendo sempre più caratteri "divini". Non dimentichiamo che già al tempo di Gesù, in alcune parti dell’Impero si erano elevati templi all’imperatore. Si capisce allora come la domanda fatta a Gesù non fosse di poco conto. E come fosse insidiosa!» – Mons. Carlo Caffarra.

La questione poi si faceva ancora più insidiosa perché sulla moneta c’era stampata l’effige dell’Imperatore Romano, cosa assolutamente sacrilega per un giudeo che non poteva farsi immagine di alcunché per non cadere nell’idolatria (cf Es 20,3). Gesù prende spunto proprio da quest’immagine incriminata per rispondere e ribaltare completamente la questione inserendola in un piano e in una dimensione più profonda spiazzando così del tutto coloro che volevano costringerLo ad una risposta che Lo avrebbe messo nelle loro mani.

“Di chi è quest’immagine e l’iscrizione? Di Cesare. Date dunque a Cesare cià che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Con questa sua profondissima risposta Gesù opera un ribaltamento della questione ponendo il pagamento del tributo a Cesare non sul piano del dare, ma del restituire facendo così anche emergere la radicale povertà della persona umana che è in debito con tutti: con la comunità sociale senza la quale non potrebbe vivere e, ad un livello diverso e più profondo e primario, è in debito con Dio. Si tratta di due ambiti in cui la persona situa se stessa:

«Spesso il brano odierno viene usato per riaffermare e per dare un fondamento biblico, rivelato, alla distinzione e reciproca autonomia tra la Chiesa e lo Stato. Molto probabilmente la risposta di Gesù non aveva questa intenzione: sia per il contesto del racconto, che non esigeva un pronunciamento su questo problema; sia per il contesto storico dei suoi tempi, nei quali non si distingueva ancora tra potere politico e religioso. Ma la risposta di Gesù è ugualmente illuminante perché indica una direzione. Gli Ebrei del tempo di Gesù erano abituati a concepire il regno inaugurato dal futuro Messia nella forma di una teocrazia, cioè come dominio diretto di Dio, tramite il suo popolo, su tutta la terra. La parola di Gesù rivela l’esistenza di un regno di Dio nella storia, nel quale è possibile ad ognuno, e non solo all’ebreo, entrare fin d’ora, senza attendere che si inauguri un ipotetico regno politico di Dio su tutta la terra. Il regno di Dio, infatti, è possibile all’interno di un regno pagano, non meno che nel quadro di una teocrazia, poiché non si identifica né con l’uno né con l’altra. Si rivelano così due modi qualitativamente diversi di dominazione e di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la signoria temporale che egli esercita indirettamente, mediante il libero gioco delle cause seconde» – Centro Catechistico Salesiano.

Ma abbiamo anche altri testi del N.T. che illuminano la tematica toccata dall’odierna pagina evangelica:

«Il primo è di S. Paolo: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non

da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio” [Rm 13,1-2]. L’altro testo è di S. Pietro, e dice: “State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti […] Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re” [1Pt 2,13-17]. In questi testi Paolo e Pietro affermano che l’ordinamento giuridico statale è voluto da Dio stesso perché ci sia una convivenza giusta e pacifica. Non si tratta di ritenere che lo Stato sia l’ultima istanza cui l’uomo sia sottomesso in tutto. Al contrario. Semplicemente si riconosce allo Stato la funzione di difesa del giusto. La cosa si capisce meglio alla luce della prima lettura ascoltata. La parola di Dio, come avete sentito, non ha paura di designare il re Ciro l’eletto del Signore. Il re dei persiani, che né conosce né onora il Dio vero e fa ritornare in patria il popolo d’Israele per ragioni puramente politiche, agisce però come strumento di Dio dal momento che di fatto ristabilisce la giustizia» – Mons. C. Caffarra

Ma se può apparire abbastanza semplice il dovere della restituzione a Cesare di ciò che è suo e quindi il riconoscimento della legittimità del pagamento del tributo all’autorità governativa, la restituzione a Dio di ciò che di suo possediamo, si pone ad un livello più radicale e profondo in quanto non tocca semplicemente i nostri possibili beni, ma la nostra stessa persona. Anzi è proprio bello qui fare l’accostamento tra la moneta romana e la persona: entrambe hanno stampato in se stesse l’effige del loro padrone, la moneta Cesare, la persona Dio, perché appunto creata “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,27), Dio ha “stampato” nell’intimo della persona la sua immagine:

«Questa è la vera questione cui vuole rispondere, la scelta decisiva: che cosa occorre rendere a Dio. A Cesare spetta una cosa, la moneta. A Dio spetta la persona, con tutto il suo cuore, con tutta la sua mente, con tutte le sue forze. Io, come talento che porta l'effigie di Dio, devo restituire niente di meno di me stesso. Devo restituire la mia vita, facendo brillare l'immagine coniata in me, progressivamente, finalmente uomo. Restituite a Dio ciò che è di Dio. Parola che dice a Cesare: non prendere l'uomo. Non rubare l'uomo. L'uomo è cosa di un Altro. Cosa di Dio. A me dice: non iscrivere appartenenze nel cuore che non siano a Dio. Libero e ribelle a ogni tentativo di possesso, ripeti a Cesare: io non ti appartengo. Proclama le opere meravigliose di Dio, non quelle di Cesare. Non vivere senza mistero. Senza lo stupore di essere vivo» P. Ermes Ronchi.

La consapevolezza della nostra radicale povertà e dipendenza da Dio nostro Padre Creatore è fondamentale e necessaria per l’edificazione della nostra vita spirituale: “Cosa devo rendere a Dio?”, “tutto”! “Tutto” perché “che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1Cor, 4,7). “Tutto” abbiamo ricevuto da Dio come dono del suo amore e “tutto” Egli ci ha donato per suscitare in noi l’amore e quindi realizzassimo nell’amore il “ritorno” di questo “tutto” ricevuto, senza questo ritorno la nostra vita –  cioè il nostro “tutto”! non ha senso, è vuota, immessa in questo ritorno essa prende significato e valore.

Incapacitati a ritornare a Dio l’amore ricevuto – in seguito alla disobbedienza e volontà di vivere tenendosi qualcosa per sé da parte dei nostri progenitori – siamo stati redenti e salvati da questa incapacità da Dio stesso che ha mandato il suo Figlio, il suo unico Figlio perché attuasse Lui quello che noi eravamo incapaci di attuare e potessimo così, nel Figlio, ritornare a Lui quel “tutto” che ci eravamo tenuti indebitamente per noi, quel “tutto” che siamo essenzialmente noi stessi. Per mezzo di Gesù “tutto” ridiventa veramente nostro e “tutto” può essere “ritornato” al Padre nell’amore: “Tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Con la sua morte in croce il Figlio di Dio spogliandosi di “tutto”, della sua divinità e della sua vita umana (cf Fil 2,7-8), non tenendosi assolutamente nulla per sé attua il “ritorno” al Padre di “tutto” il cosmo creando come un vortice di amore che vorrebbe risucchiare “tutto” in Sé per farlo ritornare al Padre.

La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale ci aiuti ad inserirci sempre più intimamente in questo vortice d’amore che ci ha abbracciati nel s. Battesimo e che in ogni Eucaristia desidera avvincerci sempre più fortemente per attrarci al Padre insieme all’offerta che Gesù ha fatto di Sé “una volta per sempre” (1Pt 3,18) inchiodato alla croce dall’amore che ci ha portato e ci porta e che chiede incessantemente una nostra adeguata risposta.

Amen.                                                              j.m.j.

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Trentesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                              Omelia

Il “primo”comandamento 

Carissimi fratelli e sorelle,

il Vangelo odierno ci presenta ancora una discussione tra Gesù e un fariseo che vuole “metterlo alla prova”, cioè desidererebbe incastrarLo con una domanda che Lo spinga a dire qualcosa di sbagliato per poi poterLo accusare. Domenica scorsa la domanda postaGli riguardava la legittimità del tributo dovuto a Cesare, oggi la domanda verte su qual è il comandamento più importante. 

«I rabbini avevano raccolto la legge di Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa ("non devi"), tanti quanti i giorni dell'anno, ed erano considerati lievi. I rimanenti 248, in forma positiva ("devi"), tanti quanti le membra del corpo umano secondo la concezione di allora, ed erano ritenuti gravi. Con questi numeri si voleva indicare simbolicamente che l'uomo nella totalità della sua persona, nell'intero arco della sua esistenza e nello spazio della sua attività deve essere tutto proteso verso Dio e pronto ad attuare la sua volontà, espressa nella Legge. I maestri ebrei cercavano anche, nella serie interminabile dei precetti, di individuarne uno che in qualche modo li riassumesse tutti e così, osservandolo, si potesse osservare tutta la legge. Per es. il famoso maestro Hillel, di poco anteriore a Gesù, aveva sintetizzato il contenuto della Legge nel "Non fare al prossimo tutto ciò che è odioso a te…"» – Mons. Ilvo Corniglia.

Spesso chiedo, dialogando con la gente, specialmente i giovani, quale è la cosa più fondamentale che il Signore Gesù ci abbia insegnato. La risposta finora è stata più o meno la stessa: “Ci ha insegnato ad amare tutti… a volerci bene” e così via. Risposta apparentemente vera, ma fondamentalmente inesatta perché dimentica dell’amore per il Padre che è l’asse verticale reggente quest’amore orizzontale:

«"Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti". Si deforma il pensiero di Gesù quando si dice che la vita cristiana è solo amore fraterno. La risposta di Cristo riflette la sua vita. Egli è stato l'uomo tutto rivolto a Dio: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 4,34). Certamente il grande e primo amore di Gesù è Dio, suo Padre. Solamente al vederlo pregare, impressionava: erano spazi che privilegiava. Fin dall'adolescenza aveva chiara coscienza che "doveva occuparsi delle cose del Padre suo" (Lc 1,49). E "con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente", cioè con pienezza di passione e coerenza di vita. Quel "tutto" ripetuto tre volte dice l'assoluta esclusione di ogni altro idolo: il denaro, il sesso, il potere, l'interesse, l'orgoglio…! Una radicalità che ci interpella: il tuo stile di vita manifesta in modo totale che Dio è il tuo solo Dio? Il tuo vestire, la tua casa, il tuo lavoro… manifestano che tu ami Dio? che Dio è il tuo vero bene, che non puoi perdere? Tendi verso di Lui pur dovendo utilizzare altri beni intermedi e vivere altri amori? Solo questo del resto dà senso alla vita. Dio s'è comunicato all'uomo per avere da lui una risposta d'amore e di vita. Dio si rivela all'uomo per chiamarlo ad un dialogo e ad una partecipazione piena alla sua vita intima, entro la Trinità. Questo è l'unico e vero destino d'ogni persona, l'unica sua riuscita e felicità: "Come tu, Padre – prega Gesù – sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola" (Gv 17,21). Amare Dio non è un di più, ma costituisce l'anima d'ogni altra attività, la cornice che dà sostegno al quadro. Solo questo itinerario matura la nostra identità interiore. "Ci hai fatti per te, Signore e niente ci realizza al di fuori di te" (sant'Agostino)».

Don Romeo Maggiori.

«Il "cuore, l'anima, la mente" non designano tre facoltà differenti, ma l'uomo intero secondo dimensioni diverse: il "cuore" è il centro profondo della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l'"anima" indica l'intera sua esistenza sostenuta e permeata dal soffio vitale; la "mente" esprime la sua attività intellettuale. Tutta la realtà dell'uomo, tutto il suo essere Dio lo vuole interamente ed esclusivamente per sé…"» – Mons. Ilvo Corniglia.

L’amore per il prossimo, questo “secondo comandamento simile al primo”, è una verifica continua e insieme un complemento necessario del nostro vivere nell’amore del Padre e per il Padre. Per questo Gesù ne parla pur non essendoGli stato chiesto di parlarne – la domanda riguardava solo il primo, non il secondo comandamento! – esso è troppo unito al primo per poterlo sottacere come ben ricordano s. Giovanni e s. Giacomo nei loro scritti:

1Gv 4,2021: …Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti 

non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.

Gc 2,15-17: Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa.

Possiamo notare ancora come 

«…la novità e l'originalità di Gesù non sta soltanto nell'aver rivelato e insegnato l'unità di questi due comandamenti. Sta anche nel fatto che nessuno li ha vissuti così perfettamente come Lui. […] Mai aveva amato in tale misura gli uomini. Mai prima né mai dopo.  Di conseguenza amare per il cristiano, più che osservare un comandamento, è imitare una persona, Gesù. È fare come Lui.     È imitare il Padre (cfr. Mt 5, 43-48)» – Mons. Ilvo Corniglia.

Dal duplice comandamento dell’amore nasce quella che viene chiamata “Regola d’Oro” dell’agire morale espressa  già nel Vecchio Testamento, ma in forma negativa: “non fare a nessuno quello che non vorresti fosse fatto a te” (Tb 4,15) che sta alla base di ogni convivenza civile. Gesù innalza questa norma alle sublimi altezze del suo amore divino promulgandone anche la forma positiva: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti” (Mt 7,12). Propriamente in questa positività di amore che si allarga e distende su tutti, possiamo riscontrare la specificità dell’amore insegnatoci da Gesù.

Un'altra osservazione. Noi cristiani amiamo il prossimo, o meglio dovremmo amare il prossimo, con una modalità nuova e specifica dovuta anche all’avvenuta riconciliazione con noi stessi nell’esperienza dell’amore misericordioso del Padre. Il perdono che Egli ci ha donato nel Sangue Preziosissimo del suo Figlio Gesù, ci ha permesso di riconciliarci con noi stessi, accogliendoci e perdonandoci perché accolti e perdonati dal Padre. Questo fatto ci permette di relazionarci con il prossimo con l’atteggiamento di chi rende partecipi gli altri di ciò che, senza merito, ha ricevuto per primo. Infatti, stupiti e commossi da tanto amore ricevuto dal Padre in modo assolutamente gratuito, senza alcun nostro merito, come possiamo poi non amare tutti (cf Mt 18,23-35)? L’esperienza, inoltre, ci dice che troppo spesso quando sono chiuso all’amore verso il prossimo, quando sono astioso, duro, acido e senza cuore, la causa di questi atteggiamenti negativi risiede nella mancanza di amore verso me stesso, rifiuto gli altri perché non ho accolto me stesso! Vivo un sotterraneo rifiuto di me stesso che si scarica esternamente sotto forma di rifiuto degli altri. Solo la scoperta della misericordia di Dio per me, potrà liberarmi, frantumando il mio cuore di pietra e innestando in me un cuore nuovo capace di amare nella tenerezza (cf Ez 11,19):

«Quando l’anima conosce la somma bontà di Dio, essendosi ritrovata come annegata in un abisso d’amore nel quale si sente amata ineffabilmente da Lui, sente che il cuore e il sentimento si dilatano e dilatandosi sollecitano l’intelletto a conoscere più profondamente questo amore, la memoria a ritenerlo in sé senza dimenticarlo e la volontà ad amare ciò che Egli ama. E l’anima dice e grida: “O dolce Dio, che ami Tu di più?”. Risponde il dolce Dio nostro: “Guarda in te stessa, e troverai quello che Io amo”. Allora, guardate in voi stessi – figliuoli miei carissimi – e troverete e vedrete che con quella medesima bontà e ineffabile amore con cui Dio ama voi, con quel medesimo amore ama tutte le altre creature dotate di ragione. Onde l’anima come innamorata si eleva e si dispone ad amare quello che Dio ama: i dolci fratelli nostri. E si eleva con tanto desiderio e concepisce tanto amore, che volentieri darebbe la vita per la salute loro, e per restituirli alla vita della Grazia». – S. Caterina da Siena, Lettera 134.

S. Paolo che nella seconda lettura odierna propone ai Tessalonicesi se stesso, insieme a Gesù, come modello da imitare, ci mostra concretamente nella sua propria esperienza di conversione, che è veramente possibile diventare capaci di amare come Gesù ci ha insegnato e come Gesù stesso ardentemente desidera vedere vissuto da tutti (cf Lc 12,49). Infatti:

«[…] tale amore, impossibile alle sole forze umane, il Padre e Gesù ce lo comunicano, donandoci il loro Spirito. Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo è chiedere tale capacità d'amare.  L'Eucaristia, poi, è memoria e presenza dell'amore a Dio e agli uomini che Cristo ha vissuto in modo supremo nella sua Pasqua. È da qui che attingiamo la medesima capacità d'amare. L'Eucaristia è Gesù "pane spezzato" per l'intera umanità. Come Lui e con la forza dello Spirito Santo che Egli ci comunica, anche noi siamo chiamati a diventare "pane spezzato" per gli altri» – Mons. Ilvo Corniglia.

La Vergine Santa che mai dubitò della potenza ineffabile dello Sp. Santo (cf Lc 1,37), ci aiuti a disporci nella fede e nella speranza, dilatando il nostro cuore a ricevere l’Amore che solo può farci amare nella verità e nella santità. Amen.                                                           j.m.j.

 

 

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Trentunesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                           Omelia

“Fate quanto vi dicono…” 

Carissimi fratelli e sorelle, 

giornata dura per noi preti oggi con una Parola di Dio così ripiena di rimproveri verso la classe sacerdotale. 

Abbiamo ascoltato le parole dure di Malachia nei confronti dei sacerdoti del tempo che erano diventati “d’inciampo a molti” per il loro agire morale, tutti presi dalle loro cose personali “non prendevano a cuore la gloria di Dio”

Abbiamo ascoltato le sferzanti parole di Gesù rivolte “agli  scribi e ai farisei” che erano coloro che, insieme ai sacerdoti, si ritenevano i conoscitori più profondi di Dio e gli adoratori più santi di Lui: “Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno”. Da sempre, da quando il Signore Gesù pronunciò queste pungenti parole, esse vengono riferite primariamente a noi del clero e secondariamente a tutti i cristiani.

Ebbene vorrei fare due osservazioni particolari intorno a questa frase di Gesù:

  • La prima: nessuno può prendere a pretesto le mancanze morali del prete per giustificare le proprie personali immoralità. Il cattivo esempio del ministro di Dio non giustifica il fedele a fare altrettanto. Gesù è chiaro in questo: “Non fate quello che fanno!”. Non abbiamo dunque scuse al disimpegno morale!
  • La seconda: la vera disgrazia che possa capitare al popolo di Dio non è quella di non avere preti santi, ma quella di avere preti senza scienza, senza dottrina. Allora è un disastro perché non solo non si ha l’esempio di vita, ma neanche l’indicazione teorica della verità. Allora è lo sfacelo: 

“Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti. Voi invece vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d'inciampo a molti con il vostro insegnamento” – Ml 2,7-8

Ma neanche in questo caso i fedeli sono giustificati del tutto nel non vivere nella verità, perché se è vero che è possibile – purtroppo! – che esista qualche prete che non insegni secondo la dottrina della Chiesa – cosa che un giorno giurò di fare sempre! – nessuno è scusato di non conoscere il pensiero della Chiesa, perché esso è accessibilissimo a tutti nel suo Catechismo. Per cui, quanto più è alto il mio grado di cultura umana e di conoscenza delle cose del mondo: mondo della cultura, della scienza, dello spettacolo, dello sport e via dicendo, quanto più è grave e colposa è la mia ignoranza del Catechismo.

  • La terza: è che ci sarà sempre una distanza tra la Parola annunziata dall’ambone e quello che il prete vive nella sua concretezza esistenziale. Le esigenze della Parola indicano inevitabilmente qualcosa di più alto di ciò che egli vive, per cui il Vangelo mette in discussione prima di tutto la vita di chi l’annunzia.

Come annunziare dunque agli altri ciò che personalmente non si riesce a vivere in pienezza? Certamente una delle qualità che ogni buon prete dovrebbe avere è la “faccia tosta”, perché sa che, sempre, qualcuno che ascolta le sue prediche potrebbe rinfacciargli di essere un ipocrita che non vive ciò che predica! Solo un amore grande e appassionato per Gesù e per le anime può spingere una persona a salire su un ambone e predicare una parola che è un atto di accusa alla sua stessa vita. Per questo il prete non può non essere umile, piccolo, il più piccolo di tutti perché conosce bene quel baratro che c’è tra l’annuncio della Parola e la difficoltà concreta di incarnarla nella vita e in questo egli è in pieno un membro del popolo di Dio, come tutti gli altri, che cammina con gli altri fratelli in un cammino di conversione continuo alla Parola. Cammino che non è esente da pause di stanchezza e cadute anche pesanti. Ma finché egli saprà guardare verso Gesù Verità e non ricuserà di additarLo come l’unico Salvatore di questa nostra povera umanità, saprà ritrovare la forza e lo slancio di correre nella corsa della santità trascinando con sé molti. Infatti il sacramento della penitenza è per tutti nella Chiesa, ma i primi beneficiari di esso sono proprio i preti stessi! 

Il discorso di Gesù all’élite religiosa del tempo che abbiamo ascoltato, oltre all’ipocrisia, prese di mira anche la vanagloria e il gusto del potere. Nessun cristiano può dirsi di non sentirsi toccato e messo in discussione in profondità dalle sue parole:

«Il vangelo elenca tre errori che svuotano la vita. L'ipocrisia: dicono e non fanno. L'incoerenza è dentro di me, parte della mia vita. Eppure, non è l'incoerenza di chi è ancora lontano dalla Sua statura che Gesù condanna, ma l'ipocrisia dei pii e dei potenti, di chi non si sforza più, e lo giustifica. La vanità: tutto fanno per essere ammirati. Tutto, perché lo spettacolo sia applaudito. Conta ciò che gli altri vedono di me, io non sono che la mia immagine, sempre più straniera; vivo di riflesso, di echi, mi angoscia o mi esalta il giudizio degli altri. Vanità, che rende vuoto l'intimo.  Il gusto del potere: impongono pesanti fardelli a tutti. Ho forse bisogno anch'io di abbassare qualcuno per sentirmi superiore? Di far chinare teste per sentirmi grande? Di essere severo, per sentirmi giusto? Il Vangelo offre altre regole per la verità della vita: l'agire nascosto invece dell'apparire, la semplicità invece della doppiezza, il servizio invece del potere. Il più grande comandamento, diceva Gesù, è «Tu amerai». Il più grande tra gli uomini, dice ora, è colui che traduce l'amore nella divina follia del servizio: il più grande tra voi sia vostro servo. Il folle in Cristo è ormai il più intelligente. Paradosso del vangelo, invocato da molti: «Io mi aspetto che i cristiani ogni tanto accarezzino il mondo contro pelo» (Sciascia). Questa è la strada contromano di Gesù: Dio non tiene il mondo ai suoi piedi, è ai piedi di tutti. Dio non è il Padrone dei padroni, è il Servitore che in Gesù lava i piedi ai discepoli. Non è semplicemente il Signore della vita, è di più, il Servo di ogni vita. I grandi del mondo si costruiscono i loro troni, Dio non ha troni, cinge un asciugamano e vorrebbe fasciare tutte le ferite della terra. Dio come un servo: che non esige, sostiene; non pretende, si prende cura; non rivendica diritti, risponde ai bisogni. Servitore ineguagliabile. E se una gerarchia nella Chiesa deve sussistere, sarà rovesciata rispetto alle norme della società terrena: Voi siete tutti fratelli. E poi rovesciata di nuovo, da Cristo, che si è fatto fratello, ma poi da fratello si è fatto ultimo. Gesù cambia la radice del potere, la capovolge al sole e all'aria. E rivela che ogni uomo è capace di potere se è capace di servizio. Servizio: questo il nome nuovo, il nome segreto della civiltà, perché questo è lo stile di Dio».

P. Ermes Ronchi – Omelia della Dom. XXXI “A”  del 3/11/2002.

S. Paolo, nella seconda lettura, oggi ci mostra in sé la realizzazione piena della figura del ministro del Vangelo, del pastore di anime, di colui che vive totalmente impegnato per la gloria di Dio, per diffondere il suo Regno, farLo conoscere nella verità e farLo amare con quell’amore che è a Lui dovuto in quanto Dio e Signore della vita. Paolo insegna ai ministri del Vangelo di tutti i tempi, come questo zelo per la gloria di Dio e il suo Regno vada vissuto non nello spirito di un annuncio freddo e distaccato, ma nello spirito di un annuncio caldo e “amorevole” che sgorga da un cuore squarciato dall’amore di Gesù, cioè da quello stesso amore che portò il Figlio di Dio a farsi uomo: amore per il Padre, amore per ogni uomo. Di questo duplice amore dovrebbe essere ripieno il cuore del ministro di Dio per poter amare con tenerezza paterna e materna (come è l’amore di Dio per noi) ogni pecora del suo gregge: “Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari”.

Com’è forte questa espressione: “Ci siete diventati cari!”. Guardate che maturità d’amore che aveva raggiunto Paolo nel suo cammino di conversione all’amore di Gesù e quale esempio dà a noi preti per il nostro ministero dove abbiamo la tentazione continua di servire tutti, di amare tutti senza però compromettersi affettivamente con nessuno, di amare cioè con distacco, con freddezza senza una vera partecipazione affettiva personale. Non ha amato così Paolo perché aveva imparato bene la lezione dal suo Gesù, il nostro unico Maestro di amore che ama le sue pecorelle una per una e le conosce tutte per nome (cf Gv 10,23), che ama ciascuno di noi con l’affetto infinito di Dio, con la passione infinita di Dio, con l’ardore infinito di Dio. Alla beata Angela da Foligno il buon Gesù un giorno disse: “Non ti ho trattata con distanza” e neanche noi tratta con distanza, con distacco, Egli desidera entrare in intimità d’amore con tutti. 

È proprio di Dio amare così, Egli ama con tutto se stesso, ama tutti e ognuno con tutto se stesso, per questo non c’è nessuno che possa dire di essere amato in misura minore di altri, perché ciascuno è amato da Lui con tutto se stesso. Tutto l’essere di Dio viene compromesso nel dialogo d’amore con la sua creatura e non potrebbe altrimenti perché una delle proprietà peculiari di Dio è di essere semplice, non composto, per cui non può amare parzialmente, se amasse parzialmente non sarebbe Dio.

È proprio di noi esseri umani così frammentati e divisi, amare parzialmente, per questo quanto più ci avviciniamo a Dio e veniamo assimilati a Lui nell’amore, quanto più veniamo unificati interiormente e capacitati ad un amore più coinvolgente e totale.

La Vergine Maria, Regina e Madre di ogni cristiano, ma soprattutto di ogni sacerdote, ci aiuti a realizzare nella concretezza della nostra vita, per la forza dello Spirito, un amore grande, forte e coerente per Gesù a gloria del Padre suo e nostro.

Amen.                                                               j.m.j.

 

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Trentaduesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                             Omelia

La porta chiusa 

Carissimi fratelli e sorelle,

volgiamo al termine dell’anno liturgico e la Chiesa nella sua pedagogia spirituale ci invita a volgere lo sguardo della nostra mente e del nostro cuore al Cielo. Oggi più che mai abbiamo bisogno di levare i nostri occhi al Cielo, sempre più bombardati di terra rischiamo di essere invasi, sommersi e immobilizzati dal fango.

Questa nostra bellissima terra nella quale viviamo e nella quale moriremo, con le sue gioie che passano, le sue ferite che rimangono, con i suoi problemi, le sue ansie, i suoi travagli, i suoi successi, i suoi fallimenti… Questa terra che vorrebbe impedirmi di levare gli occhi al Cielo incantandomi la mente e ingolfandomi il cuore con ciò che passa, passerà, ma il Cielo no!

Oh, se provassimo più spesso a condirla di Cielo questa terra così fangosa! Nelle vicissitudini della vita, nelle scelte piccoli o grandi che si impongono a noi, nelle disgrazie e nelle disavventure che mai non mancano così come nelle gioie più profonde che essa qua e là ci riserva, uno sguardo al Cielo, al Cielo che ci aspetta e dal quale aspettiamo il Signore Gesù, come tutto sarebbe più bello, più semplice, più fecondo, più ricco e in tutti gli eventi difficili godremmo della consolante speranza del Cielo che ci aspetta e che ci riserva un futuro senza fine di pace e gioia.

L’eternità…, un per sempre che non avrà mai fine…, mentre qui tutto passa – tutto! – per questo…

“… non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” – 1 Gv 2,15-17.

La tentazione più forte che subiscono l’uomo e la donna di tutti i tempi è quella di vivere senza pensare al destino eterno che li attende, con il forte rischio di sciupare tutta un’eternità per il sollievo di un momento: che sciocchi!

La prima lettura è tutto un invito a cercare la sapienza, ma quale sapienza? Cos’è questa sapienza? Essa è una particolare luce interiore che illumina la nostra mente sul significato della nostra vita, su ciò che vale veramente e su ciò che non vale, su ciò che ci abbruttisce e ciò che ci abbellisce, su ciò che è vero e ciò che è falso e illuminando la mente, riscalda il nostro cuore e lo indirizza ad abbracciare solo ciò che è buono, bello, giusto e santo. 

Questa sapienza è facile da ottenere, basta solo chiederla, invocarla e cercarla con sincerità e la si troverà, parola di Dio! Così infatti abbiamo letto: 

“La sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l'ama  e trovata da chiunque la ricerca… Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei, appare loro ben disposta per le strade, va loro incontro con ogni benevolenza”. 

Chi è dunque il sapiente, il saggio di questo mondo? È colui che cerca il senso ultimo del suo vivere e non si accontenta di risposte parziali e monche che sorvolano le domande fondamentali e chiudono gli occhi a tutto ciò che vorrebbe aprirci ad orizzonti eterni. È facile dunque diventare sapienti, non è difficile. L’abbiamo già in noi come seme in quell’intelligenza che ci fa superiori ad ogni altra creatura visibile, basta imparare ad usarla rettamente e lasciarsi guidare dai suoi giudizi che illuminano la nostra coscienza. 

Ma questa facilità viene ad essere intralciata, inabilitata, resa difficile dalle nostre “voglie”, dai nostri “affetti e legami” disordinati, dalla fame che hanno i nostri “sensi” di trovare una loro sazietà che quanto più viene appagata quanto più affama. Quando l’intelligenza non è mossa dalla ricerca sincera e spassionata della verità, inciampa e devia il suo cammino verso l’autoinganno che giustifica come buono, bello, giusto, vero e addirittura “santo” ciò che alletta i nostri sensi, ciò che smuove i nostri sentimenti e che vorremmo abbracciare e far nostro a tutti i costi perché ci piace e vorremmo possederlo, assaporarlo, goderlo.

Quando una persona si lascia andare ad appagare disordinatamente i propri desideri facendo ciò che è male e non degno di lei, vinta dalla propria debolezza morale, finché si riconosce per quella che è, e cioè povera, fragile, peccatrice, quella persona è sulla via della salvezza, Gesù infatti è venuto proprio per i poveri peccatori, non per i giusti né per i santi (cf Mc 2,17). Ma quando la persona, stanca di guardarsi brutta, non sopportando di riconoscersi per quella povera miserabile che è, comincia ad autogiustificarsi prendendo a scusante del suo agire diritti e libertà che non ha, chi la salverà? Chi la salverà? Gesù è l’unico salvatore del mondo, non ce ne sono altri, e Lui salva solo i poveri peccatori, non salva chi si riconosce a posto, chi non ha nulla da farsi perdonare, chi è già giusto e santo per conto suo.

Carissimi fratelli e sorelle vorrei pormi e porgere a voi una domanda, questa: Che cos’è questa salvezza che Gesù ci offre? 

Cerchiamo di rispondere. La “salvezza” è innanzi tutto qualcosa che Gesù “offre gratis a tutti”, cioè ci porge, ci invita a far nostra gratuitamente, ma non ci “obbliga” ad accettare il dono, la “salvezza” può essere disattesa, rifiutata, respinta. La persona sapiente accoglie la salvezza, la persona stolta la rifiuta. La “salvezza” in sé poi possiamo considerarla sotto due aspetti fondamentali:

  1. Essere salvati vuol dire essere introdotti nella vita eterna, nella vita beata del Paradiso. Vuol dire realizzare quel desiderio di “stare sempre con il Signore” (seconda lettura) che non fu solo un desiderio di Paolo, ma ogni persona umana se lo porta nel più profondo del cuore perché siamo stati pensati, voluti e creati per stare con Lui e “il nostro cuore non potrà mai avere pace finché non riposa in Lui” (S. Agostino). Rifiutare la salvezza quindi significa entrare nell’“inferno”, nella dannazione eterna di sé, nel fallimento eterno della nostra esistenza. Quanto è sapiente per la persona riflettere su questo! Gesù lo sa, per questo oggi ci ha raccontato la parabola di queste cinque vergini “stolte a cui la porta non verrà aperta in eterno. Non è per spaventarci, ma è per ammonirci e ricordarci che quaggiù ci giochiamo lassù, ma quaggiù dura un soffio, lassù dura in eterno. Se questo pensiero ci accompagnasse sempre, tanti errori e tante scelte sbagliate non le faremmo!

Occorre anche considerare come la vita beata e la vita dannata non sono semplicemente delle realtà ultime e definitive che incontreremo dopo la morte, ma esse iniziano “già” quaggiù. Infatti “già” quaggiù noi possiamo essere “sempre con il Signore”. Infatti “già” quaggiù noi possiamo vivere con Lui e Lui vivere con noi, “già” quaggiù noi possiamo vivere in Lui e Lui vivere in noi (cf Gv 6,56) e questo lo possiamo realizzare vivendo “per” Lui, orientando la nostra vita al Signore, trovando in Lui la motivazione prima e ultima della nostra vita, e allora se noi vivremo “per Lui” anche Lui vivrà “per noi”  (cf Gc 4,8). Certamente è un “già” che porta in sé un “non ancora” pienamente e perfettamente, che ci fa sospirare e vivere di speranza, ma è un “già” reale in cui godiamo “già” delle gioie del Paradiso nella “caparra dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto nei nostri cuori” (2Cor 1,22).

  1. L’altra dimensione della “salvezza” consiste nel fatto che la persona “salvata” è la persona che vive la pienezza della proprio essere, della propria bellezza, della propria dignità, del proprio valore. Entrare nella “salvezza” significa entrare in possesso pieno di noi stessi così come fummo pensati da Dio. Per questo annunciare il Vangelo non significa solo cercare di salvare le persone dalla dannazione eterna, ma anche salvarle dall’ignoranza della propria dignità e gloria, salvarle dall’abbassamento di sé in ciò che abbruttisce e impoverisce la persona di dignità e valore. 

Vera sapienza dell’uomo è dunque cercare questa “salvezza” così facile da trovarsi perché Dio è così desideroso di donarcela: gioia di Dio è salvare l’uomo perduto (cf Lc 15,7.10.22-24). Per esprimere e manifestare questa gioia di Dio, Gesù Salvatore si presenta a noi come lo Sposo che viene a celebrare le sue nozze. La salvezza è una festa di nozze, un banchetto nuziale a cui tutti sono invitati, ma per parteciparvi bisogna avere l’“abito nuziale” (Mt 22,12) e la “lampada accesa” come ricorda il Vangelo odierno: guai a chi viene trovato senza l’abito nuziale o con la lampada spenta, cioè senza l’umiltà e l’amore.

La Vergine Maria, Vergine Sapiente per eccellenza, ci insegni e ci aiuti ad essere trovati così, pronti e vigilanti, non dimentichi del Cielo e verso di Esso incamminati nell’amore. 

Amen.    

j.m.j

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Trentatreesima del Tempo Ordinario – Anno “A”                                     Omelia

La fiducia di Dio 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

«Questa trentatreesima domenica del tempo ordinario ci aiuta a predisporci per la solennità di Cristo Re dell'Universo. Il giorno del Signore – ci dice Paolo nella lettera ai Tessalonicesi – arriverà come un ladro, inaspettatamente e, per ciò, dobbiamo vigilare e vivere prudentemente per non esser sorpresi (seconda lettura). Il Vangelo paragona la vita umana a un dono fatto da Dio, perché dia frutto. Creandoci, Dio ha voluto condividere con noi qualcosa di se stesso. 

Egli desidera che anche la sua creatura diventi "dispensatrice di bene". Perciò, la cosa più sensata che si può fare della propria vita è usarla per produrre frutti abbondanti di carità; "procacciarsi buoni affari" coi talenti ricevuti; mettere in gioco tutte le capacità dell'intelletto e della volontà per produrre quei frutti che Dio si aspetta da noi. Perciò, ciascuno coi propri doni ricevuti deve mettersi al servizio degli altri, con la chiara coscienza che il Signore ritornerà e che dovremo rendere conto, non delle nostre intenzioni, bensì delle opere realizzate (Vangelo). 

Il Libro dei Proverbi ci mostra l'esempio di una donna che mette a frutto la propria vita e le proprie qualità. Si tratta di una donna operosa, attiva, laboriosa nella carità, diligente nell'operare. Non è restia, vanitosa o egoista. La sua speciale sensibilità non la sfrutta a proprio vantaggio, ma lavora con le sue mani e stende le sue braccia ai bisognosi. Chi trova una donna così, trova un tesoro (prima lettura – Totustuus – Omelia XXXIII Dom. (2002).

Ciò premesso, riflettiamo su questa parabola dei talenti, stupenda perla evangelica, che Gesù oggi ha proposto alla nostra riflessione e che abbiamo appena finito di proclamare.

«Se vi ricordate, la pagina evangelica domenica scorsa terminava con queste parole di Gesù: "Vigilate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora". Anziché tenerci occupati in questioni su quando finirà il mondo; anziché addormentarsi nella neghittosità di una vita vissuta come se non dovesse mai terminare, è meglio utilizzare il presente. La nostra preoccupazione, la nostra vigilanza deve riguardare le cose da fare ora; ciò che conta è rispondere al richiamo dell’ora: di ogni ora che ci è dato di vivere. È questo il significato fondamentale della parabola evangelica: il giudizio che il Signore darà di ciascuno di noi, quando verrà, dipenderà essenzialmente dalla utilizzazione delle possibilità presenti. Facciamo attenzione, dunque, carissimi fedeli, alle figure essenziali della parabola ed al loro comportamento: il padrone, i primi due servi, il terzo servo. Il padrone della parabola è Cristo stesso. Quale è il suo comportamento? Egli dona grande fiducia ai servi poiché affida loro tutto il suo patrimonio. Ciò che è fondamentale è che Egli, benché assente (visibilmente), continua ad essere "il padrone", e – soprattutto – che Egli ritornerà. Quando e come non interessa: il suo ritorno è certo. La vita che viviamo ora è in vista di quel ritorno, perché in quel momento dovremo rendere conto del patrimonio ricevuto». Mons. C. Caffarra – Om. XXXIII Dom. (2002).

Sì, il padrone della parabola ha una grande fiducia nei suoi servi: consegna loro tutto il suo patrimonio: otto talenti. Un talento corrispondeva a 600 denari e un denaro era la paga giornaliera di un operaio, per cui il servo che ricevette di meno, un talento, ricevette il corrispondente della paga di un anno e mezzo di lavoro.

Quanta fiducia il buon Dio ha verso ciascuno di noi? Di quanti doni personali naturali ci ha sommersi? E che dire poi dei doni soprannaturali della sua grazia? Quanta liberalità c’è nel cuore di Dio! Egli dona a larghe maniche e dà fiducia a tutti! E in ogni dono è Lui stesso che si dona e si comunica a noi! 

Tutti ricevono tanto, ma non tutti si comportano allo stesso modo e così la parabola ci mostra due servi che trafficano ciò che hanno ricevuto e un servo no, lo mette sotto terra per restituirlo intatto al padrone quando ritornerà. 

Qui sono manifeste due prospettive totalmente diverse: i primi due servi ricevono quanto viene loro consegnato come un “compito”, una “missione”. Da quel momento la loro vita è tutta orientata a far fruttificare ciò che hanno ricevuto. In quella consegna ricevuta hanno compreso esservi il senso profondo della loro stessa vita.

Il terzo servo vive la consegna in una prospettiva diversa, non scopre in essa un “compito”, una “missione”, ma un peso, un fastidio, un intralcio alla propria vita, per cui sotterra il talento ricevuto. Gli è scomodo recarlo con sé, preferisce nasconderlo per eventualmente restituirlo quando fosse che il padrone glielo chiedesse. La vita di questo servo non è stata cambiata in nulla da ciò che ha ricevuto, anzi ne è stata disturbata.

Nel dialogo, al ritorno del suo padrone, scopriamo un altro particolare di questo servo: nutriva un po’ e forse anche molta rabbia contro il suo padrone, lo giudicava malamente e lo reputava ingiusto: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Vedete bene come quest’atteggiamento richiama gli operai brontoloni della prima ora dell’altra parabola degli operai presi a giornata a diverse ore del giorno, che accusano il loro padrone di non essere stato giusto con loro (cf Mt 20,11-12) e, richiama anche, il fratello maggiore che s’arrabbia perché papà fa festa per il fratello debosciato (cf Lc 15,28) in quella più famosa del figliol prodigo.

Si tratta di persone che si relazionano con Dio come creditori, è Dio che ha un debito con loro non loro con Dio: «Per quale motivo pretendi che io traffichi il tuo talento?… Quale diritto hai tu a prenderti il di più?… Io voglio vivere la mia vita senza dovere stare a perdere tempo per i tuoi talenti… Fatica, sforzo, sacrifici… e che me ne viene a me? Servirti trafficando i tuoi talenti è rendere oppressiva la mia vita… significa rinunciare alla mia gioia e felicità…». Per quanti ieri e oggi Dio è visto proprio così? Ma questa prospettiva è totalmente falsa ed è frutto di una non conoscenza di Dio.

Dio è gratuità assoluta che non subordina il dono al tornaconto personale, ma dona per donare, dona per amore assolutamente libero e gratuito. E così al giorno del rendiconto finale con i suoi servi non viene per riscuotere, ma per premiare:

«La parabola dei talenti è una lieta notizia contro la paura, che stravolge il rapporto con Dio e rende sterile la vita. L'ultimo servo non ha capito che, affidandogli il talento, il padrone vuole fare di lui un amico; che quel talento è un dono di comunione, un atto di fiducia. Su tutto invece incombe la paura del castigo, e il dono da opportunità si trasforma in incubo. Il servo ha paura di Dio! Ne ha un'immagine orribile: sei duro… tu mieti dove non hai seminato… Errore fatale: si sbaglia su Dio e quindi sbaglia la vita; diviene, invece che amico, schiavo inerte, Adamo senza più giardino. Perché solo quando ti senti amato dai il meglio di te stesso, e mai la paura ti libera dal male. Dio invece sorprende i servi. Non vuole indietro i talenti affidati, raddoppia la posta, la moltiplica: sei stato fedele nel poco ti darò autorità su molto. Non di una restituzione si tratta, ma di un rilancio. Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Questa immagine, dettata dalla nostra paura, immiserisce Dio. Noi viviamo per essere come Lui, a nostra volta donatori: di pace, libertà, giustizia, gioia. Cose di Dio, che diventano seme di altri doni, sorgente di energie, albero che cresce, orizzonte che si dilata, grazia su grazia. Gloriosa e gioiosa pedagogia di vita. La parabola dei talenti è il poema della creatività. E senza voli retorici. Nessuno dei tre servi crede di dover salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di vite e di olivi, o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa: fedele nel poco. Il mondo e la vita ci sono affidati come un dono che deve crescere, un giardino incompiuto che deve fiorire. Una spirale di vita crescente è legge alla creazione. Pena il non senso della vita. Dopo la lunga assenza di Dio, la sua lunga fiducia in noi, il giudizio non sarà sulla quantità del guadagno, ma sulla qualità del servizio; non sul numero, ma sulla verità dei frutti. Non esiste una tirannia della quantità nel Regno dei cieli: fedele nel poco. Quel giorno, dice un racconto chassidico, non mi sarà chiesto perché non sono stato come Mosè o Elia o uno dei profeti. Ma solo perché non sono stato me stesso. Devo camminare con fedeltà a me stesso, emozionato e disciplinato servo della vita, vero della verità tracciata in me da Dio. Nessuno è senza talenti. È legge della creazione. E vado avvolto da doni di Dio. Ogni creatura che incontro è un talento, da custodire e lavorare per fare ricca la mia e l'altrui vita. Ognuno è talento di Dio per gli altri. «Come talento io ho ricevuto te». Lo può dire la sposa allo sposo, il figlio al padre, l'amico all'amico: sei tu il mio talento! Poterlo dire a qualcuno, poterlo dire a molti, per entrare così con passo creatore nella liturgia della vita» P. Ermes Ronchi – Om. della XXXIII Dom. (2002).

La Vergine Maria, Colei che più di ogni altra creatura ha ricevuto preziosi talenti dal Padre e che ha saputo farli fruttificare in una vita totalmente dedicata al Figlio Divino, ci aiuti a renderci sempre più coscienti dei doni che noi abbiamo ricevuto, per farli fruttificare nell’Amore. Amen.                                        j.m.j.

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 Solennità di N. S. G. C. Re dell’universo – Anno “A”          Omelia

Gesù Re 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

concludiamo oggi l’anno liturgico con la festa di Gesù Re dell’Universo. Gesù Re buono e compassionevole è il buon pastore preannunziato da Ezechiele (prima lettura) che ci guida con amore verso il Cielo (salmo responsoriale) e che, alla fine dei tempi, prima di consegnare il Regno al Padre (seconda lettura), radunerà il suo gregge per il giudizio.

La solenne scena evangelica ci presenta il gran giorno del giudizio, questa pagina è certamente tra le più conosciute, semplici, facili da comprendere anche dai bambini: quell’«avete fatto a me» di Gesù è una frase fortissima.

Il Signore Gesù ci ricorda che saremo giudicati sull’amore, sull’amore concreto, fattivo, pratico che avremo avuto con i nostri fratelli anche quelli che non sopportiamo: L’avete fatto a me!”

Si racconta di s. Rodriguez, fratello gesuita, portinaio, che ogni volta che suonavano alla porta del convento diceva nel suo cuore: “Eccomi Gesù, vengo subito ad aprirti” e un giorno ebbe la sorpresa di aprire sul serio la porta a Gesù stesso.

Bisogna però fare una grande attenzione a non isolare questa pagina del Vangelo dall’insieme di esso, perché potremmo essere portati ad affermare che alla fin fine pregare, partecipare alla S. Messa e cose simili non sono importanti, l’importante è fare del bene, è agire bene, trattare bene il prossimo, fare un po’ di volontariato, aiutare chi si può e questo è sufficiente. Un’idea simile sarebbe travolgere tutto il Vangelo e livellarlo ad una dimensione meramente orizzontale, rischio quanto mai in agguato per noi uomini e donne di oggi così tanto materialisti. Ecco allora un certo senso di non stima, di svalutazione della vita di orazione, della vocazione delle suore di clausura, ad esempio: perché al posto di starsene rinchiuse lì non vanno a fare un po’ di bene nel mondo?

Attenti a non essere riduzionisti. Il messaggio dell’amore al prossimo è un messaggio di valore fondamentale del Vangelo di Gesù, ma il Vangelo di Gesù è fondato su un valore ancora più grande, che è l’amore del Padre e al Padre. È questo amore più grande che fonda, sostiene e promuove l’amore ai fratelli, senza quest’amore fondamentale e fondante non è possibile un vero, autentico amore ai fratelli.

Inoltre non possiamo staccare questo Vangelo dal suo contesto prossimo, siamo nel capitolo 25° di Matteo che inizia con quella frase cara all’Evangelista: “Il regno dei cieli è simile a…” e prosegue con il racconto di due parabole: quella delle dieci vergini, quella dei talenti che introducono alla visione conclusiva del giudizio finale in cui Gesù Signore separa i capri dalle pecore.  Gesù quindi sta concludendo il suo lungo parlare del Regno dei Cieli, che è il Regno del Padre suo, Regno che il Padre ha messo nelle sue mani e che Gesù riconsegnerà a Lui quando tutto sarà finito (seconda lettura).

Certamente l’amore fattivo verso il prossimo è la prova del nove del nostro essere o meno cristiani e se questa prova risulta negativa, se quest’amore di fatto non ci fosse, dobbiamo necessariamente chiederci: “A che prò le  nostre preghiere, le nostre liturgie?” Allora forse sarà il caso che oggi ci interroghiamo sul senso profondo e autentico del nostro partecipare alla liturgia.

Ma questo interrogativo fu già nei profeti dell’Antico Testamento, i quali rimproveravano il popolo perché Dio non sapeva che farsene delle loro liturgie e dei loro digiuni: “Il digiuno che voglio è che spezzate il pane  con l’affamato, che apriate la vostra casa ai senza tetto… (Is 58,7) e ancora: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Os 6,6). “Sacrificio” era come dire “Liturgia”, “riti sacri”,  infatti la liturgia ebraica era tutta formata da “sacrifici rituali”, sarebbe dunque come dire: “Amore io voglio e non le vostre liturgie.

Quindi Dio vuole abolire le nostre liturgie? No, certamente, sarebbe questa una interpretazione sciocca della Parola, Dio non vuole abolire le nostre liturgie, desidera solo che esse siano autentiche, vere e non false. Liturgie a cui corrisponda dietro una vita concreta, liturgie che animino dal di dentro un vita di amore fattivo.

«Narra un racconto ebraico che un giorno si presentarono ad un vecchio rabbino alcuni giovani discepoli trafelati: “Maestro – dissero – lungo la strada alcuni ci hanno detto che il regno del Messia è venuto”. Il vecchio rabbino non disse una parola, aprì la finestra, guardò sulla strada, e poi chiuse la finestra, scuotendo la testa, con rassegnazione. Come a dire: se il regno del Messia fosse venuto, qualcosa avrebbe dovuto cambiare; tutto invece è come prima: ancora il peccato, l’ingiustizia, la sofferenza, le molte incredulità.

Se ci pensiamo bene, molto simile a questa rassegnazione del rabbino può essere il nostro atteggiamento, mentre celebriamo la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo. È proprio vero – ci chiediamo – che il regno di Gesù si è esteso a tutto l’universo? È proprio vero che tutte le cose sono state rinnovate nel Cristo Re, come diciamo nella preghiera iniziale della liturgia odierna? 

È proprio vero che la nostra vita è cambiata e ha ritrovato la bellezza e lo splendore delle origini? O non dobbiamo forse ammettere che tutto è rimasto come prima, e continua a rimanere come prima, nonostante le nostre buone intenzioni?

Questo Regno è già qui, bussa alla porta della nostra casa, attende soltanto che noi gli facciamo spazio. E volete sapere – dice ancora oggi Gesù a ciascuno di noi – come bussa alla vostra porta? “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. 

Appunto attraverso tali gesti quotidiani si affaccia nella nostra vita il Regno nuovo di Gesù. Certo, ci sono ancora il peccato, l'ingiustizia, la sofferenza, le molte incredulità, come pensava rassegnato quel vecchio rabbino, ma può essere diverso e nuovo il nostro modo di vedere questi mali, può essere diverso e nuovo il nostro cuore che li incontra: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere". Il nostro cuore può essere come il cuore di Gesù: che è stato il cuore di un Re perché ha custodito fino alla fine – nonostante tutto – la compassione e la tenerezza del Padre» Don Elio Dotto.

Una domanda dobbiamo porci tutti al termine di quanto ascoltato: siamo uomini e donne del Regno? O meglio desideriamo appartenere veramente a questo Regno? Uomini nuovi e donne nuove che hanno nel cuore, nella mente, nell’anima il Signore Gesù? Uomini nuovi e donne nuove che desiderano annunciare a tutti questo Regno? Regno di semplicità e di verità, di umiltà e di servizio, di purezza e gioia. Essere testimoni autentici, veri, credibili di questo Regno, ecco l’invito, ecco il desiderio, ecco la missione, ecco la vocazione che Gesù Re dona oggi a tutti noi: portare a tutti l’annuncio di gioia che il Regno di Dio è in mezzo a noi! (cf Lc 17,21).

Maria SSma, che fu la prima a ricevere l’annuncio della realizzazione delle promesse del Padre e di questo Regno è il membro più eccelso perché da Lei è nato il “Re dei Re”, ci aiuti ad essere nel piccolo mondo della nostra quotidianità, un piccolo segno di speranza e di amore, un piccolo, ma autentico segno di questo Regno.

Amen.

 j.m.j.

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