OMELIE DEL TEMPO ORDINARIO "B"
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34 CRISTO RE |
Seconda Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“VENITE E VEDRETE!”
Carissimi fratelli e sorelle,
lunedì scorso abbiamo iniziato a celebrare il tempo liturgico chiamato TEMPO ORDINARIO caratterizzato dal colore verde della speranza. Questo tempo non ha la sua prima domenica perché inizia di lunedì e così oggi è la seconda domenica del Tempo Ordinario e non la prima. È un tempo che sarà interrotto in occasione della santa Quaresima e riprenderà il suo svolgersi il Lunedì dopo la Pentecoste e si distenderà fino alla Domenica di Cristo Re che precede immediatamente il Tempo di Avvento.
Mentre negli altri tempi celebriamo in particolare qualche aspetto del mistero pasquale di Gesù Cristo: nell’Avvento l’attesa della venuta del Salvatore, nel Tempo di Natale l’Incarnazione e la vita nascosta a Nazaret, nella Pasqua celebriamo solennemente la sua passione, morte e risurrezione e nella Quaresima ci prepariamo a celebrarla; il Tempo Ordinario, invece, scivola di domenica in domenica sull’onda dell’ordinarietà ciclica della festività domenicale. Centro del Tempo Ordinario è la domenica come giorno del Signore, giorno della realizzazione di tutte le promesse di Dio, giorno dell’incontro e dell’anticipo della grande festa di lassù quando Lui ci farà sedere alla mensa del Padre suo e passerà a servirci (cfr Lc 12,37).
E di domenica in domenica i fedeli nella Chiesa sono invitati a camminare dietro Gesù, a seguire l’Agnello ovunque Egli li porti (cfr Ap 14,4). Andiamo dietro dunque a Gesù in questo tempo, andiamogli dietro perché vogliamo conoscerlo meglio, vogliamo approfondire il nostro rapporto con Lui, vogliamo entrare dentro il Suo messaggio, entrare in profondità nel Suo Vangelo per essere poi capaci di trasmetterlo attraverso la santità, la bellezza, l’armonia, la trasparenza della nostra esistenza, esistenza segnata per sempre da questo incontro con Lui per il quale abbiamo lasciato perdere tante altre cose (cfr Fil 3,7ss).
Ma veniamo alla Liturgia di oggi, altrimenti poi qualcuno si potrebbe stufare per una predica troppo lunga…
Samuele, nella prima lettura, è simbolo di ogni uomo che Dio chiama e Dio chiama ogni uomo. Dio Padre ha creato la persona umana per entrare in rapporto con lei. Samuele con la sua storia evidenzia come il protagonista di questo rapporto, colui che cerca l’altro per primo, il primo a muoversi, a stimolare, a provocare quest’incontro è Lui, è Dio: il Padre, il Padre che chiama, chiama…
Ma Samuele non capisce, pensa che sia Eli a chiamarlo… e cerca Eli invece di cercare Dio: è la storia di buona parte dell’umanità chiamata ad elevarsi a Dio e che invece si disperde e si esaurisce in una molteplicità di rapporti, incontri, ricerche varie nessuna delle quali può riempire il suo cuore.
Anche noi come Samuele abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia capire chi è che ci chiama veramente, chi sta sotto tutte le quelle seti e desideri che sono presenti nel nostro cuore, e sono presenti solo perché ce li ha messi Lui per portarci a Lui e che noi invece indirizziamo altrove.
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a disporci ad accogliere Dio, ad ascoltare Dio, ad aprirci a Dio, è proprio quello uno dei compiti del prete, del sacerdote e proprio questo farà Eli. “Figlio mio, quando sentirai la prossima volta quella chiamata, rispondi così: Parla, Signore che il tuo servo ti ascolta.”
Dio ci parla sempre, non cessa mai di parlarci nel suo ETERNO SILENZIO, ci parla senza parole nel profondo del cuore dove ci chiama, ci chiama e bussa dal di dentro, ma noi non siamo in grado troppo spesso né di sentirLo e quindi tanto meno di risponderGli adeguatamente.
Non possiamo sentirLo perché Lui è SILENZIO ETERNO e Lui parla nel SILENZIO e col SILENZIO, senza SILENZIO non è possibile percepirne la sua Voce, per questo uno dei segni che veramente stiamo cercando Dio e che cerchiamo il SILENZIO, il SILENZIO raccoglie la persona in sé e la rende tesa all’ascolto, il SILENZIO attiva la nostra recettività, potenzia le nostre antenne del cuore, dell’anima…
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti, che faciliti il nostro incontro con Colui che cerchiamo. La persona umana potremmo definirla essenzialmente come qualcuno alla ricerca, come un’assetata, un’affamata… il tossicomane in crisi di astinenza che spasima la droga è un’immagine che rende bene ciò che la persona umana è: ricercatrice affamata e assetata di vita, di felicità, di amore, di gioia, di pace, di verità… “Come la cerva anela alle fonti, così l’anima mia anela a te, mio Dio!” (Sal 42,2)
Ecco, nella storia della salvezza una di queste persone incaricate da Dio di aiutare l’umanità ad incontrarsi con Lui e a sfamare la propria fame e dissetare la propria sete profonda fu Giovanni il Battista.
Le persone che avevano capito che dietro alla loro infinita inquietudine c’era il desiderio di incontrarsi con Dio andavano da lui e lui li aiutava così come Eli aiutò Samuele. La gente gli chiedeva: «Cosa dobbiamo fare?» e lui a tutti indicava la strada dell’incontro: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha… chi imbrogliava non imbrogli più… chi è forte non sia prepotente… “ (cfr. Lc 3,10ss) invitava tutti a convertire il proprio cuore e a preparare nell’umiltà la strada a Dio che veniva a loro e rimproverava con asprezza coloro che credevano di potersi incontrare con Dio solo perché venivano a farsi a battezzare esteriormente senza una autentica umile ricerca di Dio (Mt 3,1ss).
Ecco finalmente giunto il momento dell’incontro arriva l’Agnello, il compito del Battista si esaurisce indicandoLo al mondo: «Ecco l’Agnello di Dio!» (Gv 1,36) ora egli “deve diminuire e Lui crescere” (Gv 3,30). Che bella questa figura di Giovanni nel suo essere indicatore di Gesù, non porta le persone a sé, le porta a Gesù. L’incontro delle persone con Giovanni Battista è un’icona, un’immagine della realtà profonda di ogni nostro incontro e relazione tra le persone. Come sarebbe bello e come sarebbe più bello il mondo se ognuno capisse questa missione che ciascuno riceve di essere indicatore Suo, strumento dell’incontro con Lui.
Se… se lo ricordassero di più i genitori… strumento dell’incontro di Dio con i loro figli…
Ma quanto spesso sono i figli chiamati ad essere strumento dell’incontro di Dio con la loro mamma e il loro papà… Quanti genitori si avvicinano a Dio grazie alla mediazione dell’innocenza dei loro bambini che li invita ad avvicinarsi a Dio quando accompagnano i loro bimbi al catechismo… o quando li guardano mentre servono la Messa… e quanti genitori hanno ritrovato la fede grazie alla fede coerente e bella di qualche loro figlio!
Se… se lo ricordassero di più gli amici… amici per aiutarci a incontrare Gesù il Salvatore…
Se… se lo ricordassero di più i fidanzati!… Se… se lo ricordassero di più i fidanzati! Come sarebbe più bello l’innamoramento… perché sotto ci sarebbe quell’altro innamoramento senza il quale l’altro non regge alla prova della bellezza: l’innamoramento di Dio, la ricerca appassionata di Lui e quindi fidanzato e fidanzata che si aiutano per amarLo di più e in Lui scoprono un amore più profondo, più bello, più vero perché Suo e l’amore se non è da Dio non è amore (cfr 1Gv 4,7) ma passione passeggera!
Col Battesimo tutti noi abbiamo ricevuto la missione del Battista: indicare Gesù… e questo sempre, anche quando dormiamo, se dormiamo nel Signore diventiamo indicatori di Gesù e del Regno del Padre suo… anche quando dormiamo… pensate! Quanti papà, quante mamme e quanti adulti guardando un bambino che dorme sognando, non hanno pensato a Dio che è il vero sogno di ogni uomo e di ogni donna! Tutto in noi deve diventare segno di quella realtà interiore che ci portiamo dentro e che è Dio, il Dio vivo che vive in me e se vive in me non può non uscir fuori, manifestarsi, espandersi: i miei occhi, il mio sguardo, i miei gesti, il mio sorriso, la mia compassione, il mio servizio, la mia parola, la mia semplicità, la mia modestia, il mio pudore, la mia gioiosità… tutto diventa segno di Lui vivo in me come ben ci ha ricordato oggi Paolo nella seconda lettura: voi siete la dimora di Dio… il tempio di Dio … voi siete la presenza di Dio in mezzo al mondo… voi appartenete a Lui e non a voi è Lui quindi che deve vivere non noi, deve vivere Lui in noi! “Non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me!” (Gal 2,20)
Giovanni Lo indica a tutti, qualcuno non si accontenta di vederLo da lontano vuole conoscerLo meglio… che bello se attraverso la nostra testimonianza semplice, ma appassionata di Gesù qualcuno non si accontentasse di intravederLo da lontano, ma cercasse l’incontro ravvicinato, il faccia a faccia, lo sguardo nello sguardo, il cuore a cuore con Lui… che bello che sarebbe, vero?
Qualcuno non si accontentò di un incontro superficiale e quel giorno gli andò dietro con un altro. Gesù vide che Lo seguivano, si fermò e chiese: «Che cercate?»… “perchè mi venite dietro?”… Cari fratelli oggi Gesù chiede a ciascuno di noi, a me per primo: «Perché siete qui? Che ci fate qui? Cosa volete?» Se una volta forse era più facile e possibile sfuggire a questa domanda perché tutti venivano in Chiesa e nessuno si chiedeva perché, ora non più ora non più, il Signore ci chiede di essere motivati, cristiani adulti consapevoli e motivati, motivati da un incontro che precede questo nostro essere qui per incontrarlo!
“Vogliamo stare con te, cerchiamo te, dove abiti?” “Venite e vedete!” sarà la controrisposta di Gesù. La vita cristiana è l’esperienza di un incontro e di una sequela. Dopo aver incontrato Gesù tutto cambia, tutto è diverso perché scopro un mondo nuovo, un nuovo cielo, una nuova dimensione e, come ben fa notare l’evangelista, mi viene dato anche un nome nuovo: “Non ti chiamerai più Simone, ma Pietro”. Poteva mai immaginare quel povero Simone che tanto aveva preparato per lui il Signore?
Carissimi fratelli e sorelle, qui c’è una realtà nascosta, qui c’è un tesoro nascosto e una perla preziosa (cfr. Mt 13,44-46) ognuno di noi ha ricevuto da Dio un nome nuovo che è un’eredità meravigliosa di grazia, di santità, di novità, di meraviglie… se sapessimo cosa contiene quel nome nuovo!… “Se tu conoscessi il dono di Dio…” (Gv 4,10). Il mondo di Dio è pieno di tesori nascosti e perle preziose! Tesori nascosti e perle preziose sconosciute perché pochi li cercano, basterebbe così poco per trovarli! Eppure ci riempiamo la vita e l’esistenza di vuoto e di nulla ricercando l’effimero e il passeggero… come ben ci diceva domenica scorsa Isaia: “Perché spendete denaro per ciò che non è pane… perché sciupate il vostro patrimonio per ciò che non sazia?… O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; prendete e mangiate senza ”denaro e senza spesa, vino e latte” (Is 55,2.1)… il vino dell’amore vero e il latte della vita…
Basta così poco! È gratis! È gratis! Basta cercare Gesù… basta stare con Gesù…basta guardare Gesù… basta ascoltare Gesù… basta seguire Gesù e tutto sarà diverso, più bello, più ricco, più entusiasmante, talmente entusiasmante che, come Giovanni, anche più di 70 anni dopo aver incontrato Gesù ci ricorderemo pure che ora era quel giorno!
La Vergine Maria ci ottenga la grazia di realizzare in questo Tempo Ordinario un più profondo, coinvolgente e travolgente incontro con il Signore Gesù, unico nostro Salvatore e Redentore.
Amen. j.m.j.
Terza Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“CONVERTITEVI E CREDETE AL VANGELO!”
Carissimi fratelli e sorelle,
ci viene proposta oggi dalla Liturgia della Parola l’inizio della predicazione pubblica di Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni e aver passato 40 giorni nel deserto in preghiera, Gesù comincia il suo lungo camminare sulle vie della Palestina per annunciare il suo messaggio di salvezza.
Nella prima lettura vediamo come il Padre aveva preparato questo momento di definitiva salvezza in Gesù con altri momenti di salvezza per l’umanità. Uno di questi momenti fu rappresentato dall’invio del profeta Giona a Ninive. In realtà questa storia di Giona è un racconto didattico della Bibbia più che un racconto storico. È una parabola che ha la finalità di far capire al popolo del Signore che Dio è più grande delle loro ristrette e misere vedute. Se capissimo questo! Se capissimo questo anche noi che apparteniamo non al Vecchio, bensì al Nuovo Testamento.
Giona viene mandato a Ninive, città pagana, a predicare, ad ammonire, ad avvertire quei pagani che, se non la facevano finita con le loro malvagità e cattiveria, Dio li avrebbe puniti. Giona dapprima non vuole andare, poi è costretto e predica. E avviene che – cosa incredibile a Giona stesso! – quei Niniviti si convertono. Sì, si convertono, accolgono l’invito e si convertono! E Giona? E Giona ne è dispiaciuto! Avrebbe preferito che non si convertissero e perissero per la giusta furia di Dio!
Che lezione che Dio dà a Giona e attraverso di lui a quegli israeliti che avevano ristretto il loro cuore all’amore universale del prossimo: Non dovevo io perdonare questa povera gente che non sa distinguere la mano destra da quella sinistra? Tu ti dai pena per quella pianta che ti riparava dal caldo e che tu non avevi piantato né visto crescere, e Io non avrei dovuto avere pietà per questa povera gente? (cfr. Gn 4)
L’amore di Dio! Come non è capito… come non è conosciuto… come non è proclamato! Quell’amore paterno e materno e intimo con cui il Padre ama ogni persona.
Per far conoscere quest’amore il Padre ora non mandò più Giona, ma qualcuno ben più grande di lui, mandò il Suo Figlio prediletto che oggi abbiamo udito gridare a tutti il suo invito: “Convertitevi e credete al Vangelo!”, meglio sarebbe tradurre “Convertitevi, cioè credete al Vangelo”, questa sembrerebbe la traduzione più esatta: “Convertitevi, cioè credete al vangelo!”.
È Dio, il Padre, che nel Figlio continua a chiamare l’umanità perché esca fuori senza timore dai cespugli in cui si nasconde. Fidatevi di Dio, non spaventatevi, non nascondetevi, non fuggite, uscite fuori e venite a Me. Il Padre mi ha mandato a voi, a voi che siete stanchi, a voi che siete afflitti, a voi che siete malati, a voi che siete oppressi, a voi che siete schiavi…, a voi che siete dei poveri peccatori: Venite a me voi tutti e credetemi: il Padre vi ama. Credete all’amore del Padre! Voi contate molto per Lui, pensate pure i capelli del vostro capo Lui ha contato (cf Mt 10,30)! Pensate pure il vostro nome, il nome di ciascuno di voi, Lui ha scritto nel suo Cuore (cf Is 49,16)! Cambiate vita, non vivete più come se non conosceste quest’amore, non potete farlo perché ora avete conosciuto l’amore di Dio.
La conversione può essere frutto solo dell’incontro con l’amore misericordioso del Padre, il Padre se solo volesse, con la sua onnipotenza infinita potrebbe piegare le ginocchia di tutti, spezzarle… non lo fa perché vuole l’amore nella libertà non l’amore forzato.
La conversione è frutto dell’incontro dell’uomo, della donna con questo Amore e poiché la persona umana è complessa, possiamo parlare di conversione sotto una triplice dimensione, un triplice aspetto, un triplice livello. Perché una conversione sia completa occorre la presenza compenetrante e viva di tutte queste tre dimensioni di conversione che determinano così anche l’unificazione della persona completamente orientata all’Amore di Dio conosciuto in Gesù, così come il girasole si orienta verso il suo sole.
Il primo livello di conversione è il livello dell’affettività, del sentimento, delle emozioni. Possiamo esprimere questo livello come l’incontro, la scoperta dell’Amore del Padre conosciuto attraverso il volto del Bambino Gesù. La persona si commuove di fronte a questo Bambino…, l’innocenza, la debolezza, la semplicità, la povertà, la bellezza di quel presepe dove un Bambinello piange, ci commuove il cuore…, non per nulla la s. Messa di mezzanotte del Natale è la più frequentata.
Chi non si commuove… Il livello del sentimento che deve essere presente nella nostra fede per dare vivacità, intensità, calore…, ma che non deve sopprimere gli altri livelli.
E così vediamo – purtroppo! – persone che dicono di credere in Gesù, di amarLo molto e che quando “si sentono” pregano, vanno in Chiesa, magari fanno pure la s. Comunione, ma di Vangelo concreto, niente, di scelte concrete evangeliche, niente, di conoscenza approfondita, di studio serio della Parola, niente.
Il secondo livello della conversione è quello intellettivo-volitivo, della nostra intelligenza e della nostra volontà, della nostra capacità di ragionare, di approfondire e di applicare le conseguenze alla nostra vita, possiamo significare questo livello come l’incontro della persona con l’Amore del Padre conosciuto attraverso il volto di Gesù di Nazareth, il “Maestro”, il Rabbi che affascina le folle con il suo insegnamento e con la sua autorità di fronte al quale anche i demoni tremano e fuggono. Il livello intellettivo-volitivo è necessario perché possiamo dare sostanza e solidità ai nostri affetti, ai nostri sentimenti. È importante la penetrazione della Parola, del Vangelo, la conoscenza della persona di Gesù in una tensione continua di sequela, una conoscenza che spinge la persona ad una tensione d’amore che si concretizza nelle scelte pratiche della vita che comincia ad essere colorata di Vangelo. In questo livello di conversione, la persona è impegnata più che a compiacersi dei bei sentimenti che suscita il pensiero di Gesù, è impegnata a conoscere Gesù in profondità e a mettere in pratica i suoi insegnamenti. Se nel primo livello il rischio era una fede sentimentale e non determinante nell’esistenza concreta che si distende sull’onda del conformismo e della moda, qui, in questo secondo livello di conversione, che può avere anche una dimensione affettiva pregnante, il rischio è una fede concettuale e formalistica e anche un certo volontarismo che può portare in sé una forte carica di protagonismo elittario: “Io conosco la Parola, io prego, io vado a Messa, io sono impegnato, io sono un buon cristiano, io mi sforzo di vivere il Vangelo, io… io amo il Signore, ma chi lo ama come lo amo io?”.
Il terzo livello della conversione è quello della scoperta di un Amore troppo grande per essere ricambiato, questo livello possiamo significarlo come l’incontro della persona umana con l’Amore del Padre conosciuto attraverso le Piaghe del Risorto, è l’incontro con Gesù che dà la sua vita per me, che muore e risorge per me, con Gesù che mi dona il suo Spirito. In questo terzo livello di conversione lo sforzo della persona non è più nel compiacersi di quel che sente per Gesù, non è più neanche nell’approfondire la conoscenza dei suoi insegnamenti o nello sforzo concreto di vivere il Vangelo, ma la sua tensione personale è tutta tesa nello stare con Gesù, nel fare spazio a Gesù nella propria persona, nel far crescere Gesù e diminuire lei stessa. Questa crescita della presenza di Gesù in noi avviene nella consegna di noi stessi all’Amore che lo Spirito Santo continuamente riversa nei nostri cuori. Questa presenza sempre più radicata di Gesù provoca nella persona un commosso stupore e la coscienza sempre più forte di essere amata troppo. Il rischio di questo livello di conversione è quello di bloccare l’azione dello Spirito a causa del sentimento di indegnità: no, non sono degno di questo Amore! Sotto questo pensiero in realtà c’è il desiderio di poter pagare in qualche modo Dio per quello che ci dona, vorremmo, in altre parole, meritarci l’Amore di Dio. Vorremmo andare all’altare a ricevere il dono di Dio portando a nostra volta dei doni. Non abbiamo ancora capito che Dio non vuole i nostri doni, ma i nostri cuori… Noi pensiamo che Dio sia come un papà umano che desidera tanto vedere la pagella del proprio figlio con dei bei voti perché si è impegnato a studiare per dirgli: “Bravo”, mentre Dio non vuole dirci “bravo”, no, Lui vuole solo dirci: “Ti amo… ti amo di amore eterno!”(cfr. Ger 31,3)
L’esperienza progressiva dell’Amore di Dio conosciuto nel triplice volto di Gesù, Gesù il Bambino, Gesù il Maestro, Gesù l’Uomo-Dio che muore e risorge per me conduce la persona ad una progressiva consegna di sé all’Amore, nella sempre più profonda consapevolezza della propria povertà e della Sua grandezza. Possiamo dire che lo Spirito Santo opera in noi – sempre che noi Gli permettiamo di operare, perché Egli non fa nulla senza il nostro esplicito permesso – scavando nella nostra povertà rendendoci sempre più poveri e quindi più capaci di accogliere un amore sempre più grande.
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, noi siamo convertiti nella misura in cui siamo affascinati da questo triplice volto di Gesù – il Bambino, il Maestro, il Risorto – attraverso il quale il Padre ci ha fatto conoscere che ci ama di un Amore troppo grande. E se questo volto ancora non ci ha preso totalmente il cuore, sbrighiamoci a sbloccarci perché – Paolo ci ricorda – “passa presto la scena di questo mondo” e abbiamo solo quest’unica nostra vita per consegnarci all’Amore!
Maria SSma ci aiuti a scoprire sempre di più e ad accogliere quest’Amore, la Vergine Santa ci aiuti ad accettare con pace e con gioia il fatto di non aver nulla da darGli in cambio e ci aiuti anche a capire che è questa nostra povertà l’unico recipiente con cui poter raccogliere tutto l’Amore di Dio.
Amen. j.m.j.
Quarta Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“CHI È COSTUI?
Carissimi fratelli e sorelle,
il contesto del brano evangelico odierno è la prima parte del Vangelo di Marco, parte caratterizzata da due elementi, entrambi emergenti nel nostro brano: la manifestazione potente di Gesù e il “segreto messianico”.
Parliamo prima di questo “segreto messianico”. Esso consistente nel fatto che Gesù impone il silenzio dopo aver operato qualche prodigio, così come oggi ha imposto al demonio di non gridare che Lui era “il santo di Dio”, cioè il Messia. Gesù non vuole che la gente pensi subito che Lui sia il Messia, perché sapeva che le loro idee sul Messia erano sbagliate. Il popolo d’Israele, infatti, era tutto proteso all’attesa di un Messia potente e glorioso che avrebbe riportato Israele all’antico splendore davidico e avrebbe umiliato tutti coloro che attualmente li umiliavano e li opprimevano (i Romani).
La prima parte del Vangelo di Marco si conclude con la duplice domanda di Gesù ai discepoli: “Che dice la gente di me?… Chi dite voi che io sia?”(Mt 8,27-28). Domanda che trova una sua preparazione già nel brano odierno che ci ha mostrato la folla di Cafarnao stupita e perplessa che si chiede chi è mai Costui che insegna con questa autorità e al Quale obbediscono persino i demoni.
L’altro elemento della prima parte di Marco, è dato da Gesù che si manifesta al mondo e si fa conoscere come uno che parla con autorità, che comanda ai demoni, che ha il dominio sulla natura (tempesta sedata – Mc 4,39) che guarisce dalle malattie, che risuscita dalla stessa morte (risurrezione della figlia di Giario – Mc 5,41). Così facendo Gesù suscita nei cuori una domanda: «Ma chi è mai costui?».
Proprio questo avvenne nella sinagoga di Cafarnao. Gesù insegna con “autorità”. Quelli che Lo ascoltano comprendono che Costui è diverso dai soliti rabbini e scribi del tempo, Egli infatti è quel profeta, unico, che il Padre avrebbe mandato quale nuovo Mosè del Quale ci ha parlato la prima lettura di oggi.
Gesù insegna con “autorità”, Egli è il “Maestro” che parla al cuore. L’“autorità” di Gesù non risiede in qualche manifestazione esteriore, quale potrebbe essere un tono autoritario della propria voce o una stile autoritario dei propri atteggiamenti. La sua è l’“autorità” propria e unica di Dio che quando parla, parla al cuore e parla dal cuore dell’uomo. Chi lo ascolta percepisce questa risonanza del cuore e capisce che la Sua non è una parola dei tanti parolai del mondo che dai vari pulpiti e cattedre dello scenario di questo mondo riempiono di vuoto i cuori di chi li ascoltano. Gesù parlando con “autorità” inaugura il “Regno del Padre” che propriamente è il Regno di chi accoglie nella propria vita l’“autorità” di Gesù Cristo, “autorità” che non opprime ma che illumina, è “potere” che non schiavizza, ma libera; è un “dominio” che non schiaccia, ma innalza. E questa “autorità” propria di Gesù di parlare al cuore e dal cuore dell’uomo, Lui l’ha trasmetta tutta quanta, integra, alla sua Chiesa: “Chi ascolta voi, ascolta me!” (Lc 10,16) e attraverso la sua Chiesa, Gesù continua nell’oggi di ogni tempo a parlare al nostro cuore e dal nostro cuore. Essere cristiano cattolico implica propriamente questo riconoscimento della voce di Gesù nella voce della Chiesa, dell’“autorità” di Gesù nell’“autorità” della Chiesa. Rifiutare l’“autorità” della Chiesa significa voler vivere svincolati dall’“autorità” di Gesù e quindi di Dio.
Una domanda, però, affiora spontanea alla nostra mente: ma se Gesù ci parla al cuore e dal cuore, come è possibile non riconoscerne l’“autorità”? La risposta è molto semplice: quando si vive fuori di se stessi non si può ascoltare il proprio cuore perché si è tutti presi dalle cose esteriori che ci fanno vivere proiettati all’esterno, nella superficialità, tutti impegnati ad apparire quello che veramente non siamo, nella continua ricerca dell’avere, del potere, del godere incuranti del proprio “essere”. Occorre rientrare in se stessi (cf Lc 15,17) per poter ascoltare Gesù e quindi la sua portavoce che è la Chiesa.
E lì nella sinagoga di Cafarnao un uomo, ascoltato Gesù, si mette a gridare: “Che c’entri con noi, Gesù Nazareno?”. Costui era posseduto da un demonio, ma questo demonio emerge all’esterno solo di fronte alla parola di Gesù. Nessuno, sembra, supponeva che fosse indemoniato, che fosse posseduto, schiavo del demonio, eppure lo era. Vedete – carissimi fratelli e sorelle – quello che impressiona i più è la possessione diabolica conosciuta come una presenza del demonio che possiede il corpo di una persona e opera in quel corpo facendo cose sbalorditive e impossibili alle sole forze umane. Questo tipo di presenza diabolica fa paura e sconvolge tutti. Ma in realtà, questi eclatanti possessioni diaboliche, in quanto generano questa paura, portano le persone a chiedere aiuto a Dio, perciò esse sono controproducenti al demonio, infatti ogni volta che le persone capiscono che c’è lui, cercano rifugio in Dio, per questo il furbissimo demonio cerca sempre di non farsi scoprire.
Non mi sembra che il nostro uomo della sinagoga fosse affetto da una possessione diabolica eclatante. Infatti egli era lì con gli altri alla preghiera, era uno della folla, non era stato portato lì da qualche parente o amico per essere esorcizzato, come altri casi.
Probabilmente questo uomo era posseduto dal demonio in quell’altra maniera, più invisibile e sottile, che viene da questi attuata quando una persona rifiuta di sottomettersi all’“autorità” di Dio, quando cioè vive nel peccato. Il peccato opera una vera, reale anche se invisibile possessione diabolica, la persona che vive nel peccato appartiene a satana e lui entra e esce dalla sua anima quando vuole: è proprietà sua! E quanto più la persona è incallita e sommersa dal peccato, quanto più satana è di casa presso di lei. Si tratta quindi di un vero possesso, tanto più distruttivo e degradante quanto più inavvertito. Da questa presenza Gesù è venuto a liberarci, ma questa liberazione non può avvenire finché la persona non rientra in se stessa e riconosce il proprio peccato:
«É necessario prender coscienza della nostra condizione di schiavitù. Una delle falsificazioni più potenti di satana è quella di far credere all'uomo di essere più libero quando commette il peccato, mentre invece – dice Gesù – "chi commette il peccato diventa schiavo del peccato" (Gv 8,34). Gesù ha smascherato questo potere di satana che spinge l'uomo a sospettare di Dio, a distaccarsi da Lui, fino a essere in balia del suo potere di menzogna e violenza. Persa la sicurezza che gli deriva da Dio, l'uomo cerca altre sicurezze nell'avere, nel potere, nell'apparire. Da qui la crescente insoddisfazione, la disistima di sé, le brame incolmabili, gli egoismi, le guerre…! Tutto questo male poi si solidifica e organizza attorno all'uomo strutture moltiplicatrici di iniquità, di cui l'uomo diviene ingranaggio. Alla fine vi resta imprigionato come un baco nel bozzolo che lui stesso ha fatto».
Don Romeo Maggioni.
Il tentativo costante del demonio nella sua opera di tentazione e istigazione al peccato, è quella di illudere le persone proponendo felicità e godimenti effimeri e ingannatori e, contemporaneamente, di far credere Dio come un qualcuno la cui presenza intristisce, ottenebra e svilisce la propria esistenza: “Che c’entri con noi?”. Ecco l’intento di satana, proporre un Dio che non entri nelle nostre vite, che scivoli via come un estraneo.
Ma Gesù lo zittisce e lo caccia e l’uomo viene liberato, ma non senza uno strazio del cuore. Sì, è così, non si può passare dalla possessione di satana all’appartenenza a Gesù senza uno strazio del cuore, senza una fortissima sofferenza. Rinunciare ad una vita orientata all’avere, al godere, al potere per una vita orientata a Dio e quindi all’essere e all’amore vero, implica un doloroso sconvolgimento interiore, un rivoluzionamento totale della persona e della sua mentalità, un abbandono di tutto un mondo di false sicurezze al quale prima era agganciata per agganciarsi all’unica roccia di salvezza che è Dio.
La Vergine Maria ci accompagni lungo questo nostro cammino dietro al suo Figlio attraverso il Vangelo di Marco. Ci accompagni soprattutto con quello stupore ricco di fede con cui Lei visse accanto al suo Gesù e ci comunichi quell’amore tenero e forte con cui Lei Lo inseguì lungo il suo pellegrinaggio d’amore fin sotto alla croce. E forse così potremo capire anche quella parola di Paolo, l’innamorato di Gesù, che oggi nella seconda lettura invitava i Corinzi e noi ad una risposta di amore al Padre quanto più libera, assoluta e radicale.
Amen.
j.m.j.
Quinta Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“E GLI PARLARONO DI LEI”
Carissimi fratelli e sorelle,
s. Paolo nella seconda lettura ci parla del suo amore al Vangelo di Gesù e della missione che ha ricevuto di annunciarlo. Ecco, chiediamo oggi a lui, a Paolo, questo grande innamorato di Gesù, che ci comunichi un po’ del suo amore perché possiamo accostarci con tanto affetto, con tanta devozione e amore a questa pagina dell’evangelista Marco che abbiamo appena proclamato.
Il brano di Marco odierno insieme a quello che abbiamo proclamato domenica scorsa, presenta alla nostra attenzione amorosa,“una giornata tipo” di Gesù. L’altra domenica ci ha presentato l’inizio di questa giornata alla sinagoga di Cafaranao, dove il Maestro stupisce i Giudei per la sua dottrina insegnata con autorità e per la potenza delle Sue parole di fronte alle quali anche i demoni ubbidiscono. Oggi, nel proseguo, Gesù si reca a casa di Simone e Andrea “e, subito” – dice l’Evangelista – “Gli parlano di lei”, della suocera malata.
Si apre qui il tema della sofferenza, tema che è portato avanti da tutto il libro di Giobbe di cui oggi abbiamo letto un brano come prima lettura. Mi piace farvi notare come Marco incornicia la sofferenza nell’amore dei famigliari: “Subito Gli parlarono di lei” e anche dopo leggiamo come sul far della sera “gli portarono tutti i malati e gli indemoniati”: chi portava queste persone a Gesù se non i loro familiari?
Una delle scene che più è rimasta impressa nella mia memoria è stata quella di una mamma, una mamma anziana, molto anziana, che con una dolcezza indicibile e un amore – vorrei dire “palpabile”- imboccava la figlia portatrice di handicap che tra smorfie, sputi e schizzi vari deglutiva quanto la sua mamma buona le porgeva.
Cosa voglio dirvi con questo? Spero di riuscirvi, perché è una cosa importante. Vorrei dirvi che le persone malate e sofferenti, quando sono amate, quando sono accudite, quando sono accompagnate dall’amore di qualcuno, quando hanno qualcuno capace di stringer loro con affetto la mano e far loro un carezza, soffrono già molto di meno e la loro sofferenza diventa vivibile, sopportabile. E che bello vedere come questo amore sia ancora presente nel nostro mondo e che brutto, che gelo nel cuore, quando – purtroppo – non lo vediamo!
Eh, sì, l’amore costa! Ah quanto costa l’amore! E allora magari ce la si prende con Dio che non fa i miracoli e cose di questo genere, ma noi, alle volte, non facciamo quello che dovremmo fare se veramente amassimo, e quante occasioni di amore abbiamo nell’ambito della nostra famiglia, del nostro vicinato… quante! Ma siamo troppo presi dai nostri problemi, dall’organizzazione del nostro tempo libero per poterle vedere… e ce la prendiamo con Dio perché qualcuno soffre, dimenticandoci che qualcuno altro potrebbe soffrire di meno se io amassi di più!
Ma torniamo al nostro Vangelo. Bisogna poi tener presente che i miracoli compiuti da Gesù non sono fini a se stessi, sono segni, segni di una realtà più profonda, una realtà spirituale: non dimentichiamolo mai! E, in particolare, è un segno questo miracolo della suocera di Pietro perché esso è il primo che racconta Marco, si tratta dunque del primo miracolo, che è apparentemente insignificante come spettacolarità: non c’è nessuna gravità, non si tratta di paralisi, cecità, gravi difficoltà motorie, si tratta – diremmo oggi – di una banale influenza: “aveva la febbre!”
Molto probabilmente, proprio per questa sua lievità, Marco lo racconta per primo, perché la possibile spettacolarità di un altro miracolo ci porterebbe fuori strada nella comprensione che ogni miracolo è segno, non ricerca della spettacolarità, ma segno. Vediamo alcuni particolari significativi di questo segno che è segno dell’incontro della persona umana con la salvezza, con Gesù:
- “La suocera di Pietro era a letto con la febbre”. Questa febbre è figura del male che immobilizza la persona e blocca in lei la capacità di amare. Il peccato blocca all’amore e si innesta nella persona come impotenza ad amare, come cancro dell’amore.
- “Gli parlarono di lei”. Esclusi i primi discepoli, chiamati direttamente da Lui, c’è sempre un tramite che porta noi a Lui e Lui a noi. È la mediazione della Chiesa, che prolunga nel tempo e nello spazio la sua presenza. Ma il contatto con Lui e la Sua parola sono sempre immediati e diretti, da persona a persona. La necessità di una mediazione: Dio ci salva nella Chiesa, attraverso una mediazione di altre persone che parlano a Lui di noi! Questo aspetto s’incrocia con la responsabilità che ognuno di noi ha sul suo fratello e del compito che abbiamo di parlare di lui a Gesù e di aiutarlo ad incontrarsi con Gesù. Chi non si cura che l’altro s’incontri con Gesù, non ha ancora conosciuto il Signore!
- “La sollevò”. Ora è da notare che Marco, per indicare che Gesù la sollevò, adopera lo stesso verbo che usa per la sua risurrezione – ergheiro – e questo anche se poche righe dopo, dovendo esprimere la stessa idea di alzarsi, userà un altro verbo – anéste. Quella febbre della suocera di Pietro è dunque simbolo di quello stato di “morte” spirituale in cui la persona umana vive se non si è incontrata con Gesù che è la “Vita” (Gv 14,6).
- “Prendendola per la mano”. La guarigione avviene in silenzio, attraverso il contatto, mano nella mano. Ancora oggi Gesù vuole toccarci per salvarci. Occorre essere toccati da Gesù per salvarsi, per cambiare, per rinnovarsi. Ancora oggi Gesù tocca questa umanità malata di egoismo, malata di superbia, malata di sensualità, malata di invidia, di gelosia, malata di troppi mali spirituali, ancora oggi Gesù tocca e guarisce, tocca e guarisce nei s. sacramenti. Però, ora come allora, non basta il contatto fisico con Gesù per guarire, come quando un’intera folla Lo stava toccando fisicamente, ma solo una persona guarì (cf Mc 5,31), così non basta ricevere i sacramenti, bisogna riceverli bene, con le dovute disposizioni di desiderio e d’amore.
- “E serviva loro”. La nostra mano presa da Gesù è finalmente capace di agire come la sua, Lui che ha scelto di servire e non di essere servito (cf Mt 20,28). Il servizio è la guarigione della febbre mortale della persona, di quel cancro che le annienta l’anima: l’egoismo che la uccide come immagine di Dio Amore. Servire è la concretezza e la prova dell’amore, l’amore che non sa servire non è amore, amore è servizio, servizio vero è amore. La persona salvata da Gesù è una persona che fa della sua vita un dono, un servizio.
Altre considerazioni:
- “Al mattino si alzò quando era ancora buio e andò in un luogo deserto a pregare”. Potremmo fare tutta un’omelia solo su questo versetto, ma basti solo una provocazione: se vogliamo veramente essere diversi, nuovi, qui abbiamo il rimedio più efficace: iniziare un cammino spirituale con momenti di preghiera seri, quotidiani, puntuali e magari mattutini. Vi sfido a verificare questo: proviamo ad alzarci 15 minuti prima per dedicare questi minuti alla preghiera e vedremo come in poco tempo la nostra vita cambierà!
Ma… – attenzione! –, molti pregano tanto, ma non succede niente, sono sempre gli stessi e sapete perché? Perché non hanno pregato nel luogo giusto, non sono scesi nel “deserto”, hanno pregato nella dispersione e nella confusione e hanno finito per parlare al vento e non certo a Dio. Ma qual è il “deserto” nel quale dobbiamo scendere per pregare? Non si tratta di un “deserto” esteriore, ma di un “deserto interiore”. Certamente un luogo solitario aiuta a pregare, la penombra di una chiesa anche, la viva luce accesa vicino a un tabernacolo ancora di più perché c’è una presenza sacramentale di Lui, ma il luogo dove tu incontri il tuo Dio non è un luogo esterno a te, pur bello, soave, devoto. No, il luogo dove tu preghi è dentro di te: è il centro del tuo cuore, l’intimo più intimo in te. Allora il tuo sforzo iniziale dovrà essere quello di scendere dentro, scendere in basso nelle tue profondità fino al cuore del tuo cuore dove c’è Lui, il tuo Dio, il Dio vivo che vive in te e tu vivi in Lui. Se non scendiamo lì non preghiamo, ma com’è difficile scendere lì, così in basso, abbiamo paura, il vero nemico della nostra preghiera è questa paura che abbiamo di scendere in basso, in basso, in profondità, dove c’è la nostra verità, la verità della nostra miseria che vorremmo continuare ad ignorare, che non vorremmo vedere. Ma è lì proprio lì che ci incontriamo con Dio Amore, è proprio lì che Dio Amore si incontra e si scontra con la nostra miseria, distruggendola nella sua misericordia!
-
“Tutti ti cercano!”. Pietro Lo invita a restare perché tutti Lo cercano e Lui che fa? Se ne va, non si ferma, Lo cercano e Lui se ne va. Se vuoi stare con Gesù, se vuoi stare con Lui, non hai scelta: devi smuoverti, devi rincorrerLo, devi seguirLo e devi andare dove vuole Lui non dove vuoi tu.
La Vergine Maria che fu esperta in questo inseguimento, ci aiuti a rimanere sempre lungo il sentiero tracciato dal suo Figlio, passo dopo passo, camminando dietro le Sue orme lungo i difficili sentieri dell’amore crocifisso e risorto (cf 1Pt 2,21).
Amen. j.m.j.
Sesta Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“LO VOGLIO, GUARISCI!”
Carissimi fratelli e sorelle,
subito dopo la presentazione di una “giornata tipo” di Gesù, la cui narrazione abbiamo ascoltato nelle due domeniche precedenti, l’evangelista Marco passa a raccontarci di una strepitosa guarigione operata da Gesù che tocca un lebbroso guarendolo. Così come abbiamo visto per il primo miracolo – la guarigione della suocera di Pietro –, anche quest’altro miracolo, questa volta strepitoso, nasconde un pregnante livello simbolico che completa il messaggio racchiuso nella guarigione della suocera di Pietro che – abbiamo visto – rimandava alla missione della comunità ecclesiale di mediare l’incontro dell’umanità con il Salvatore del mondo e alla potenza della risurrezione di Gesù che entrando nel cuore dell’uomo inabilitato dal peccato, lo rende capace di amare e quindi di servire.
In questo secondo miracolo vengono messi in risalto altri elementi dell’incontro della persona con il Salvatore del mondo e nei gesti di Gesù e del lebbroso si delinea un trasparente simbolismo penitenziale, che rimanda cioè alla celebrazione del sacramento della penitenza. Vediamo ora questi elementi.
Il primo è senz’altro la grande fede del lebbroso che rompe tutti gli schemi e le imposizioni della legge ebraica per avvicinarsi a Gesù e chiedere la guarigione: “Se vuoi, puoi guarirmi”. Questa frase del lebbroso implica due aspetti: la consapevolezza del proprio male e la fiducia nella potenza di Gesù.
A) La consapevolezza del proprio male. Si tratta di lebbra. La lebbra nella Bibbia non ha semplicemente il significato di una malattia fisica, essa era considerata un segno di maledizione:
«Fra tutte le malattie, la lebbra era considerata dagli Ebrei quella che più rendeva impuro l’uomo, perché distruggendolo nella sua integrità e vitalità fisica, era per eccellenza segno del peccato e della sua gravità. Per questo, la lebbra non è mai considerata solo o principalmente da un punto di vista medico, ma riveste un carattere prevalentemente religioso. Solo così si spiegano le misure severe e repellenti che sono riportate nella prima lettura. Non si tratta semplicemente di misure profilattiche: tale isolamento mirava a preservare «la santità del popolo di Dio». La lebbra, segno del peccato, poneva l’uomo al di fuori della comunità del popolo di Dio, ne faceva uno «scomunicato». Per questo le guarigioni dalla lebbra, narrate dai vangeli — tenuto conto del contesto sociale presente nella prima lettura — diventano simbolo della liberazione dal peccato, segno e prova del potere di Gesù» – Centro Catechistico Salesiano
Quello che manca troppo spesso al penitente che oggi si confessa e chiede al ministro di Dio l’assoluzione dei propri peccati è la consapevolezza della gravità della propria situazione personale davanti a Dio, agli altri e a se stesso. Il lebbroso, invece, si rendeva conto benissimo — e non poteva non farlo —, della propria situazione affliggente: il dolore e il lezzo delle piaghe aperte, la condanna pubblica all’emarginazione lo costringevano a rendersi conto che aveva bisogno di essere guarito e mendicò con fede la guarigione a Gesù: “Lo supplicava in ginocchio”. Solo chi entra nella consapevolezza della gravità delle proprie colpe, sa chiedere con umile fede la propria guarigione, perché mancando la consapevolezza della gravità, manca anche la consapevolezza dell’importanza del dono di essere guariti. Chi considera peccato grave o mortale solo ammazzare, rubare e tradire il coniuge (tutti peccati che lui non fa), dovrà arrivare ad ammazzare qualcuno, o diventare ladro o a tradire il proprio coniuge per capire di aver bisogno di Gesù!
Occorre dunque stimolare in noi una maggior sensibilità al peccato, a ciò che esso rappresenta e provoca nella nostra vita, se vogliamo accostarci degnamente al sacramento del perdono e anche noi così poter supplicare in ginocchio il perdono di Dio. Questa opera di sensibilizzazione si attua in due momenti susseguenti. Il primo coinvolge la persona alla lotta al peccato mortale, ad ogni peccato mortale e peccato grave o mortale è anche la superstizione, lo spiritismo, la bestemmia, il mancare di rispetto ai propri genitori, odiare, rodersi nell’invidia e tutto l’ambito delicato e fragile della castità. Questa lotta fa diventare la persona, una persona spirituale, finché la persona non ha dichiarato guerra al peccato mortale, non è persona spirituale, è persona carnale (cf 1Cor 2,14). Normalmente questa lotta prende piede quando si prende sul serio la verità che ogni peccato mortale priva della grazia di Dio, della sua intimità e amicizia e apre le porte dell’inferno. Il primo e principale campo di battaglia dove si attua questa lotta sarà il mondo dei pensieri che è il luogo dove ha inizio ogni realtà di peccato: ogni azione peccaminosa è sempre preceduta da pensieri peccaminosi che hanno vinto la persona. Quando la persona incomincia a comprendere l’importanza del dominio del proprio mondo psichico, allora comincia ad essere spirituale.
Il secondo momento di questa lotta avviene quando la persona, essendosi stabilizzata nella vittoria al peccato grave, comprende sempre più e meglio che Gesù è morto straziato per i suoi peccati, tutti i suoi peccati, piccoli e grandi. Allora la persona comincia ad essere più delicata e allarga la lotta anche ai peccati lievi o veniali, sempre più e meglio motivata dall’amore per Gesù che dalla paura della propria possibile condanna all’inferno.
B) Il secondo aspetto della fede del lebbroso e quello della fiducia nella potenza di Gesù. Continuando il parallelismo tra la persona del lebbroso e quella di chi si accosta al sacramento della penitenza, bisogna rilevare come quest’ultima debba portare nel cuore la certezza di fede che Gesù è l’unico Salvatore del mondo, che Gesù è il Figlio di Dio e ha il potere – Lui solo! – di guarirla e liberarla da ogni male e peccato. Fiducia, fiducia illimitata, assoluta e incondizionata a Gesù e totale diffidenza in se stessi e nella propria capacità di bene: questo è uno dei segreti per fare una buona ed efficace confessione.
Il secondo elemento importante della guarigione del lebbroso è il comportamento di Gesù che «mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”».
A) “Mosso a compassione”. La “compassione” è il sentimento proprio di Dio verso l’umanità, per “compassione” il Padre mandò suo Figlio ad incarnarsi, per “compassione” degli uomini il Figlio si è fatto uomo e propriamente il frutto di questa “compassione” è stato il dono del loro Amore che è il loro stesso Santo Spirito. Nella parabola del buon samaritano (cf Lc 10,29ss) Gesù spiegherà come la “compassione” rende prossimi ad ogni uomo che s’incrocia e del quale ci si fa carico, con larghezza d’amore, delle sue necessità. Ed è Lui, Gesù, il “Buon Samaritano” del mondo che di tutti ha “compassione” e si fa carico con infinito e smisurato amore. Di questa “compassione” deve essere segno, segno buono ed efficace, il confessore e tale egli potrà esserlo solo se intimamente unito a Gesù, sentirà in se stesso la “compassione” di Questi per quel povero uomo, quella povera donna che in ginocchio davanti a lui sta invocando il perdono di Dio. Questa “compassione” di Gesù non potrà allora non trasparire dal suo sguardo, dalle sue parole e da ogni suo gesto che diventa così canale che trasporta sensibilmente la “compassione” di Gesù per quel povero peccatore o per quella povera peccatrice.
B) “Stese la mano e lo toccò”. Gesù, “Buon Samaritano” del mondo, si fa carico dei mali dell’umanità, la sua “compassione” è piena, totale, perfetta, per cui Egli non semplicemente guarisce, ma si fa anche carico dell’altrui lebbra! Sì, infatti è così! Toccare un lebbroso significava contrarre la lebbra, partecipare alla sua sorte di escluso, emarginato, scomunicato, condannato a vivere “fuori dall’accampamento”:
«La guarigione operata da Gesù dice qualcosa di più della semplice liberazione da una malattia e della riammissione nel seno della comunità. Egli si rende partecipe della situazione del lebbroso; toccandolo con la sua mano, in qualche modo contrae la sua stessa impurità… In questo gesto Gesù appare come colui che “si è caricato delle nostre sofferenze”: ha contratto, Lui, il male disgregatore delle forze vive dell’uomo e così ci ha guariti nella radice del nostro essere. Si ha qui una prima realizzazione della profezia del Servo di Iahvè che si presenta con l’aspetto di un lebbroso perché si è addossato i nostri peccati e, conseguentemente, il loro castigo (cf Is 53,3-12). Questo si realizzerà alla lettera nella sua passione quando sarà portato a morire assieme ai malfattori, “fuori dell’accampamento”, fuori delle mura della città» – Centro Catechistico Salesiano
Il rituale della penitenza prevede proprio che il sacerdote “stenda le mani sul penitente”, quasi a rinnovare il gesto di Gesù sul lebbroso con cui si fece carico della sua lebbra. Bisogna quindi che, perché quel gesto sia vero, il sacerdote si faccia carico del peccato di chi assolve in nome di Gesù, in che modo? Con una vita sempre maggiormente inserita nella Passione d’amore di Gesù per questa umanità, portando i suoi penitenti nella propria preghiera, in particolare nell’offerta quotidiana del sacrificio del Cristo rinnovato nella s. Messa che celebra e con un suo sempre maggior impegno personale nel cammino della santità.
C) “Lo voglio, guarisci”. E il lebbroso guarì. È questo il desiderio di Dio: guarire tutti i suoi figli. Dio non vuole figli malati, ma sani. Vuole figli vivi e sani, cioè capaci di amare: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Qualunque sia il male spirituale che affligga il povero peccatore o la povera peccatrice che si accosta al tribunale della misericordia, esso può essere debellato, guarito, sconfitto: non c’è situazione di peccato, male morale e spirituale che possa essere più forte della potenza della risurrezione di Gesù. Infatti, se il suo toccare il lebbroso esprimeva tutta la forza della sua “compassione” che Lo portò a morire come un lebbroso “fuori dall’accampamento”, la Sua voce che ordina al lebbroso di guarire dalla sua lebbra, porta in sé tutta la potenza della Sua risurrezione, quella potenza che ribaltò la pietra del sepolcro e rese vivo per sempre il Suo corpo massacrato e svenato d’amore.
Per cui questa fiducia deve avere il penitente che si accosta contrito al sacramento della penitenza e questa fiducia deve comunicare chi l’amministra. Fiducia che troppo spesso viene sminuita e debilitata dallo scoraggiamento in cui può trovarsi – e spesso si trova – il penitente o la penitente a causa del fatto che nonostante ripetute confessioni, non riesce a uscir fuori da una determinata situazione di peccato. Questo scoraggiamento conduce non poche persone ad allontanarsi dal sacramento perché ritenuto inefficace, ma non è così. Il sacramento, infatti è sempre efficace e vince e distrugge il nostro peccato, ma rimane in noi la debolezza che, se non viene ben sorretta dall’aiuto della preghiera e della s. comunione e dalla fuga delle occasioni di peccato, c’inclina a ricadere. Proprio per questo il nostro Gesù ha voluto che questo sacramento lo potessimo ricevere sempre, senza nessun limite di ripetizione, volendo anche più volte al giorno, perché Lui conosce la nostra “debolezza” (Eb 5,2) e sempre viene incontro ad essa con la sua forza d’amore che ci fa nuovi (cf Ap 21,5), sempre e comunque, ogni volta e tutte le volte ridandoci fiducia e grazia. E quello che dà più gioia a Gesù e vedere che noi crediamo a questo suo amore viscerale ed esagerato che ha per noi. Allontanarsi dal sacramento perché non si riesce a correggersi, apparentemente a molti sembra essere un atto di rispetto del sacramento, in realtà è un non credere a questo amore troppo grande di Gesù e ancor di più e in verità, più spesso ancora è anche un non volersi nuovamente umiliare davanti ad uomo raccontando i propri fallimenti. L’esperienza poi ci dice che, se il penitente persevera nell’umile confessione e nella speranza, viene il momento in cui si attua in lui la liberazione totale e il Signore lo fa riposare sulle alture (cf Sal 18(17),34).
Questa speranza deve avere nel cuore il penitente e ancor più il sacerdote che l’assolve e che dovrebbe esortarlo così come faceva il P. Pio Bruno Lanteri che diceva a se stesso prima ancora che a colui che confessava:
«Impara ad andare avanti anche con mancamenti e debolezze, e non fermarti mai per colpa loro nel mezzo del tuo cammino. Infatti, se non sai bene quest'arte, che è la più difficile, rischi di tornare indietro. Tu, invece, presupponi pure che hai da commettere molti mancamenti e peccati, perché servire Dio senza di essi si fa solo in Cielo. Per questo devi imparare a cadere sì, ma a alzarti subito, a domandare perdono senza meravigliarti né rammaricarti, né venir meno, per molti e grandi che siano i tuoi sbagli e peccati. Umiliati e piangi pure, ma alzati presto, anzi subito se ci riesci, perché questa è grande sapienza e mezzo ottimo per andare avanti».
La Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale e l’esempio dei Santi dei quali desideriamo diventare imitatori (II lettura), ci aiutino ad introdurci sempre più e meglio e con più amore nel cammino della nostra santificazione.
Amen.
Settima Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Figliolo, ti sono rimessi i peccati!”
Carissimi fratelli e sorelle,
il Vangelo di Marco oggi ci parla ancora una volta di un miracolo di Gesù, siamo nella prima parte del suo Vangelo nella quale Marco ci mostra Gesù che si manifesta come persona straordinaria, che parla con autorità, che fa tacere e fuggire i demoni, che fa zittire il vento e calmare le acque, che vince la malattia e la morte stessa.
E oggi siamo in un momento fondamentale della manifestazione di Gesù, Egli si manifesta chiaramente per quello che Lui è, non un uomo qualsiasi, un profeta come tanti, un uomo fuori del normale, straordinario, no, Egli si manifesta per qualcosa di più grande ancora, vedremo meglio questo aspetto in un secondo tempo.
Ora, prima di tutto vorrei riprende quanto dissi due domeniche fa in occasione del miracolo della guarigione della suocera di Pietro, poiché “non è il molto sapere che sazia l’anima, ma il gustare e il sentire le cose internamente” (S. Ignazio di Loyola), permettetemi di ripetere esattamente quanto vi dissi in quella circostanza. Allora vi feci notare, partendo dalla sollecitudine con cui Pietro e Andrea parlarono a Gesù della propria parente malata – “le parlarono di lei” –, come Marco incornicia la sofferenza e la malattia nell’amore della famiglia e degli amici.
Fermiamoci un attimo a gustare questa nuova scena del Vangelo di Marco… che bella! Quanto è ricca di umanità… Quanto è ricca di amore… Quanto è ricca di sofferenza…! Quattro persone portano una barella con un paralitico… chi saranno questi quattro? Forse qualcuno è figlio della persona ammalata…, forse c’è qualche parente…, forse c’è un amico… Quattro persone accomunate da quel gesto di grande amore che stanno compiendo… Chissà, mi piace pensare che magari uno di questi non lo conosceva neanche il malato…, ma sapete come succede spesso: si cerca qualcuno all’ultimo momento che ci dia una mano… magari qualcuno li aveva visti portare in tre quella barella e si è sentito di dar loro una mano… chissà…. Ecco, contempliamo queste quattro persone che sono accomunate dalla realizzazione comune di questo gesto d’amore.
Quale preziosa ricchezza è l’amore! Quanto è grande il loro insegnamento.
Vedete, vi dicevo allora come spesso ce la si prende con Dio perché non sistema tutto Lui, perché non fa i miracoli, lo si incolpa di far soffrire le persone e non ci si accorge che se si parlasse di meno e si amasse un po’ di più, molta sofferenza presente nel mondo sarebbe più umana, più vivibile, più sopportabile… E, spesso, se il malato invoca la morte, non è perché vuole morire, ma è perché vorrebbe qualcuno che portasse il suo lettino… qualcuno che gli tenesse con affetto la mano quando soffre… qualcuno presente lì quando lui ha bisogno di aiuto per alzarsi, per lavarsi, per andare al bagno…
Ecco, vedete, noi come Chiesa abbiamo ricevuto da Gesù la missione, il compito di un amore concreto, pratico… Ma quanto è difficile amare! Ma quando ci riusciamo trasformiamo qualunque realtà in paradiso. Vi dicevo due domeniche fa – e ve lo ripeto perché è una cosa bella e le cose belle non dobbiamo mai finire di gustarle, di assimilarle, di goderle nel nostro cuore… – vi dicevo di quella mamma, anziana, molto anziana che con uno sguardo dolcissimo e con un amore – oserei dire “palpabile” – imboccava, tra sputi, smorfie e versacci, la figlia pluricinquantenne portatrice di handicap. Che scena! Non potrò mai dimenticarla era un piccolo squarcio nel paradiso dove ameremo così.
Detto questo, torniamo al nostro Vangelo. Com’è bello questo Vangelo! Non sentite nel vostro cuore la bellezza di questa scena? Questi quattro vogliono portare il loro malato a Gesù, ma non si può…, non si può: c’è troppa folla, è impossibile…
Ma quando si ama non ci si arrende a nulla, l’amore è fantasioso…, l’amore è coraggioso e fa trovare le soluzioni più ardue: portiamolo sul tetto… scoperchiamo il tetto e caliamolo giù… ci occorrono delle corde… dove possiamo prenderle?… ecco le corde… forza… andiamo… coraggio…
Sapete meditando questo Vangelo per prepararmi a questo appuntamento settimanale con voi, pensavo… pensavo che molto probabilmente questi quattro o almeno quello che ebbe l’idea di scoperchiare il tetto e calare l’amico malato, conoscessero Pietro, sì penso che lo conoscessero, magari era un loro amico. Infatti, vedete, quella casa, da tutto il contesto del Vangelo doveva essere la casa di Pietro a Cafarnao. Per scoperchiare quel tetto quei quattro dovevano sentirsi autorizzati a farlo, dovevano sentire nel cuore che Pietro permetteva, perché lui era un uomo buono, lo conoscevano. Altrimenti dovevano aspettarsi che il padrone di casa non solo li sgridasse, ma potesse anche avere qualche reazione molto violenta: Ueh! Qui rovinavano la casa!…la buttano giù, questo è troppo!
Carissimi fratelli e sorelle, guardando questa scena, contemplandola con amore pensavo che alle volte, noi che facciamo parte di una qualche comunità cristiana, parrocchiale o meno, noi che frequentiamo la “chiesa” siamo un po’ come quella folla che impediva a quei quattro di incontrarsi con Gesù. Pensavo che forse ci sono alcuni che vorrebbero entrare dentro questa Casa, ma si scoraggiano perché ci siamo noi e il nostro volto alle volte non è volto di chi sa accogliere, tutt’altro. E, d’altra parte, può succedere che anche noi preti non facciamo come fece Pietro che permise che il tetto della sua casa fosse scoperchiato e, forse…, chissa!… li aiutò pure a tirare su quel malato con le funi. Noi, no. Magari avremmo la voglia di prendere una doppietta caricata a sale e di minacciarli di sparar loro se non scendono dal tetto, e possono levarselo dalla testa che permettiamo loro di romperci il tetto…! Il tetto no, non potete rompermelo, è troppo! Meglio una pastorale tranquilla di mantenimento… una pastorale dove continuiamo ad amministrare i sacramenti nella tranquillità senza nessuno che ci butti giù il tetto!
Forse se ci aprissimo di più a una dimensione di apertura, di novità, di rischio, di avventura… So che non è facile, è tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, ma lasciamoci provocare dalla Parola e chissà che qualcuno non inizi a scoperchiare anche questo nostro tetto e possiamo avere un risveglio di vita cristiana nella nostra comunità.
Vorrei finire qui, ma non posso, perché non si può leggere questo Vangelo senza fare anche altre due osservazioni che vi lancio così come piccole frecce non potendo approfondirle come dovremmo, le lascio alla vostra riflessione personale, avremo modo inoltrandoci nell’anno liturgico di riprenderle e approfondirle:
- Il Vangelo ci mostra Gesù che rimette i peccati e Isaia – prima lettura – ci dice che non sarà più ricordato il passato, che il Signore fa cose nuove. Ecco avremo modo in Quaresima di approfondire questa tematica, per oggi basti accennare come il perdono di Gesù è un atto creatore. Gesù ci perdona facendoci nuovi dentro e quindi il peccato non esiste più…, non esiste più. Sì lo ricordiamo perché non possiamo dimenticare il passato e quello che noi abbiamo fatto…, ma quello che abbiamo fatto non ci appartiene più perché noi siamo fatti nuovi, è nato qualcosa di veramente e assolutamente nuovo: una nuova creatura, le cose vecchie sono passate ecco ne sono nate di nuove! La nuova creatura che nasce dallo scontro di due abissi: l’abisso della nostra miseria che si scontra con l’abisso della Sua infinita misericordia… che scontro…! E un big-bang creativo che fa tutto nuovo… e il nostro passato con i suoi peccati viene ridefinito, vien dato un nuovo significato. Così il ricordo del mio peccato non è più segno della mia miseria e causa quindi di tristezza e avvilimento, ma diventa segno indicatore del luogo dello scontro dei due abissi, per cui il suo ricordo non mi avvilisce più, non mi intristisce più…, anzi mi riempie il cuore di una dolcissima gioia e una profonda gratitudine al Padre che in Gesù mi ha fatto conoscere il Suo Amore così troppo grande.
- Gesù visto quel paralitico dirà – sconcertando tutti – “Ti sono rimessi i tuoi peccati” – Giustamente i farisei presenti furono sconvolti, non potevano non esserlo: Chi può rimettere i peccati se non Dio? Quest’uomo afferma di essere Dio? Dunque costui è un grande bestemmiatore! Fratelli e sorelle, noi siamo tentati di vedere come antipatici questi farisei perché non accettarono Gesù e non Lo accettarono perché si proclamava apertamente Dio e si proclamava tale rimettendo i peccati e anche in altre occasioni Gesù li scandalizzò con frasi quali: “Prima che Abramo fosse io sono” (Gv 8,58), “Il Padre mio opera sempre ed anch’ io opero” (Gv 5,17), “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Giovanni dice chiaramente nel suo Vangelo che il motivo per cui i farisei e gli scribi volevano uccidere Gesù e lo fecero fu perché Lui dichiarava di essere Dio (cfr. Gv 5,18 e 10,33). Per questo fu ucciso. Ma io mi chiedo: noi che da duemila anni diciamo che Lui è Dio quante volte abbiamo veramente riflettuto, soppesato, valutato quello che diciamo di credere? E mi chiedo ancora: com’è possibile dire di credere a questa verità che è così assurda, umanamente parlando… assurda perché un uomo è un uomo né un dio né, tanto meno, Dio…, com’è possibile dire di credere a qualcosa di così pazzesco senza pensarci bene…, senza una ponderata riflessione? E infine mi chiedo, e me lo sono chiesto, credetemi tantissime volte: com’è possibile credere a questa pazzia e umana stoltezza che Gesù sia Dio e poi non essere riconosciuti come pazzi, come stolti, come fuori di testa dai nostri amici, dai nostri vicini di casa, dai nostri colleghi di lavoro. Mi chiedo come mai così difficilmente abbiamo stupito o scandalizzato qualcuno con le nostre scelte, perché scelte ritenute stupide, pazze, stolte, almeno reputate tali dalla sapienza di questo mondo che ancora con ha conosciuto né Gesù né “la potenza della sua risurrezione” (Fil 3,10)?
Com’è bella l’esperienza di chi tra voi – e spero che siate tanti –……l’esperienza vostra di quando avete dovuto dire a qualcuno, rimasto perplesso per le vostre scelte diverse da quelle che tutti fanno: – Sai, io sono un cristiano e non posso fare come voi perché io credo che Gesù è Dio. Che bello poi sentirsi rispondere quella frase che, se nessuno ancora ce l’ha detta, è brutto segno…, quella risposta che dice: – Ma tu sei pazzo! O meglio, più spesso ci dicono: – Ma tu sei scemo…! Ma tu sei scema…! Ma siamo veramente scemi noi che crediamo che Gesù è Dio? Che bello se ogni giorno ci prendessero per scemi…, ma scemi per amore di Gesù: scemi, stolti, stupidi, pazzi, ma per amore di Gesù che per amore mio è stato ritenuto tale!
Chiudo con quella parola che abitualmente mi sentite dire al termine dell’omelia e che oggi Paolo nella seconda lettura ci invita a ripetere a gloria di Dio Padre: Amen. L’Amen che ripetiamo diverse volte in ogni nostra Eucarestia domenicale sia l’eco e l’espressione vocale di quell’Amen che innalziamo al Padre nella quotidianità della nostra esistenza, nelle sue circostanze liete e tristi in cui sappiamo accogliere con amore appassionato la Sua volontà e quindi quella Croce che Lui adagia sulle spalle di tutti coloro che riconosce come suoi figli. Ecco qual è in concreto la nostra pazzia di cristiani per cui il mondo ci addita come scemi e pazzi: noi siamo quelli che portano la Croce. E lì su quella croce, che è quella di Gesù, ci esercitiamo a dire il nostro Amen in Lui, per Lui e con Lui, fino a quando anche noi, in Lui, per Lui e con Lui, sempre lì su quella croce benedetta con Maria accanto, inchiodati per Lui, con Lui e in Lui dall’Amore, non diremo: Padre, tutto è compiuto, nelle tue mani affido il mio spirito.
Amen. j.m.j.
j.m.j.
Ottava Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“VINO NUOVO IN OTRI NUOVI!”
Carissimi fratelli e sorelle,
una traccia importante per la nostra riflessione ce la dà la preghiera di “Colletta” con cui abbiamo iniziato questa nostra celebrazione:
O Padre, che in Cristo sposo e Signore chiami l’umanità intera all’alleanza nuova ed eterna, fa’ che nella tua Chiesa radunata per la celebrazione del banchetto nuziale, tutti gli uomini possano conoscere e gustare la novità gioiosa del Vangelo…
Infatti, la tematica di questa Liturgia della Parola tratta della sponsalità: la prima lettura ci parla del rapporto sponsale di Dio con il suo popolo nel VT, la seconda parla di un nuovo rapporto d’amore con Dio, una Nuova Alleanza operata dallo Spirito Santo, il Vangelo del rapporto sponsale di Gesù con il popolo della nuova alleanza: Gesù Sposo dell’umanità.
Ogni persona umana è desiderata, voluta, amata e creata da Dio Padre per mezzo del Verbo nello Spirito Santo per sé. Dio ci ha creati per sé, per entrare in un rapporto intimo, stretto, forte, assoluto d’amore con Se Stesso ed essendo Dio Trinità SSma d’Amore – il Padre, il Figlio e lo Spirito – ogni essere umano è chiamato a realizzare con ciascuna Persona della SSma Trinità un rapporto di amore che, per analogia con lo sposalizio umano, possiamo chiamare sponsale, per via della grande intimità e reciprocità d’amore che esso comporta.
Al di là di ogni comandamento dato all’uomo ce n’è uno primario e fondamentale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutto le tue forze” (Dt 6,5), ogni altra relazione che la persona umana possa realizzare nella sua vita, foss’anche la più bella e significativa, essa dovrà essere sempre secondaria e dipendente da questa primaria e fondamentale: Dio va amato per primo e di più, questa è una necessità per la persona che, se non ama così Dio, non realizza se stessa nella propria umanità. E Dio è “un Dio geloso” (Dt 6,15) che ha sposato la sua creatura creandola. Per questo motivo i profeti, quando il popolo santo di Dio si dimenticava di questo amore primario e fondamentale e lo posponeva ad altri amori servendo gli idoli che accarezzavano le loro passioni, rimproveravano il popolo di “aver commesso adulterio” adorando “i loro idoli” (Ez 23,37). Israele era “sposa fedele” finché osservava i “Dieci Comandamenti”, non osservandoli diventava “sposa infedele, adultera”. per questo motivo il Signore disse al suo profeta Osea: "Va', prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore" (Os 1,2), e ancora Isaia dirà: “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore, come gioisce lo sposo per la sposa così per te gioirà il tuo Dio” (Is 62,5). Gli ebrei avevano la piena consapevolezza di essere stati chiamati a questo amore sponsale con Dio ed è proprio per questo che hanno conservato come libro sacro, riconoscendolo come ispirato il Cantico dei Cantici, dove si canta l’amore di un uomo e di una donna, lo conservarono tra i libri sacri perché per ogni buon ebreo Dio, il Padre, è lo Sposo d’Israele.
Per noi cristiani, poi, oltre a questa dimensione sponsale che deriva direttamente dall’essere creati dal Padre [per mezzo del Figlio nello Spirito Santo], c’è anche quella derivante dall’essere REDENTI DAL FIGLIO [mandato dal Padre, incarnatosi per opera dello Spirito Santo]. Il Figlio di Dio ha salvato l’umanità peccatrice sposandola nel seno di sua Mamma e ha consumato queste nozze verginali sul Talamo Nuziale della Croce. Il Verbo nel seno di Maria si unisce all’umanità, si fa uomo per sempre, sono le NOZZE, lo sposalizio di Dio con l’umanità, scelta d’amore che si consumerà sul Talamo Nuziale della Croce dove quest’amore avrà la sua massima espressione nella donazione della propria vita, Lui che era la VITA stessa e nessuno poteva toglierla (cf Gv 10,18).
Gesù ha sposato l’umanità, ha sposato la sua Chiesa e Paolo ben dirà ai suoi fedeli di Corinto “provo per voi una specie di gelosia divina avendovi promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2).
Gesù, dunque, è lo Sposo di tutti i battezzati che sono chiamati ad avere per Lui un amore primario, fondamentale e assoluto che non può essere postposto ad altri amori pur belli e onesti, Lui stesso su questo punto è stato chiarissimo: “Chi ama qualcuno più di me, non è degno di me!” (cfr Mt 10,37). Essere cristiani è un fatto d’amore, di un amore che impone di dare tutto, anche la vita per Lui, perché Lui tutto si è dato a noi.
E qui, carissimi fratelli e sorelle, c’è il cuore del messaggio evangelico di oggi e anche della pagina di Paolo che abbiamo letto come seconda lettura dove Paolo parla di opposizione tra lettera e spirito, tra legge e grazia, tra Vecchio e Nuovo Testamento. Qui c’è la novità che scandalizza i farisei che non vedono digiunare i discepoli di Gesù, qui c’è il vino nuovo che non può essere contenuto da otri vecchi, qui c’è il vestito nuovo che non può essere rattoppato con panni vecchi…
Carissimi, cerchiamo di andare in profondità, lasciamoci illuminare, penetrare dallo Spirito e chiediamoci a quale realtà apparteniamo: a quella nuova del banchetto nuziale o a quella vecchia del digiuno che mi fa credere a posto? Vedete, spesso io mi incontro con cristiani che sono persone buone, molto buone, che vanno a Messa anche, che si comunicano, che si confessano… che cioè aderiscono pubblicamente e puntualmente a pratiche religiose della Nuova Alleanza, del Nuovo Testamento, le loro pratiche sono del Nuovo, ma la loro vita e il loro cuore sono del Vecchio. Si tratta – ripeto – di brave persone, buone, che stanno anche attente a non fare peccati gravi, cercano anche di fare qualche opera buona e con sincerità si credono buoni cristiani. Ma qui c’è un grande e grave equivoco!!! Attenti! Attenti! Essere brave persone, non vuole dire essere bravi cristiani, essere buoni è cosa buona, e vi dirò – io il mondo l’ho girato abbastanza – ci sono bravissime persone dappertutto, ci sono persone buone dovunque. Persone che osservano i comandamenti di Dio, quei comandamenti che Lui ha scritto nel profondo di ogni cuore: persone che non uccidono, non rubano, onorano il papà e la mamma e li assistono nella vecchiaia… persone che fanno opere buone molto belle… quante persone così ci sono nel mondo!!! Ci sono persone così tra i musulmani: quante ne ho potuto conoscere in Africa di persone così…, ci sono persone così tra gli ebrei oggi…, ci sono persone così tra gli induisti, tra i buddisti…Ci sono persone così anche tra i pagani di ieri e quelli di oggi.
Ma vedete, e qui sta l’equivoco fondamentale, il Padre in Cristo non ci chiede più di osservare una legge o delle norme di comportamento, non ci chiede di essere semplicemente delle buone e brave persone, educate che non fanno del male a nessuno. Il Padre ci chiede di amare e seguire suo Figlio, ecco il Nuovo Testamento: amare e seguire Gesù!
Il cristianesimo è un fatto di amore, di amore per Colui che ci ha amato troppo e di più e ci chiede amore, amore, solo amore. Non chiede di osservare innanzi tutto delle leggi, ma che amiamo una Persona più di tutto e di tutti e al di sopra e prima di tutto e di tutti.
Ecco allora, carissimi fratelli e sorelle, usciamo dal Vecchio Testamento dove lo sforzo del fedele è quello di meritarsi la salvezza con le opere: digiuni, elemosine, osservanza dei comandamenti… usciamo fuori da questa mentalità ed entriamo nel Nuovo Testamento dove il primo nostro atto non è quello di fare qualcosa, ma di credere a qualcosa: Noi crediamo che Lui, Gesù, ci ha amato troppo! Ecco questo è l’oggetto della nostra fede: l’amore del Padre conosciuto attraverso Gesù e quest’amore è troppo grande: “Quale grande amore ci ha dato il Padre!” (1Gv 3,1), “il grande amore con il quale ci ha amati” (Ef 2,4)
Il cristiano è innanzi tutto una persona che crede ad un amore troppo grande, che non può mai essere ricambiato abbastanza, per questo ciascuno di noi, io per primo, dobbiamo metterci continuamente in discussione, perché non abbiamo tasse da pagare, leggi da osservare, ma abbiamo un amore da ricambiare: amore chiama amore, amor con amor si paga e noi siamo stati amati troppo! Non è possibile, credetemi, non è possibile credere veramente a quest’amore e stare adagiati nella tiepidezza, in un cristianesimo senza vitalità, senza profondità, senza forza. E se non è possibile per un cristiano adagiarsi nella tiepidezza quanto più lo sarà adagiarsi nel peccato!
Il cristianesimo può intendersi solo così: la risposta della persona umana al grido del Padre che giunge a noi attraverso la voce del Figlio crocifisso: “HO SETE” (Gv 19,28).
Dissetare Dio della sua sete d’amore, per questo abbiamo ricevuto l’Amore stesso del Padre e del Figlio, lo Spirito Santo sorgente viva e inesauribile che in noi “geme” (cfr. Rm 8,26) facendoci così partecipi dell’Amore appassionato di Dio per ciascuno di noi. Qui si situa la terza dimensione sponsale che viviamo con la SSma Trinità: la sponsalità con lo Spirito Santo, Amore del Padre e del Figlio, che ci stringe intimamente nel mistero della Trinità e che, riversando nei nostri cuori senza misura l’amore di Dio (cf Rm 5,5) ci regala la capacità di amare come sa amare il Padre che ci ha donato il suo Unico Figlio (cf Gv 3,16) e come sa amare il Figlio che ci ha donato la vita (cf Gv 10,11; Gal 2,20, ecc.).
La Vergine Maria, Figlia ubbidientissima del Padre, Mamma amorosa e discepola fedele del Figlio e Sposa Immacolata dello Spirito Santo ci guidi nei sentieri dell’Amore Trinitario perché ciascuno di noi possa realizzare sempre più intimamente la propria unione sponsale con Dio Amore (cf 1Gv 4,8.16). Amen. j.m.j.
Dodicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Egli se ne stava a poppa, sul cuscino e dormiva!”
Carissimi fratelli e sorelle,
ritorna oggi nelle nostre liturgie domenicali il colore verde del Tempo Ordinario, infatti dopo la conclusione del Tempo Pasquale con la domenica di Pentecoste il 4 giugno, la domenica successiva abbiamo celebrato la solennità della SSma Trinità e domenica scorsa quella del Corpus Domini.
Le immagini che ci comunica l’odierno Vangelo sono molto forti, intense e ricche di messaggio celeste. Questa pagina di Marco è tratta dal capitolo quarto, siamo nel contesto della prima parte di questo Vangelo dove il suo autore tratta dell’inizio della manifestazione pubblica di Gesù.
In essa Gesù si manifesta come Colui che è il più forte, in Lui agisce tutta la potenza di Dio: parla con autorità, caccia i demoni, guarisce i malati, seda le tempeste, fa risorgere i morti. Gesù dunque si presenta al mondo come il Maestro e il Dominatore: domina sul demonio, sulle malattie, sulla morte, sulla natura. Al termine di questa sua manifestazione Egli poi chiederà ai suoi discepoli: “La gente chi dice che Io sia?… e voi chi dite che Io sia?”.
Nel contesto di questa manifestazione ecco la pagina odierna che abbiamo proclamato. Siamo a Cafarnao, sul Mare di Galilea dove Gesù ha stabilito la sua sede operativa nella casa di Simon Pietro. Al termine di una giornata di intensa predicazione, il Signore invita gli Apostoli ad attraversare il lago: “Passiamo all’altra riva”. Certamente questa frase e questo gesto di Gesù, di attraversare con i discepoli quel lago, nasconde un messaggio spirituale di grazia per ciascuno di noi che nell’oggi della sua storia personale legge questo Vangelo.
Proviamo ad introdurci in questa pagina evangelica con uno spirito di preghiera adorante e contemplativa, gustando intimamente le risonanze interiori di quanto il Signore Gesù, nel suo Santo Spirito, voglia farci gustare attraverso di essa.
Ascoltiamo, dunque, Gesù che dice ai discepoli: “Passiamo all’altra riva” e fermiamoci in affettuosa preghiera davanti allo stesso Gesù che oggi, adesso, fa a noi la stessa proposta: “Passiamo all’altra riva” e fermiamoci a gustare questa frase che lo Spirito Santo fa echeggiare nel nostro cuore: “Passiamo all’altra riva!”.
Viene spontaneo chiedersi su quale riva ci siamo ancorati, qual è questa riva dalla quale il Signore desidera farci traslocare? La vita cristiana infatti è un cammino dove non ci si ferma mai, si va dietro a Lui e chi si ferma finisce per perderLo di vista. Poveri noi se ci accontentiamo di quelle piccole mete che abbiamo raggiunto e ci bloccano in qualche porticciulo tranquillo dove cessiamo di metterci in gioco, cessiamo di aprirci alla novità perché timorosi di scomodarci.
Gesù viene a disturbare la nostra falsa tranquillità e con il suo invito pressante scuote le fibre più intime della nostra anima: “Passiamo all’altra riva!”. Qui sarebbe bello far memoria di tutti i passaggi importanti della nostra vita, in particolare della nostra vita spirituale, momenti nei quali abbiamo capito che dovevamo passare all’altra riva e abbiamo deciso di farlo, l’abbiamo fatto e ci siamo riusciti: l’altra riva l’abbiamo toccata. Ma forse è da tempo che il Signore ci fa capire in mille modi che non possiamo continuare a stare fermi su questa riva e ci chiama ad un’altra riva, ma ancora, forse, ci manca la decisione, ci manca la volontà, ci manca la fiducia in Lui che ci chiama alla traversata…
È bello sapere che il passaggio, la traversata non avviene da soli, ma Lui sta con noi sulla “barca”: è lì a poppa che dorme su un cuscino! Che bella anche quest’altra immagine: quante cose mi dice questo Gesù che dorme mentre attorno è tempesta, è paura e terrore! E Lui dorme!
Quante volte anche noi abbiamo gridato con il Salmista: “Svegliati, Signore! Perché dormi?” (Sal 44,24). Di fronte a tanta ingiustizia, a tanto dolore innocente, di fronte alle mille amarezze della nostra vita, nel mezzo di qualche piccola o grande tempesta che ci ha investito, anche noi con gli Apostoli, abbiamo gridato con amarezza e forse proprio in questo tempo lo stiamo facendo: “Signore, perché dormi? Non t’importa proprio che noi stiamo per morire?… Non t’importa proprio nulla di noi e della nostra barca che affonda?”.
Ma forse è proprio questo il passaggio che oggi il buon Gesù ci chiede: una più completa e piena fiducia in Lui e in quell’amore del Padre che Lui ci ha fatto conoscere. Affrontare la vita e ogni sua tempesta con quella serena fiducia e confidenza di sapersi nelle sue mani, “tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio alla sua mamma” (Sal 132,2), mani forti e potenti, perché mani di Dio, mani di chi può tutto e ha fatto tutto (prima lettura). E così lasciar dormire Gesù, lì a poppa, sul cuscino, mentre la nostra barchetta sconquassata fa acqua da tutte le parti, ben sicuri e certi che non si affonda perché sappiamo bene ormai che Lui ci ama.
Il grido degli Apostoli impauriti – “Signore, ma non t’importa che moriamo?” – richiama fortemente alla nostra memoria un altro grido che risuonò nella notte del dolore più grande: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Proprio questo grido ci rende più dolce il rimprovero di Gesù ai discepoli terrorizzati dalla forza della tempesta. Infatti, il Signore nel suo morire in Croce, ha voluto far suo il grido d’angoscia di ogni uomo che nella parabola della propria esistenza si scontra con le varie tempeste della vita che lo caricano di dolore e paura, situazioni nelle quali esperimenta la propria assoluta impotenza che lo fanno gridare: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Consegnandosi alla morte per ubbidire alla volontà del Padre alla quale si era completamente e assolutamente rimesso, Gesù Crocifisso morendo, abbandonato alla morte dal Padre, ci rivela proprio come non sia vero che al Padre “non gli importa che moriamo”, gli importa a tal punto che non ha voluto che morissimo soli con una morte senza valore e senza sbocchi, ma ha voluto che il suo Figlio, il suo Figlio Unigenito, la condividesse fino in fondo, fino all’ultimo straziante grido di una vita che muore.
Nello stesso tempo Gesù Crocifisso consegnandosi alla morte, ubbidendo al Padre fino in fondo, dona al Padre da parte dell’umanità di cui Egli ha voluto far parte intrinsecamente nascendo dalla Vergine Maria, dona al Padre l’atto umano di fiducia al suo amore più completo e perfetto, fidandosi di Lui anche nell’oscurità della morte, fiducioso che “dopo l’intimo tormento vedrà la luce” (Is 53,11), perché “non abbandonerà la sua vita nel sepolcro, né lascerà che il suo santo veda la corruzione” (Sal 16,10).
Tornando al nostro Vangelo e agli Apostoli terrorizzati dalla forza del vento e delle onde mentre Gesù dorme a poppa sul cuscino, ricordiamo come qualche santo, meditando questa pagina evangelica diceva al suo Gesù: Dormi pure Gesù, io voglio essere quel cuscino sul quale il tuo capo riposa.
Ma a noi che ancora non abbiamo raggiunto questa santità e siamo poveri di fede e poveri di amore, conviene svegliarLo Gesù, incomodarLo e gridargli la nostra paura, perché, sì, Egli ci rimprovererà per la nostra poca fede, ma poi nella sua tenerezza d’amore sgriderà al vento e al mare e si farà sereno nella nostra anima.
La Vergine Maria che seppe star ferma e fiduciosa nella terribile tempesta della Passione del suo Figlio, ci aiuti a rinnovarci nella fede e a crescere nell’intimità con Gesù che desidera ardentemente comunicarci la forza del suo amore per introdurci in una nuova e più profonda conoscenza di Lui che è morto per noi perché noi vivessimo per Lui (seconda lettura).
Amen.
j.m.j.
Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Chi mi ha toccato?”
Carissimi fratelli e sorelle,
la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho finito di leggere le letture di questa domenica per preparare l’omelia, è stata: Ma quanta ricchezza di grazia! Quanta tenerezza! Quanto amore in queste letture! Ma come faccio a fare un’omelia: qui ci sono troppe cose da dire, ma soprattutto qui ci sono molte cose da gustare, da gustare in preghiera, in ginocchio e con il cuore aperto che si lasci ferire da tanto amore, si lasci toccare, scuotere, aprire…Come sarebbe bello se durante questa settimana, non accontentandoci di quanto oggi ascoltiamo qui, riprendiamo i brani di questa Parola di Dio e li ruminiamo nel cuore e lasciamo che la sua luce entri, illumini, riscaldi e infiammi i nostri poveri cuori!
Un uomo buono, un certo Giairo, uno dei capi della sinagoga, ha una figlioletta che sta morendo e con grande insistenza chiede a Gesù di venire a guarirla. Qui si apre a noi la problematica del dolore presente nel mondo, soprattutto quello innocente e nasce spontanea nel cuore di tutti noi quella domanda che ci interpella con violenza: Perché la sofferenza, perché il dolore innocente? Se Dio è buono perché permette tutto questo? Ma al di là di questa domanda, anche quando non si è di fronte al dolore innocente, rimane sempre il fatto ineluttabile che, prima o poi, l’uomo o la donna debbano morire. La morte, insieme alla sofferenza che essa comporta, è il più grande scacco che l’uomo deve subire e di questo scacco egli è tentato da sempre di incolparne Dio.
Ma non è così. Almeno noi cristiani ben sappiamo che non è così, anche se spesso, anche noi, a causa della nostra poca fede, cadiamo in tentazione su questo punto.
La prima lettura odierna, tratta dal Libro della Sapienza ci ricorda come il Signore Dio creò tutto per amore e per la vita, non creò la morte e la sofferenza, queste sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato dei progenitori: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
La morte, dunque, e la sofferenza nelle sue variegate sfaccettature se le è attirate su di sé e se le attira l’uomo stesso. Il brano della Sapienza che abbiamo letto è preceduto da un versetto che non è stato riportato e che dice: Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con l’opera delle vostre mani.
C’è un saggio proverbio popolare che dice giustamente: Gli sbagli si pagano. Questo è il frutto proprio della libertà dell’uomo, che è libero di scegliere, ma non può scegliere senza assumersi le conseguenze delle sue scelte non giuste. Tutto nella vita si paga, prima o poi e una vita spensierata è, quasi inevitabilmente, il presupposto di una vita rovinata. Il fatto eclatante della rovina in cui sono precipitate le nostre famiglie ne è una prova.
Ma rimane pur sempre nel cuore dell’uomo, di fronte alla sofferenza, e soprattutto a quella degli innocenti, un forte senso di rabbia, di perplessità e di accusa nei confronti di Dio, accusandoLo di una fondamentale ingiustizia nei confronti dell’uomo innocente che soffre.
Ma “Dio non gode della rovina dei viventi” e, anche perché l’uomo capisse questo, ha voluto Lui stesso farsi uomo e soffrire ingiustamente dopo aver fatto del bene a tutti. L’uomo ora non potrà più accusare Dio di disinteresse e di ingiustizia, perché anche Lui ha voluto subire lo scacco della sofferenza e della morte e ci ha insegnato così come soffrire e come morire, accogliendo la sofferenza e la morte trasformandole come dono di sé al Padre nelle cui mani dobbiamo rimettere la nostra vita, ben sapendo che la vita terrena è solo un passaggio, un pellegrinaggio, una prova e una porta della vita eterna. Tutte le problematiche del dolore innocente e della morte vengono immediatamente ridimensionate quando si introduce nel discorso la “vita eterna”. Senza l’orizzonte della vita eterna la vita umana è inspiegabile, senza senso, senza valore, senza finalità. Non pensare alla vita eterna, estromettere la vita eterna dai propri orizzonti significa rinchiudere la vita terrena nell’orizzonte dell’inspiegabilità, della perplessità e della rabbia.
Tornando al nostro Vangelo, Gesù, sollecitato da questo papà che ha la figlioletta agli estremi, s’incammina verso la sua casa, attorniato da una calca di persone che Gli si stringe attorno e ad un certo punto lascia stupiti gli apostoli domandando chi Lo avesse toccato. Una folla lo accalca e Lui domanda chi Lo sta toccando? Vedete bene come questa frase di Gesù nasconde un grande messaggio che tocca soprattutto noi, per così dire “di Chiesa”, che oggi, apparentemente, Gli stiamo più vicini degli altri.
Gesù desidera essere toccato da noi, ma non fisicamente, desidera essere toccato dentro, nel cuore, in quel suo Cuore divino-umano sensibilissimo e amante dell’umanità. Ciò che tocca il Cuore di Gesù è la nostra fede speranzosa in Lui, la nostra fiducia incondizionata, il nostro affidarsi a Lui come all’Unico nostro Salvatore, “l’Unico in cui poter trovare salvezza” (At 4,12), L’Unico che può dare senso e significato alla mia vita e alla mia morte.
E, giunti a casa del povero Giairo, trovano tutti nel pianto del lutto per la morte della figlioletta. Ma Gesù fa cacciare tutti fuori: dove entra Gesù non c’è spazio per il lutto, così come dove entra la luce non c’è più spazio per le tenebre. E presa per mano la fanciulla le ordina di alzarsi: «Talità kum!» e la fanciulla ubbidisce.
Leggiamo in questo miracolo, come in ogni altro miracolo di Gesù, un simbolo di una realtà spirituale nascosta. La morte fisica è segno della morte spirituale. Gesù è venuto a liberarci da tutte le morti, fisiche e spirituali, e la sua liberazione avviene sempre così: Ci prende per mano e ci chiede di alzarci. In Gesù, in Gesù Risorto viene dato all’uomo la possibilità di entrare nella dimensione della vita eterna già da quaggiù.
L’esperienza cristiana è esperienza di vita, di vita eterna che entra dirompente nella dimensione della vita terrena liberandola dal dominio della morte entrata nel mondo per invidia del diavolo. Coloro che appartengono al diavolo fanno esperienza continua della morte (prima lettura), coloro che appartengono a Gesù, fanno esperienza della vita. Come si appartiene all’uno o all’Altro? Attraverso le nostre scelte di ogni giorno noi decidiamo a chi appartenere, se scegliamo il peccato apparteniamo a satana, se scegliamo il Vangelo apparteniamo a Gesù. Le nostre scelte mettono quindi in gioco in continuazione la nostra appartenenza e quindi la nostra felicità eterna. Possiamo in qualunque momento ripudiare quanto il Signore ci ha donato in eredità (seconda lettura) o possiamo ratificarne il possesso, a noi la scelta.
La Vergine Maria, che ha tanto a cuore la nostra salvezza, c’invita con insistenza a scegliere e decidere di fare quello Gesù ci ha indicato (cf Gv 2,5) e di appartenere così solo a Lui godendo con Lui della sua pace, gioia e vita.
Amen.
j.m.j.
Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario Omelia
“E si scandalizzavano di Lui”
Carissimi fratelli e sorelle,
oggi entriamo con Gesù a Nazareth, il paese dove il Figlio di Dio visse dall’infanzia ed era conosciuto come “il figlio del carpentiere” (Mt 13,55), “il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone” (Mc 6,3), il paese dove tutti Lo conoscono perché Lo hanno visto crescere, giocare, lavorare nell’umile bottega di Giuseppe, il paese dove ha tanti parenti, parenti che sono molto preoccupati di Lui. Infatti, poche righe prima di parlarci della sua visita a Nazareth, Marco narra di come i parenti di Gesù, preoccupati delle cose che sentivano dire di Lui, erano andati a Cafarnao per cercare di riportarlo a Nazareth, perché lo credevano “fuori di sé” (cfr. Mc 3,20-21). Anche l’evangelista Giovanni fa notare nel suo Vangelo come i “fratelli” di Gesù non credevano in Lui (cfr.Gv 7,5).
A proposito dei “fratelli” e delle “sorelle” di Gesù, è bene ripetere ogni volta che appaiono nel Vangelo – a pro di coloro che ancora non lo sapessero – che questo termine nella lingua ebraica indica la generalità della parentela e non semplicemente i fratelli e le sorelle carnali. Neanche deve trarci in inganno il termine “primogenito” di Maria (Lc 2,7) a Lui attribuito dall’evangelista Luca, in quanto esso si riferisce al titolo conferito al primo nato della famiglia indipendentemente dal fatto che vi siano successivamente altri fratelli. Gesù è in effetti “il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29) che sono frutto del parto doloroso di Maria sotto la croce quando il Figlio di Dio Le consegnò come figli la moltitudine di coloro che sarebbero rinati a nuova vita per il suo sacrificio redentivo: “Donna ecco tuo figlio… figlio ecco tua madre” (Gv 19,26-27). Ricordiamo poi come Gesù abbia anche voluto precisare che la vera parentela che Lui ha con noi è quella che nasce dall’osservanza della Parola del Padre e non da vincoli di carne e di sangue (cfr. Mc 3,33-35; Mt 12,48-49; Lc 8,21).
Detto questo cerchiamo di entrare nel Vangelo di oggi, in questa prima visita di Gesù al suo paese di Nazareth dove l’evangelista mette in rilievo la reazione dei suoi compaesani: “si stupirono” e “si scandalizzarono” di Lui.
Lo stupore nasce nella persona di fronte a ciò che non è previsto, non è programmato, non è inscatolato nelle proprie categorie, a ciò che è fuori schema, a ciò che è diverso da come uno se lo aspetta o immagina. Per i nazaretani Gesù non poteva essere un profeta, non poteva essere il messia, perché Lo conoscevano, conoscevano la sua parentela, Lo avevano visto crescere… era un nazaretano come loro e i nazaretani da sempre erano gente senza importanza, povera, umile, senza prospettive alte.
I nazaretani si stupiscono essenzialmente di due cose: della sua sapienza e dei suoi prodigi, sapienza e operare prodigi sono attributi propri di Dio e quindi dei suoi profeti che parlano e agiscono in nome suo. Essi non accettano Gesù come messia perché secondo loro Dio non poteva scegliere uno di loro come tale. In questo rifiuto dobbiamo leggervi in profondità il rifiuto del mistero dell’incarnazione: il rifiuto di un Dio che si fa uomo assumendone tutta la debolezza escluso il peccato (cfr. Eb 4,15). Il rifiuto che la potenza di Dio si possa manifestare nella debolezza (Seconda Lettura).
Il cristianesimo deve passare necessariamente attraverso questo stupore, un cristianesimo senza questo elemento di stupore è frutto non di conversione, ma di superficialità, di abitudinarietà, di sentimentalismo fondato su un vacuo senso religioso travisato come fede.
Il fatto che questo uomo Gesù di Nazareth sia anche Dio non può essere da nessuno accolto veramente senza passare attraverso lo stupore, la meraviglia e quindi la tentazione fortissima di scandalizzarsi di Lui. Una fede cristiana vissuta senza aver superato questa tentazione è pronta a crollare alla prima prova.
Lo stupore porta necessariamente alla scelta di scandalizzarsi o di credere in Lui. Dei nazaretani i più si scandalizzarono di Lui, cioè non poterono ammettere che Dio agisse in quella debolezza, in quel loro compaesano. Alcuni invece credettero, pochi e per quei pochi Egli fece alcuni prodigi.
Ma fermiamoci anche a contemplare un altro stupore, quello di Gesù, Marco infatti ci dice che Gesù si meravigliò della loro incredulità! Entriamo in profondità nel Cuore di Gesù per assaporare la sua amarezza nel non vedersi accolto, accettato da chi più Lui amava. Entriamo nella sua umana domanda che si pone di fronte alla loro incredulità e all’incredulità di tanti oggi: “Perché? Perché non credete? Eppure la mia sapienza vi ha stupito! Eppure avete visto alcuni prodigi! Perché non volete credete?” Alle sorgente di quei primi cuori increduli vi troviamo la convinzione che Dio non possa scegliere la debolezza e l’umiltà.
Dietro quindi il rifiuto di credere in Gesù si nasconde il rifiuto di credere ad un amore di Dio così grande da abbracciare anche la debolezza e l’umiltà. Rifiutare la persona di Gesù significa rifiutare l’immensità dell’amore di Dio che si dona gratis ai poveri, agli umili, ai piccoli, ai miseri e peccatori. Rifiutare la persona di Gesù significa rifiutare un amore creduto troppo grande per essere vero, troppo bello per essere vero, troppo esagerato per essere vero.
Quello che è successo lì in quella sinagoga di Nazareth si rinnova nella storia dell’umanità ogni volta che qualcuno incontra Gesù o si interroga seriamente sulla di Lui identità. Accettare o rifiutare Gesù significa accettare o rifiutare di essere fatto oggetto di un amore troppo grande: “Non è possibile che io, proprio io, sia amato così da Dio! No, non è possibile”. Questo scandalo nasce da un profondo disprezzo, disistima di se stessi, non riuscendo ad amarci, non capiamo come Lui possa amarci a tal punto e così senza motivo, senza tornaconto, assolutamente gratis.
Credere in Gesù allora significa credere alla Potenza di un Amore straordinario, assolutamente non umano presente in un uomo, Gesù, che porta in sé il mistero di essere pienamente Dio (cfr. Col 2,9) e significa altresì credere che la Potenza di questo Amore straordinario Egli ce la regala gratis se Lo accogliamo nella fede come nostro Dio e ce la comunica in virtù del fatto che è uomo come noi, fratello nostro, primogenito di una moltitudine di fratelli (cfr. Rm 8,29).
Credere in Gesù quindi significa credere nella potenza di un amore che amandoci ci fa nuovi (cfr. Ap 21,5) e capaci di amare alla maniera di Dio (cfr. Rm 5,5). È questo in particolare il vero grande scandalo che l’uomo moderno non riesce a superare: la possibilità concreta che la persona umana possa amare come Gesù, dando la vita (cfr. Gv 13,34).
L’era della tecnica e del progresso, se da una parte porta con sé l’immagine alta di un uomo potente, grande e forte che può tutto nei confronti della manipolazione della natura e delle cose, d’altra parte porta con sé l’immagine di un uomo ben misero e piccolo dal punto di vista etico, incapace di scelte forti, di mantenere i propri impegni di fedeltà e di responsabilità, incapace di dominare se stesso e le proprie pulsioni, un uomo padrone delle cose e nello stesso tempo, schiavo di esse, grande e eminente per la scienza, piccolo e misero per la sua vita morale, capace di andare su Marte, ma incapace di virtù, di eroismo, di santità.
Essere cristiani oggi significa innanzi tutto rifiutare questa visione “umana” dell’uomo e accogliere nella fede la visione “divina” di esso che risplende nell’umanità del Verbo incarnato. Accogliere Gesù significa quindi accogliere un’immagine alta di sé, di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere in Lui (cfr. Ef 1,4-5). Significa credere alla possibilità reale, concreta di essere diversi (cfr. Rm 6,4; 1Cor 5,7; 2Cor 5,17), capaci di novità di vita, capaci di amare di un amore non umano che supera la comprensione del mondo, che il mondo non può capire perché non proviene da esso, ma da Dio (cfr. 1Gv 3,1b).
Che bello, fratelli e sorelle, che bello sarebbe se tutti noi tornando alle nostre case, nell’ordinarietà del nostro tran tran quotidiano cominciassimo, come Gesù, a scandalizzare le nostre piccoli o grandi Nazareth. Cominciassimo a scandalizzare i nostri parenti, magari i nostri stessi figli, o i nostri coniugi, o i nostri amici e colleghi, i nostri conoscenti perché avendo accolto sinceramente Gesù e la potenza del suo Amore cominciamo a mettere in pratica scelte diverse, alte, belle, forti, esigenti reputate impossibili da tutti, ma non da chi come noi ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37).
Pensiamo ad esempio alla scelta gioiosa di stare vicino ad un parente anziano e malato rinunciando ad andare in vacanza… la scelta gioiosa di portare avanti una gravidanza anche se tutti ti prendono per scema… la scelta gioiosa di amarsi nella verginità per prepararsi responsabilmente al matrimonio… la scelta gioiosa di un impegno più responsabile nel lavoro quotidiano… e altre scelte che scandalizzano questo mondo di oggi e di ieri perché non accogliendo la possibilità di un destino alto dell’uomo e accontentandosi di un orizzonte temporaneo e terreno, si rotola nel fango.
E allora carissimi fratelli e sorelle che aspettiamo per scandalizzare questo mondo? Maria SSma ci aiuti, Lei che non ha temuto di scandalizzare il suo Giuseppe quando lo Spirito la investì e la rese Madre, ci aiuti a presentarci al mondo come Lei, presi dallo Spirito, gravidi di Gesù e totalmente fissati nella e della volontà del Padre. Amen.
j.m.j
Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario Omelia
“Incominciò a mandarli a due a due”
Carissimi fratelli e sorelle,
dopo aver assaporato l’amarezza di Gesù di fronte all’incredulità con cui fu accolto nel suo paese di Nazareth e con cui viene accolto dai tanti increduli dei nostri tempi, oggi partecipiamo alla sua gioia in quell’episodio evangelico riportato da Marco in cui Egli, dopo aver chiamato a sé i Dodici e averli ammaestrati, li manda ad annunciare agli uomini il regno di Dio.
Possiamo leggere in quest’episodio il preludio di quello che accadrà dopo la sua resurrezione quando, prima della sua ascensione al cielo darà ai suoi discepoli il comando solenne di ammaestrare il mondo (cfr. Mc 16,15). Ora li manda a due a due a fare esattamente quello che aveva fatto Lui. All’inizio del suo Vangelo Marco, infatti, ci racconta come Gesù, dopo avere ricevuto il battesimo da Giovanni, se ne va girando la Palestina dicendo: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15) e poi Marco ci racconta come Gesù tra i molti che lo seguivano ne scelse 12 e li chiamò “perché stessero con Lui e anche per mandarli a predicare e scacciassero i demoni” (Mc 3,4).
L’invio, dunque, che oggi Gesù fa dei suoi Apostoli alla gente di Palestina, prelude all’invio che farà di loro all’universo mondo ed è stato preparato da un consistente periodo in cui Dodici sono stati con Gesù, hanno condiviso la sua vita, goduto della sua intimità, partecipato ai suoi discorsi, ai suoi incontri con le persone, ai suoi miracoli e ai suoi esorcismi. Questo invio di Gesù è il germe delle attività apostoliche di quell’opera umano-divina che è la Sua Chiesa portatrice nel mondo del mistero della Sua presenza.
Proviamo ad entrare nel cuore dei Dodici, pensiamo alla loro emozione, fin’ora sono stati insieme con Lui, sono stati testimoni di grandi cose, ora Lui li manda agli altri, li manda a due a due, li manda nella povertà e non promette loro neanche che avranno successo, ma li prepara anche a saper accettare di aver corso, parlato, agito invano.
Li manda “a due a due” perché si facciano coraggio a vicenda, perché si capisca che non si è Chiesa Sua da soli, e che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Li manda nella povertà perché non possano mai pensare che l’eventuale successo della loro opera apostolica sia frutto di mezzi umani e capiscano bene che la loro unica forza è Lui presente in loro. È il mistero della Chiesa che inizia a distendersi nel tempo, mistero di una presenza nascosta dal velo della debolezza, del limite, della povertà e a volte – purtroppo! – anche del peccato.
Attraverso questo mistero, la Chiesa, gli uomini di tutti i tempi si possono incontrare con Gesù, l’Unico Salvatore degli Uomini (cfr. 1Tm 2,5) attraverso la mediazione di altri uomini come loro, ecco la Chiesa.
Ora, vedete, carissimi fratelli e sorelle, “questo mistero è grande!” (Ef 5,32) che, cioè, noi ci incontriamo con Gesù, non semplicemente ascoltiamo quello che Lui disse e fece, non semplicemente ci viene ricordato qualcosa di Lui, ma ci incontriamo personalmente con Lui che ci parla, ci tocca e ci salva nell’oggi della Chiesa attraverso poveri uomini come noi: “Grande è questo mistero!”
Per questo in questo giorno in cui ci viene ricordato il primo invio in missione dei Dodici non possiamo non pregare per coloro che Lui oggi ha scelto e mandato in questo mondo ad annunziare a tutti con la Sua Forza e la Sua Autorità il Suo Vangelo, invitando tutti a convertirsi, a credere, cioè, che la propria esistenza non è avvolta da un ineluttabile e casuale destino di cui non se ne può capire il senso, ma che all’origine di essa c’è un Dio che ci ama di un Amore grandioso, immenso, infinito, che ci ha pensati, desiderati, eletti e voluti per essere suoi figli (cfr Seconda lettura – Ef 1,4). Ecco in sintesi il messaggio della predicazione apostolica di ieri e di oggi: “Dio vi ama, lasciatevi amare da Dio, convertitevi a questo amore che vi ha creati e vi ama di amore eterno” (cfr. Lc 12,7; Gv 16,27; 2Cor 5,20; Ger 31,3)
Siamo quindi chiamati oggi a pregare per i ministri del Signore, per coloro che Lui ha scelto misteriosamente. Tutte le cose di Dio sono sempre avvolte nel mistero, ma in particolare la scelta dei suoi ministri. Che mistero la vocazione di un uomo ad un così grande e alto compito! Che mistero! Abbiamo ascoltato nella Prima Lettura il profeta Amos: “Non ero profeta, né figlio di profeta, ero un pastore e raccoglitore di sicomori, il Signore mi ha preso di dietro al bestiame e mi ha detto: Va’, profetizza al mio popolo Israele” (Am 7,14-15)
Ricordo quando ero seminarista, i primi tempi, risuonava spesso ai miei orecchi, dalle persone che via via incontravo e venivano a sapere che io ero seminarista, questa domanda che mi dava così tanto fastidio e non potevo sopportare, la domanda era questa: “Perché hai scelto di farti prete?”. Ma come può una persona “scegliere” di farsi prete? O è pazza o – come purtroppo succedeva in altri tempi – è un povero imbroglione! Se un giovane si incammina per la strada del seminario è solo perché si sente “afferrato” (Fil 3,12) come diceva Paolo o “preso” come disse Amos, o come ancor meglio s’espresse Geremia, “sedotto”: “Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7). E allora spiegavo con pazienza, riuscendo a mala pena a nascondere una certa stizza dell’animo: “Io non ho scelto di farmi prete, ma ad un certo punto della mia vita ho capito che Lui mi chiamava a questo, ne ho avuto la certezza interiore. Perché Lui abbia scelto me, proprio non lo so, io ho solo risposto ad una chiamata”.
Il mistero della chiamata di un giovane alla vita sacerdotale si inserisce in quel modo di fare di Dio, che è proprio tipico Suo, di non far le cose da solo, ma di suscitare collaboratori e far fare a loro, nascondendosi Lui. Mentre per molti è un vanto non aver bisogno di nessuno e fare tutto da soli, per Lui, Dio – che veramente non ha bisogno di nessuno – nel Suo misterioso Amore chiama e cerca collaboratori. Così fu anche “in principio”, alla creazione che fece incompleta perché la completasse l’uomo con l’opera del suo lavoro (cfr. Gen 2,4b-7). Così pure Dio, che avrebbe potuto salvare l’umanità direttamente, vuol farlo attraverso la Chiesa, suscitando in Essa i suoi collaboratori e nascondendosi dietro il velo della loro umanità.
Una delle caratteristiche del Dio biblico è quella che ama nascondersi per essere scoperto dalla fede. Solo quando saremo lassù sarà data alla nostra anima quella capacità soprannaturale che le permetterà di vederLo “faccia a faccia” (1Cor 13,12) quello che i teologici chiamano “lumen gloriæ”. Ora Lui ama nascondersi per farsi scoprire dalla FEDE, la fede e solo la fede oggi ci permette di coglierne la presenza. Beati noi se attiviamo questa virtù della fede che la Chiesa ci ha regalato nel Battesimo e sappiamo scoprire Dio presente in mezzo a noi per arrivare a scoprirLo presente in noi, nel fondo della nostra anima che è il Cielo in cui Lui ama nascondersi di più.
La Chiesa prolunga nel tempo il mistero dell’Incarnazione. E cos’è questo mistero dell’Incarnazione se non il mistero di Dio che si nasconde nel limite, Lui senza limite? Di Dio che si nasconde nella debolezza, Lui l’Onnipotente? Di Dio che si nasconde nella morte, Lui che è la Vita? Di Dio che si nasconde, cioè, in un uomo, Lui che è Dio?
Con l’Incarnazione Dio inaugura il tempo della FEDE, cioè dei sacramenti o segni della sua presenza d’amore. Il primo sacramento, il primo segno è la santa umanità di Gesù Cristo: vedono un bimbetto che piange, un fanciullo che cresce, un uomo che lavora: è Dio che piange, è Dio che cresce e lavora! Che mistero! Vedono un rabbì che predica, che guarisce, che caccia i demoni, che risuscita i morti, vedono un uomo, ma chi vede Lui vede Dio! (cfr. Gv 14,9; Eb 1,3) Che mistero! Vedono un poveraccio umiliato e martoriato, sputacchiato e vilipeso, inchiodato e morto, è Dio che si lascia trattare così. Che mistero! Non meno grande è questo mistero quando risorto e vivo qualcuno metterà il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, anche lui, Tommaso, non vedrà Dio, vedrà Gesù Risorto, non vedrà Dio, Dio in questa vita non si può vedere, eppure dirà per fede: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).
Oggi quell’umanità che Lo nascondeva si prolunga in tanti poveri uomini che Lui sceglie e manda perché il mondo possa incontrarsi con Lui, vederLo, sentirLo, toccarLo e così salvarsi, e così ritrovare dignità, significato, pace, amore vero. Beati i nostri occhi se sanno farsi illuminare dalla FEDE per scoprirLo nascosto nei suoi ministri e accoglierLo in loro: “Chi accoglie voi, accoglie me” (Mt 10,40).
Quest’incontro salvifico che ha tanti teatri in cui viene realizzato, ne ha uno particolare in ogni celebrazione eucaristica in cui attraverso la persona di chi presiede la celebrazione si rende presente Lui in persona.
Vedete, carissimi fratelli e sorelle, che bello quando si vive la celebrazione eucaristica con amorosa fede! Ad esempio, il canto d’ingresso cos’è? Vi siete mai chiesti cosa rappresenta, qual’è la finalità del canto con cui iniziamo la nostra liturgia? Sì, possiamo trovarci vari significati a quel canto: radunare e raccogliere gli animi, esprimere la gioia del nostro stare insieme come fratelli, e altri, ma a me quanto piace invece leggere nel canto che facciamo all’inizio il grido di gioia della Chiesa che accoglie nella fede il Suo Signore Risorto e Vivo presente nella persona del ministro che presiede. Quando entra il Vescovo o il Sacerdote suo delegato a presiedere l’Eucarestia: entra Gesù in mezzo a noi, si realizza visivamente quello che Lui aveva promesso: “Dove vi sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20). Quale gioia dunque se sappiamo vivere questo momento nella fede! Magari sarà un povero vecchio malandato: entra Gesù, è Gesù che viene a noi e in mezzo a noi! Magari sarà un povero uomo che non sa neanche predicare bene: è Gesù che viene! Magari sarà un povero uomo pieno di difetti e forse – chissà! – anche di peccati personali: è Gesù che viene a noi! Che mistero! Questa è la Chiesa! La Chiesa è il nascondiglio di Gesù. Nella Chiesa Gesù trova vari nascondigli: si nasconde nell’assemblea, si nasconde nella Parola, si nasconde nel suo ministro, si nasconde nell’Eucaristia (cfr. CV2 – SC 7).
Gesù si nasconde per incontrarci! Ama essere cercato, scoperto, abbracciato! E ogni domenica ci chiama, ci raduna, ci convoca per rinnovare il Suo incontro con noi, per parlarci al cuore del Padre suo, per invitarci ad una vita più bella, più alta, donarci se stesso nell’Eucaristia e sostenerci lungo il cammino – alle volte tremendamente pesante – della vita e per continuare a mandarci, come mandò i Dodici a questo mondo che non crede – ma che vorrebbe tanto poterlo fare! – per testimoniare ad esso nelle nostre persone che il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 17,21).
Maria, “Donna della fede” che fu beata perché credette (cfr. Lc 1,45) ci sostenga in quest’incontro con il suo Figlio e sappiamo comunicare al mondo la gioia di averLo incontrato.
Amen.
j.m.j.
Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario Omelia
“Venite in disparte, in un luogo solitario”
Carissimi fratelli e sorelle,
domenica scorsa avevamo lasciato i Dodici che per la prima volta andavano in giro, a due a due, a predicare il Vangelo, Gesù li aveva mandati nella povertà e nell’umiltà ad annunciare il Regno.
Oggi partecipiamo al ritorno di questa loro prima missione, gli apostoli raccontano a Gesù quanto hanno fatto, esperimentato, vissuto annunciando il Regno. Sono stanchi, hanno camminato molto, hanno incontrato tanta gente, hanno faticato. La loro predicazione è stata benedetta da Dio, infatti tantissima è la gente che li ha seguiti per conoscere il Maestro e Lui allora li invita a riposarsi, ad andare “in un luogo solitario”.
Sappiamo da quanto abbiamo ascoltato come questo invito non poté essere realizzato perché la gente li assediava. Ma prendiamo spunto da questo invito di Gesù per dare uno sguardo alla nostra vita e vedere se c’è spazio in essa per questo “riposarsi in un luogo solitario”.
Il tempo estivo che viviamo ci fa partecipi di questa corsa affannosa alla ricerca di un riposo, di una vacanza, di uno svago che spesso si tramuta in una fatica in più e si ritorna più stanchi di prima. La nostra esistenza ha bisogno di spazi di “silenzio”, di “deserto”, di “riflessione”, la vita ci sfugge e viviamo senza accorgercene, abbiamo bisogno di “staccare” di “fermarci” per prenderne possesso nella consapevolezza di essa e del suo significato, altrimenti viviamo senza accorgecene e senza capirne il perché, divorati dal tempo che inesorabile ci rapisce velocemente la vita.
Che bella questa scena in cui gli apostoli si radunano vicino a Gesù e gli raccontano la loro storia, con Lui rileggono la loro storia: quanto hanno fatto, detto, subito nel Suo Nome. Come sarebbe diversa la nostra vita – carissimi fratelli e sorelle – se in essa ci fossero sparsi qua e là questi spazi d’incontro con Gesù in cui Gli raccontiamo la nostra storia, quanto abbiamo fatto, detto, subito per il Suo Nome.
Che bello la sera trovare un minuto – un minuto! – per chiedersi davanti a Gesù: “Oggi cosa ho fatto per te, Gesù? Cosa ho detto di Te, Gesù? Cosa ho subito per Te, Gesù?”.
Piccole domande che racchiudono tutto il senso profondo della nostra vita, della nostra missione di cristiani chiamati a far conoscere al mondo l’Amore di Dio.
Che bella la nostra vita quando è intercalata dalla “domenica”. Il Signore Gesù ogni domenica rinnova a noi l’invito: “Venite in disparte e riposatevi un po’”. Quante volte mi sono sentito dire dalle persone: “Padre, quando riesco ad andare a Messa la domenica, tutta la settimana mi sembra diversa, più serena”. Che senso ha infatti tutto quel tempo che ci sfugge tra un’azione e l’altra, tra una corsa e l’altra, tra una cosa da fare e l’altra, tra un affanno e l’altro, se tutto questo fiume di vita che scorre senza fermarsi non lo riversiamo nell’Oceano dell’Amore di Dio? Verso dove scorre il fiume della nostra vita se non verso quest’Oceano?
Sono molti i cristiani che sempre più comprendono questa necessità dell’anima di riposarsi nell’incontro con Gesù e così partecipano ai vari ritiri mensili o annuali, in cui ci si ferma con Gesù in disparte per riprendere possesso di noi stessi e delle motivazioni più profonde della nostra vita per riproiettarci in essa con più energia d’amore.
Ma agli Apostoli non è concesso questa volta riposarsi, la folla li insegue e non dà loro tregua. Vorrebbero prendersela con loro, arrabbiarsi, ma non possono perché il loro Maestro insegna loro a commuoversi per quella gente che “sono come pecore senza pastore”, sono sbandati senza nessuno che si interessi con amore e per amore di loro, dei loro guai, delle loro preoccupazioni, delle loro vicissitudini. Senza nessuno che annunci loro l’Amore di Dio: “Dio vi ama ed è vostro Padre”. L’evangelista Marco ci dice che Gesù cominciò ad “insegnare loro molte cose”, cosa insegnò loro il Maestro se non che erano amati dal Padre e che la loro vita apparentemente abbandonata a sé si svolge nel cavo delle sue mani, sotto il suo sguardo d’Amore? (cfr. Is 49,15-16).
E Gesù continua nell’oggi della Chiesa a commuoversi per la sua gente, a istruirla, a parlare loro del Padre che li ama attraverso coloro che Lui ha scelto per costituirli “Pastori”, ai quali comunica il Suo affetto per l’umanità tutta che Egli ha abbracciato nell’Incarnazione e attraverso i quali Lui stesso parla, tocca e salva le persone oggi. Uno solo infatti è il Buon Pastore che ama le sue pecore e dona la vita per esse (cfr. Gv 10): è Lui, Gesù, il Buon Pastore, che vive in essi e agisce attraverso di essi.
Continuiamo così anche questa domenica a parlare dei sacerdoti in questo anno particolare che il Santo Padre ha voluto che dedicassimo proprio a loro, i sacerdoti che sono chiamati a renderci presente l’amore di Gesù Buon Pastore. Volevo – carissimi fratelli e sorelle – che rifletteste su un aspetto particolare della vita del sacerdote, in particolare del sacerdote cattolico romano chiamato dalla Chiesa ad abbracciare anche il celibato. Quante storie su questo celibato, quante chiacchiere vuote su di esso, ecco volevo ricordare a voi e a me i tre significati del celibato sacerdotale, il primo è cristologico: l’imitazione di Gesù che non si è sposato, Egli è il Vergine; il secondo è escatologico (che riguarda cioè l’escaton – l’al di là): lassù nessuno prenderà moglie o marito, ma saremo come gli angeli del cielo (cfr. Lc 20,34-36); il terzo è ecclesiologico: il prete non si sposa perché le sue braccia non possono stringersi su una persona sola, egli deve abbracciarle tutte, tutte indifferentemente: bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani…… ricchi, poveri e abbienti… bianchi, gialli o neri… rozzi o intelligenti… sani o malati… egli deve abbracciare tutti, deve amare tutti, deve compatire tutti, deve servire tutti, deve immolarsi per tutti, in particolare le sue braccia si distenderanno sui poveri, gli abbandonati, i soli, i malati, ma senza escludere gli altri. Il prete, il vero prete, non può non essere innamorato dell’umanità tutta perché in Lui c’è vivo il cuore del Verbo Incarnato che quest’umanità ha sposato nel seno di Sua Mamma e per quest’umanità è morto in croce dissanguato d’amore.
Ecco pensiamo qualche volta a questo quando ci troviamo davanti un prete o parliamo di lui. Egli è il segno tangibile che Dio ancora ci ama e ci abbraccia in quelle braccia che hanno rinunciato, per amore nostro, all’abbraccio.
Preghiamo dunque – carissimi fratelli e sorelle – per i nostri preti perché sappiano compatirci come Gesù, sappiano illuminarci come Gesù, sappiano, soprattutto, aiutarci a portare la croce con Gesù, risollevandoci con amore e compassione quando cadiamo sotto il suo peso e sostenendoci lungo il cammino faticoso della vita donandoci Gesù nella sua Parola e nell’Eucarestia e insegnandoci a “stare” con Lui nell’intimità della nostra anima.
La Vergine Maria, Madre e Regina degli Apostoli, interceda per i nostri preti, perché sappiano essere veri strumenti della presenza del Figlio suo nell’oggi del mondo, della sua tenerezza e della sua compassione.
Amen.
j.m.j.
Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario Omelia
“Dove troveremo il pane per sfamare tanta gente?”
Carissimi fratelli e sorelle,
in questo anno dedicato a Marco apriamo oggi una parentesi che ci accompagnerà lungo queste accaldate giornate estive per ben cinque domeniche nelle quali la Chiesa spezzetterà per noi il capitolo sesto di S. Giovanni, il capitolo del grande discorso eucaristico di Gesù nella sinagoga di Cafarnao che ha la sua premessa nella moltiplicazione dei pani di cui oggi siamo testimoni attenti attraverso la Liturgia della Parola.
Avevamo lasciato domenica scorsa il nostro sguardo su Gesù che si commosse per quella folla che era come “pecore senza pastore” e che “si mise ad insegnare loro molte cose” (Mc 6,34). Riprendiamo ora a fissare quello sguardo compassionevole attraverso la prosecuzione del racconto da parte dell’evangelista Giovanni.
La folla è tanta e ha fame…
Nessuno può saziare la loro fame, il luogo è deserto, non è possibile procurarsi cibo eppure saranno saziati! Quella folla che ha fame ci indica l’umanità di ieri e di oggi che è oppressa dalla sue fami, desideri profondi che salgono al cielo come gridi di impetrazione: fame di pane materiale, di un lavoro, di una casa, di un avvenire per i propri figli; fame di dignità, di giustizia, di libertà, di pace; fame di vita, di felicità, di amore e di perdono! Chi potrà saziare la fame di tutta questa gente?
È Lui, solo Lui che può farlo: L’unico Salvatore degli uomini, Gesù Cristo (cfr. 1Tm 2,5), nessun altro ha questo potere di ridare dignità alla persona umana e soddisfarla pienamente in quelle sue fami e seti più profonde di vita e di amore. E Lui continua a fare questo nel mondo attraverso la Sua Chiesa che si adopera dappertutto perché gli uomini e le donne possano incontrarsi con Lui ed essere saziati e salvati.
La folla è tanta e ha fame…
Gesù lo sa… Gesù lo sa che hanno fame e vuole così anche educare i suoi Apostoli alla sensibilità verso gli altri, a interessarsi delle necessità degli altri e a non vivere, quindi, come se non le sapessero. Per questo, Lui, il Maestro, chiede a Filippo: “Come possiamo fare per sfamare questa gente? Dove possiamo prendere il pane?”.
Filippo cerca una soluzione al problema all’esterno, ma realizza subito che non è possibile farlo perché occorrerebbero troppi soldi e non li hanno, né, d’altra parte, c’era vicino un luogo dove poter trovare tanto pane.
Andrea, invece dà un’occhiata in giro per vedere se c’è del cibo nel gruppo e scopre un ragazzo con pochi pani e qualche pesce.
Penso che questi due apostoli con i loro interventi siano indicativi di due atteggiamenti presenti in ciascuno di noi di fronte alle problematiche più grandi di noi. Un atteggiamento che ci porta a riversare su altri, all’esterno, il problema fino al disinteresse personale. Secondo l’evangelista Marco questo sarà l’atteggiamento non solo di Filippo, ma di tutti gli apostoli che di fronte a questo fatto inviteranno Gesù a congedare la folla perché ognuno si arrangiasse come poteva (cfr. Mc 6,35-36).
Andrea invece cerca soluzioni all’interno del gruppo e trova un ragazzino che ha quei pochi pani e pesci. Ecco, penso che il Signore ci voglia anche dire attraverso questo episodio che pure se siamo gente semplice che non ha i mezzi o il potere di cambiare il mondo in bene e di poter saziare quelle fami che attanagliano il cuore delle moltitudini e di risolvere i problemi dell’umanità, eppure ci è stato dato di avere qualche pane e qualche pesce da offrire generosamente per questo.
Quanta gente Lui sfamerà con quel poco che Gli diamo non è dato a noi saperlo se non quando saremo lassù e allora capiremo fino in fondo il valore delle cose e della vita e le conseguenze di ogni nostra singola e piccola azione per il Regno.
Una domanda – penso – sia necessario porsi di fronte a questo episodio evangelico, la domanda è questa: “Ma se quel ragazzo non avesse messo a disposizione di Gesù quei pochi pani e pesci che aveva, Gesù avrebbe sfamato la folla?” È una domanda inquietante perché sentiamo il peso di questa risposta nella nostra vita di ogni giorno.
Quante persone che soffrono la fame cercando affannosamente un pane che sazi la propria fame di significato, di vita, di pace, d’amore potrebbero essere saziati e non lo sono perché non c’è chi mette a disposizione quel poco di pane che moltiplicato da Lui potrebbe sfamarli?
Ricordo, nel cammino della mia vita, come da giovane mi colpì tantissimo una frase di Giovanni XXIII, che lessi in un libro che provvidenzialmente capitò nelle mia mani, esso sarà il canale di quella grazia che mi porterà poi inaspettatamente verso la vita religiosa e il sacerdozio. Il “Papa Buono” parlava del ministero della Chiesa di “incanalare energie al bene”. Quante energie sono sotterrate, nascoste, imprigionate e imbrigliate da varie paure, timori e motivazioni futili. Quante energie da incanalare al bene! Ricordo quando ero parroco, riflettendo su quanto la comunità parrocchiale facesse nei suoi vari servizi, constatavo come spesso erano solo sempre pochissime persone che facevano tutto: pulivano la chiesa, facevano catechismo, aiutavano in segreteria, andavano a trovare i malati e i poveri e quant’altro servisse. Poche persone impegnate che facevano questo, quest’altro e quest’altro ancora e i più niente! niente!
Quante “energie da incanalare al bene” ci sono in mezzo a noi! Quanti pani e pesci tenuti nascosti che potrebbero messi in mano a Gesù sfamare tanta gente?
Non possiamo concludendo questa omelia, non fare un accenno a questa Eucaristia che celebriamo dove Gesù si renderà presente come “Pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,41) per sfamarci di Lui e donarci vita eterna (cfr. Gv 6,54). Quello sguardo che si commosse di fronte alla fame di quella gente, si commuove oggi per ciascuno di noi, Gesù conosce tutto di noi (cfr. Gv 2,24-25), Egli sa quali sono i sospiri, i desideri profondi della nostra anima, quelli che nessuno conosce se non noi stessi. Lui li conosce bene e si commuove per noi perché ci ama e desidera vederci felici, soddisfatti, gratificati. È questo anche il senso dei “dodici canestri” pieni dei pesci e dei pani avanzati. Gesù vuole che la nostra vita sia piena, straripante di gioia, talmente piena da riversarsi fuori e qui, e in ogni Eucaristia, c’insegna il segreto di questa pienezza di vita e di gioia, il segreto della sapienza cristiana che il mondo non conosce e non può conoscere perché non ha conosciuto Lui (cfr. 1Cor 1,17ss; 1Gv 3,1), il segreto è questo: “Chi ama la vita la perde, chi la perde la trova” (cfr.Gv 12,25). Donandosi a noi con il Suo Corpo immolato e il Suo Sangue versato, Egli ci rende partecipi di quell’Amore che Lo inchiodò al legno perché anche noi possiamo donarci ai nostri fratelli (cfr. 1Gv 3,16). Ogni Eucaristia è una scuola dove impariamo ad amare, cioè a non cercare noi stessi, a dimenticare noi stessi, a morire a noi stessi per vivere la vera vita, infatti “chi mangia di me, vivrà per me” (Gv 6,57)
Maria SSma, Madre e Discepola del Figlio, ci insegni a vivere ogni incontro eucaristico in quell’amore profondo con cui Lei visse ogni incontro con Lui, dal Suo portarLo in grembo a Nazareth fino all’abbracciarLo morto sotto la croce per testimoniarLo vivo nel Cenacolo.
Amen.
j.m.j.
Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario Omelia
“IO SONO IL PANE VIVO DISCESO DAL CIELO”
Carissimi fratelli e sorelle,
domenica scorsa avevamo lasciato Gesù tutto solo, infatti dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, Giovanni ci ha raccontato che la gente entusiasta di quel pranzo miracoloso voleva prendere Gesù per portarlo in trionfo e dichiararlo pubblicamente loro Re e Messia, ma Gesù si nascose e si ritirò “tutto solo” su un monte.
Oggi riprendiamo il racconto saltando il brano della traversata del Lago (Gv 6,16-21: i suoi lo precedono su una barca, ma Lui nel bel mezzo della notte li raggiungerà camminando sulle acque del lago agitato).
La folla nel frattempo lo cerca e finalmente lo trova a Cafarnao, ma Gesù non risponde affatto con entusiasmo alla loro gioia di averLo trovato: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato bene, ma non avete capito che quel miracolo era solo un segno di qualcosa di più”.
Qui è opportuno sapere 2 cose:
1°. La prima parte del Vangelo di Giovanni è chiamata anche Libro dei Segni, infatti vi sono sette miracoli, prodigi di Gesù, che, a differenza di quelli raccontati dagli altri Vangeli, non sono chiamati “miracoli”, bensì segni: l’acqua tramutata in vino a Cana (2,1ss); guarigione del figlio di un funzionario regale (4,46ss); guarigione del paralitico alla piscina di Betzaeta (5,1ss); la moltiplicazione dei pani (6,1ss); Gesù che cammina sulle acque (6,16ss); la guarigione del cieco nato (9,1ss); la resurrezione di Lazzaro (11,1ss). I segni di Giovanni sono sette contro le svariate decine di miracoli raccontati dagli altri evangelisti.
2° Mentre in Marco, Matteo e Luca tutti i miracoli di Gesù sono preceduti dalla fede del miracolato, fede della quale Gesù si compiace, non così in Giovanni dove tutti i segni di Gesù non sono preceduti dalla fede, ma generano la fede. Si tratta di due visioni complementari che insieme illuminano il mistero della persona di Gesù Cristo e della nostra risposta a Lui che si rivela a noi.
Negli altri evangelisti, chiamati anche Sinottici – perché i loro racconti sono praticamente paralleli – Gesù è il Figlio di Dio che viene enfatizzato come il Messia, il Figlio dell’uomo, il Profeta, il predicatore del Regno di Dio, il taumaturgo pieno di compassione per le folle e i peccatori e i suoi miracoli sono opere di bontà e di pietà e opere potenti che accreditano la Sua missione. In Giovanni, invece, Gesù è il Figlio di Dio che si rivela e che nella Sua Persona rivela Dio e i suoi miracoli, pur rimanendo opere potenti che manifestano la Sua divina potenza, diventano segni che rivelano la Sua Persona Divina e la Sua missione. Non dobbiamo mai dimenticare come Giovanni inizia il suo Vangelo partendo dal Verbo eterno nel seno del Padre che si fa carne nel tempo.
Ciò premesso torniamo al nostro Vangelo odierno.
“Voi mi cercate solo perché avete mangiato bene, ma non avete capito che quel miracolo era solo un segno di qualcosa di più. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che rimane per sempre”
Carissimi fratelli e sorelle, questa frase di Gesù non ci colpisce forse un po’ tutti? Non la sentiamo diretta proprio a noi? Gesù oggi ci chiede: “Ma mi cercate solo per avere qualcosa? Mi cercate solo perché avete qualche problema? Mi cercate solo per chiedermi qualche grazia?”. Interroghiamoci sul contenuto della nostra vita di preghiera dove certamente possiamo e dobbiamo chiedere anche il pane di ogni giorno, ce l’ha insegnato proprio Lui, ma non solo questo, l’essenza della preghiera è e deve essere incontro d’amore e quindi deve entrare la lode, il ringraziamento, l’abbandono fiducioso, il silenzio ricco di presenza, lo sguardo amoroso.
Di fronte all’atteggiamento duro di Gesù i Giudei reagiscono chiedendogli un po’ scocciati: “Insomma, che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” e qui Gesù si apre ad una grande rivelazione che non ci deve sfuggire e che rappresenta il punto chiave di questo spezzone del capitolo sesto di Giovanni che la Chiesa oggi ci dona alla nostra contemplazione: “Dovete credere in me”. Il cristianesimo non è una ideologia morale, non è una dottrina, non è una adesione ad una tavola di valori, NO!
Essere cristiani significa credere il Gesù Figlio di Dio, morto e risorto per noi! Fratelli e sorelle ci crediamo veramente? Qualche domenica passata parlavamo di come l’atto di fede non può non essere preceduto dalla fortissima tentazione del rifiuto, dell’incredulità, di non poter voler credere che costui sia Uomo e Dio, che costui sia morto e sia veramente risorto. Se non ci metteremo mai lucidamente e freddamente davanti a questa tentazione e vi risponderemo con chiarezza, determinazione e precisione, saremo sempre cristianucci all’acqua di rose e non dei veri testimoni di Gesù.
Di fronte a Gesù che pretende la fede i Giudei rispondono con una richiesta precisa: “Se vuoi che crediamo in te dacci un grande segno, fa qualcosa di veramente prodigioso”. Non era bastata loro la moltiplicazione dei pani, volevano qualcosa di più tipo la “manna nel deserto” non capendo che la manna era un lontano segno di Lui, così come un segno di Lui era quel pane moltiplicato qualche giorno prima.
“Io sono il segno che voi cercate, io stesso sono il pane vivo disceso dal cielo, chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete!”. Fratelli e sorelle, è bene che comprendiamo come ogni pratica eucaristica deve essere preceduta da questa fame e sete di Lui, di conoscerLo, di incontrarLo, di seguirLo, di amarLo. Noi ci nutriamo di Gesù Eucarestia perché Lo abbiamo incontrato, abbiamo creduto in Lui, vogliamo seguirLo, imitarLo e ricambiare con il nostro piccolo e misero amore l’immensità del Suo, non possiamo accostarci alla mensa eucaristica senza questi atteggiamenti profondi di fede, speranza e amore, non possiamo fare la comunione solo perché ci sentiamo di farlo e poi dietro quel vago sentimento non c’è nulla, nulla.
Ecco, la Vergine Maria che contemplava con amore il suo Figlioletto mentre cresceva a Nazareth e meditava nel suo Cuore tutti gli eventi di cui era testimone ci aiuti a incontrarLo, capirLo, seguirLo, amarLo.
Amen.
j.m.j.j.
Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Nessuno può venire a me se non l’attira il Padre”
Carissimi fratelli e sorelle,
riprendiamo oggi la proclamazione del grande discorso eucaristico di Gesù a Cafarnao, dopo l’interruzione di domenica scorsa dovuta alla festa della Trasfigurazione del Signore.
Il brano che abbiamo saltato parlava del rimprovero di Gesù ai Giudei che Lo cercavano per quei pani moltiplicati e non per incontrarsi con Lui, non avevano capito che quel miracolo era un segno di Lui, vero “Pane vivo disceso dal cielo” per saziare quella fame insaziabile di vita, di verità, d’amore che è presente nel profondo di ogni cuore. L’accento, quindi era messo su Gesù “Pane vivo” che ci sazia nell’incontro di fede con Lui. Veniva quindi messa in risalto la fede come mezzo di quest’incontro con la Persona Divina di Gesù.
Il discorso di oggi introduce alla proclamazione che sentiremo domenica prossima, di Gesù “Pane vivo” che deve essere da noi mangiato, masticato come cibo nell’Eucarestia.
Siamo quindi nel passaggio dal Gesù “Pane vivo” in quanto creduto, al Gesù “Pane vivo” in quanto mangiato di domenica prossima.
In questa domenica viene messo in risalto lo scandalo, non si può passare dal Gesù creduto al Gesù mangiato senza passare per la prova dello scandalo. Ne abbiamo già parlato qualche domenica fa in occasione della visita di Gesù a Nazareth, Giovanni non parla nel suo Vangelo di quest’episodio e il messaggio che esso racchiude lo inserisce in questo dialogo del capitolo sesto alla sinagoga di Cafarnao.
Se siamo stati attenti abbiamo senz’altro colto, nella proclamazione del Vangelo di oggi, la risonanza con la visita di Gesù a Nazareth raccontata dagli altri evangelisti, quando, appunto, i nazaretani si scandalizzarono perché “il figlio di Giuseppe…” (Lc 4,22), “il figlio del carpentiere…” (Mt 13,55) “il carpentiere, il figlio di Maria” (Mc 6,3) si presentava loro come il Messia.
Oggi, infatti, abbiamo sentito dire dai Giudei: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”. Ma Gesù può dirlo perché è il Figlio di Dio, veramente disceso dal cielo e a tale scoperta non ci si arriva se non per la grazia del Padre che ci attira a Lui. E qui abbiamo un discorso difficile, ostico, oscuro.
L’incontro salvifico di fede con Gesù avviene non per assenso a umani ragionamenti, non per conquiste dovuti a meriti personali, non per la nostra capacità intellettiva, non per il nostro impegno morale, ma per la grazia del Padre, ma per l’Amore del Padre che ci attira al Figlio e questo Amore del Padre è lo Spirito Santo che ci viene donato, tramite lo Spirito Santo il Padre ci attira al Figlio e nell’incontro con Lui, il Figlio, nello stesso Spirito ci unisce a sé e ci conduce al Padre.
La difficoltà sta nel fatto che noi, giustamente, ci chiediamo: “Ma perché, se Tu, Signore Gesù, dici che è il Padre che ci attira a te, perché il Padre non attira tutti questi che non credono?”. Non capiamo bene come funzionano le cose e non pretendiamo neanche di capirle, ma una cosa l’abbiamo capita bene, perché altrimenti non si spiegherebbe perché saremmo qui oggi: abbiamo capito che il Padre ci sta attirando al Figlio, sentiamo infatti nel nostro cuore questa spinta verso di Lui, percepiamo la sua Bellezza, la sua Verità, la sua Bontà: è l’Amore del Padre, è lo Spirito Santo che ci lavora dentro soavemente spingendoci ad aderire intimamente al Figlio credendo in Lui superando tutte le tentazioni dell’incredulità che cercano di sviarci da Lui per farci sprofondare nell’insignificanza del non-senso, nell’ideologia del prendi e godi, nel vuoto che riempie e attanaglia l’anima quando ci si riempie di terra.
Ecco, quando siamo così toccati dallo Spirito, quando il suo Spirito ci ha ben conquistato e sedotto il cuore, quando Gesù con la sua luce ha rischiarato per bene le nostre tenebre, allora siamo pronti anche a cibarci di Lui, a mangiare di Lui nell’Eucarestia per avere la vita eterna. Ma che senso ha cibarsi di Lui senza tutto questo? Cibarsi di Lui senza un’adesione autentica di fede a Lui che mi si rivela attraverso la Chiesa? Possiamo cibarci di Lui solo dopo aver vinto nella fede lo scandalo dell’incredulità e di tutte le sue logiche e umane motivazioni.
Non possiamo fare a meno a questo punto di accennare alla potenza di grazia che il buon Dio ci regala in ogni Eucarestia. Dobbiamo farlo per via della prima lettura che ci parla di Elia e del cibo miracolosamente ricevuto che gli darà la forza di giungere al monte Oreb, il monte dove si incontrerà con Dio nel silenzio di un brezza notturna. Elia era scoraggiato, avvilito, deluso: aveva combattuto per il suo Dio e ora volevano ucciderlo, non è la paura della morte che lo abbatte, ma la delusione, Elia è profondamente deluso da Dio che non si è comportato come lui pensava.
Elia, infatti dopo aver affrontato 850 falsi profeti (“quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera” – 1Re 18,19) e averli vinti e uccisi (cf 1Re 18,40) pensava ormai che tutto fosse fatto, che tutti avrebbero adorato il vero Dio e che lui sarebbe stato finalmente riconosciuto anche dal re e dalla regina, ma non fu così. A questo punto Elia crolla e fugge incontro alla morte nel deserto, disperato vuole morire, è stufo di questo Dio che non capisce più, ma Dio gli viene incontro nel suo abbattimento e gli procura del cibo miracoloso che gli darà la forza di giungere all’Oreb dove gli ordinerà di tornare indietro e affrontare il mondo.
Ecco, carissimi fratelli e sorelle, non possiamo di fronte a questa storia di Elia non cogliere il messaggio quanto mai attuale per noi tutti che ci cibiamo di questo cibo divino che è l’Eucarestia, cibo dei forti, forza dei martiri. Ogni settimana il Padre ci fa giungere miracolosamente questo cibo perché noi ci risolleviamo dai nostri abbattimenti, dalle nostre chiusure, dalle nostre delusioni. Sì, anche noi siamo tante volte delusi da Dio, non è forse vero? Vorremmo che agisse, che facesse, che cambiasse le cose e invece niente. Quanti in mezzo a noi sono profondamente delusi da Dio, ecco il buon Dio lo sa e ogni domenica ci dona questo cibo, cibo per gli affaticati, per i falliti, per i delusi, per gli scoraggiati perché riprendiamo vita, forza, coraggio per ritornare alla nostra vita di sempre con la forza di Elia per compiere quei gesti, quelle scelte che Gesù nel silenzio dell’incontro eucaristico ci ha fatto capire.
Ecco un aspetto dell’Eucarestia che la Chiesa oggi mette in rilievo proponendoci la figura di Elia. Perché in questo tempo di vacanza non prendiamo in mano la Bibbia ci rileggiamo e meditiamo questi capitoli 18 e 19 del Primo Libro dei Re che ci parlano di questa storia?
Infine – carissimi fratelli e sorelle – “non rattristate lo Spirito Santo di Dio” ci ha detto Paolo oggi invitandoci a vivere nell’amore cristiano. Lo Spirito Santo si rattrista in noi, in altro luogo Paolo dirà anche che lo Spirito Santo “geme” in noi, cioè piange in noi (cf. Rm 8,26), ma se piange significa che anche sorride, se si rattrista significa che anche si allieta e gioisce e allora – carissimi fratelli e sorelle – in questa settimana, fatti forti dall’unione con Gesù nell’Eucarestia, cerchiamo di non rattristare lo Spirito Santo, ma di farLo contento, come? L’unico modo di farLo contento, Lui che è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio e che altro non desidera che riversarsi su di noi per traboccare nel mondo (cf Rm 5,5), è quello di aprirci all’Amore, ad una vita sempre più vissuta nell’Amore, quello vero però, non quello delle canzonette: quello che Gesù ci ha urlato dall’alto della croce quando ci gridò: “Ho sete!” (Gv 19,28).
Maria SSma ci aiuti in questo perché ciascuno di noi possa essere in questa settimana l’occasione del sorriso e della gioia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Amen.
j.m.j..
XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Chi mangia di Me, vivrà per Me”
Carissimi fratelli e sorelle,
siamo ormai giunti alla lettura del terzo spezzone del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni (un quarto spezzone lo abbiamo omesso per via della festa della Trasfigurazione del Signore) che rappresenta una stupenda parentesi giovannea in questo anno dedicato al Vangelo di Marco. Giovanni è l’evangelista dallo sguardo alto e profondo che vuole introdurci ad un’intimità di fede con il Verbo incarnato. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: Giovanni non scrive il suo Vangelo per far conoscere Gesù a chi ancora non lo conosce, ma lo scrive per coloro che già cristiani Lo conoscono e vivono la vita della comunità. Lo scrive per loro perché facciano tutti un passo avanti nella vita cristiana entrando in una maggiore intimità di fede, di speranza e d’amore con Colui che ci conosce nel profondo (cf Gv 2,25), ci ama e ha donato se stesso per ciascuno di noi (cf Gv 10,11).
Entriamo oggi nel cuore del messaggio giovanneo: “…chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in Me e Io in lui…… la mia carne è vero cibo, il mio sangue vera bevanda……Chi mangia di Me, vivrà per Me…”, è l’invito a nutrirsi di Lui, è l’invito a partecipare al banchetto della vita eterna il cui cibo è Dio stesso fatto nostro pane e nostra bevanda perché noi possiamo rimanere, dimorare, essere e vivere in Lui.
Tutta la Sacra Scrittura ci parla di questo convito ed Essa stessa viene presentata agli uomini come elemento di questo banchetto in quanto cibo spirituale, infatti “ l'uomo non vive soltanto di pane, ma… di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3)
L’Eucaristia è la sintesi e l’apice di quanto il Padre ha voluto realizzare creando gli uomini e chiamandoli alla comunione con sé per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Agli inizi aveva donato ad Adamo il suo giardino perché si nutrisse dei suoi frutti riconoscendo in essi il segno del suo amore paterno (cf Gen 2,8-9.16).
In tutte le culture e in tutte le epoche il mangiare, soprattutto il mangiare insieme, ha una portata sacrale che va al di là della realtà della consumazione del cibo, del nutrirsi, per cui si parla del banchetto, del convito come di un sacramento primordiale naturale, cioè di un segno profondo e misterioso di una realtà spirituale che è insita intrinsecamente nell’esperienza umana del mangiare insieme. Cioè dietro l’aspetto materiale del mangiare insieme c’è la ricchezza di un’esperienza umana che ha le sue risonanze spirituali e che trova la sua pienezza di espressione e di significato nel banchetto eucaristico.
Il convito, il banchetto infatti è realizzazione storica di quell’aspirazione profonda alla comunione con gli altri, nella pace, nella gioia della festa che è presente nel cuore di ogni essere umano. Il mangiare e bere insieme è sacramento naturale di pace, di amore, di fratellanza, di gioia.
Manifestatamente al gesto del convito, del mangiare insieme, si legano tutti i momenti più significativi della vita. Non c’è povero che mangi in modo diverso quando fa festa perché è nata una nuova vita, o si sta formando una nuova famiglia, o semplicemente per accogliere un amico, in certi paesi anche la morte di un parente diventa occasione di un convito rituale.
Nella Sacra Scrittura questo gesto del mangiare, spesso in luoghi deserti, è legato alla vita del popolo peregrinante nel deserto dove Dio sfamò il suo popolo con la manna (Es 16), o al cammino del profeta verso il monte di Dio (Elia –1Re 19,5). Ancor prima abbiamo la bellissima icona del pranzo allestito da Abramo a quei tre misteriosi personaggi alle querce di Mamre (cf Gen 18,1ss) che ha ispirato il capolavoro di Rublëv nella sua Icona della Trinità
Il convito sacro era anche presente nella liturgia ebraica dove esistevano i sacrifici di comunione (cf Lv 3,1-17) in cui si offriva la vittima (capretto, agnello, ecc.) a Dio bruciandone parte sull’altare, parte era riservata ai sacerdoti per la loro sussistenza e parte veniva mangiata in un convito sacro da chi offriva la vittima. In questo modo era come se si banchettasse insieme a Dio.
Nella Prima Lettura tratta dal Libro dei Proverbi viene presentato un banchetto a cui sono invitati tutti coloro che non sarebbero invitati da altri: parla di inesperti, di chi è privo di senno. Un banchetto speciale, dove chi invita è la Sapienza e viene offerta come alimento la saggezza. Con questa forma alquanto poetica viene prefigurata l’Eucaristia. Anche Isaia fa riecheggiare tra gli ultimi, tra i poveri l’invito divino al festoso banchetto:“O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte” (Is 55,1).
Paolo invece, nella Seconda Lettura, ci offre l’immagine di un altro banchetto a cui possiamo partecipare, in cui si corre il rischio di uscirne ubriachi. Egli ricorda ai cristiani di Efeso che le loro assemblee hanno come unico scopo il rendimento di grazie a Dio e la preghiera, nell’altra sua lettera, la Prima ai Corinti, parlerà del rischio concreto che i conviti eucaristici si trasformino in banali banchetti umani sminuendo il valore e la dignità del banchetto eucaristico (cf 1Cor 11,20ss).
Gesù annunciava la salvezza del Regno invitandosi a pranzo. «Mangione e beone» (Lc 7,34) è stato considerato dai farisei perché amava sedersi a mensa con i peccatori, con gli emarginati, con gli ultimi, con le prostitute. Ricordiamo infatti come s’invitò a pranzo da Zaccheo (cf Lc 19,5.9), come partecipò a quel banchetto straripante di pubblicani e peccatori che per Lui diede Levi-Matteo dopo che Lui lo chiamò dal banco delle imposte.
Troviamo Gesù ancora a mensa a casa di Marta, Maria e Lazzaro a Betania (cf Gv 12,1ss) dove riceverà l’unzione del nardo profumato da parte di Maria.
Ma Gesù non frequentava solo le mense dei peccatori e degli amici, si fermava a pranzo con tutti, anche con i farisei. Non fu forse a casa di “Simone il fariseo” che quella “peccatrice” gli lavò i piedi con le sue lacrime e glieli asciugò con i suoi capelli cospargendoli di olio profumato scandalizzando i presenti? (cf Lc 7,36ss).
E quando giungerà l’ora di tornare al Padre (cf Gv 13,1), come gesto di commiato Gesù sceglierà ancora una volta la cena, l’Ultima Cena (cf Mc 14,12ss; Lc 22,14ss; Mt 26,26ss), continuando anche dopo la resurrezione ad invitarsi a mensa: con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13ss), nel Cenacolo chiederà agli Apostoli se hanno qualcosa da mangiare (cf Lc 24, 41) e ancora agli Apostoli sulla barca nel lago di Tiberiade dirà: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” (Gv 21,5).
E per finire parlando della realtà che ci aspetta in quel posto che Lui ha preparato per ciascuno di noi presso il Padre (cf Gv 14,2) ci ha detto che lì sarà grande festa e un grande banchetto dove mangeremo e berremo alla sua mensa (cf Mt 8,11; Lc 13,29) e Lui ci farà da cameriere (Lc 12,37; 22,27).
Gesù annunciava la buona novella del Regno nei banchetti a cui partecipava nella gioia dell’incontro con i peccatori, con i poveri, i bisognosi, i cercatori della verità, annuncio che ha la sua eco nelle nostre Eucarestie, l’altare delle nostre mense eucaristiche è la tavola dove s’incrociano le nostre strade. È il punto di arrivo dei tanti zacchei e mattei, figli perduti sui sentieri del mondo e della storia, ma anche il punto dove è già arrivato il Padre buono e misericordioso, che attende e perdona, e che prima di sentire le scuse e le promesse ti getta le braccia al collo (cf Lc 15,20). Qui è tutto gratis, non si paga niente. L’unica condizione per trovare posto a tavola è avere fame e sete. Fame e sete di verità, di pace, di amore vero, fame e sete di nuovi rapporti con Lui, con i fratelli, con noi stessi, con la storia, con il mondo. Esclusi rimangono soltanto gli occupati in altre faccende, legate alla scena di un mondo che passa: chi deve occupare il podere appena acquistato, chi deve provare i suoi buoi, chi deve andare a sposarsi (cf Lc 14,15ss). Ma quelli che accettano l’invito faranno festa, dopo aver ammazzato il vitello grasso (cf Lc 15,27).
Al banchetto di Dio tutto è gratis, fuorché l’esibizione della propria povertà, il riconoscimento della propria impotenza, del proprio peccato. Questa è l’unica condizione perché la ricchezza che il Padre è disposto a darci in sovrabbondanza si riversi su di noi e sul mondo.
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – beati noi che oggi abbiamo accolto l’invito divino e siamo qui per nutrirci di Lui in questo sacro banchetto in cui Gesù si e donato a noi come cibo spirituale nella sua Parola e fra poco si donerà a noi come cibo per essere masticato e bevuto, consumato e assimilato. Gesù è venuto e viene in noi per rimanerci, per dimorare in noi.
Chiediamo all’Esperta, chiediamo a Maria che è l’Esperta di come farLo dimorare in noi, l’Esperta di come mettere a suo agio Gesù e non farLo scappar via, l’Esperta che ben conosce cosa è gradito, cosa piace di più al suo “Figlio primogenito” (Lc 2,7) chiediamo a Lei che ci insegni e ci aiuti a dimorare in Lui vivendo per Lui.
Amen.
j.m.j.
XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Questo linguaggio è duro!”
Carissimi fratelli e sorelle,
concludiamo oggi la parentesi giovannea che ci ha accompagnato attraverso più di un mese per in cui Gesù Maestro ci ha introdotto nel mistero del suo Corpo e del suo Sangue, cibo d’immortalità misticamente simboleggiato da quei pani moltiplicati dalla sua compassione per la folla affamata, Pane vivo e Bevanda di salvezza che non scendono miracolosamente dall’alto, ma che si rendono presenti in quel po’ di pane e po’ di vino – “frutti della terra e del nostro lavoro” – che investiti dalla potenza d’Amore dello Spirito Santo vengono trasformati, come l’acqua di Cana (cf Gv 2,1ss), nel sacramento dell’Eucaristia.
Nel suo lungo discorso a Cafarnao che abbiamo spezzettato in queste domeniche abbiamo visto come il Signore Gesù si presenta al mondo come il “Pane vivo disceso dal cielo”, “Pane vivo” che ci sazia solamente se superiamo nell’adesione di fede lo scandalo dell’umiliazione di Dio – del Dio tre volte Santo e Potente – presente con tutta la pienezza della sua divinità (cf Col 2,9) nel “figlio di Giuseppe”. (Gv 6,42) Solo se avremo questa fede potremo cibarci di Lui masticandoLo e bevendoLo nell’Eucaristia per radicarci sempre più in Lui e vivere in Lui e per Lui e non vedere mai più la morte.
Ma “questo linguaggio è duro” è difficile, Gesù sembra pretendere troppo dai suoi… “mangiare la sua carne… bere il suo sangue…” tanto più se teniamo presente la mentalità dell’uomo biblico che mai e poi mai si nutrirebbe di sangue, oggetto di un espresso divieto divino (Lv 17,10-14; 1Sam 14,31-44). È un “linguaggio duro” che Gesù Maestro non addolcisce affatto, anzi sembra proprio che ci provi gusto ad acuire e radicalizzare le sue parole: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?”.
Carissimi fratelli e sorelle, oggi Gesù Maestro ci dà una grande lezione di evangelizzazione, non sarà proponendo un Vangelo annacquato che porteremo le persone a Lui, ma questo potremo fare solo se avremo il coraggio di fede di proporre il Suo scandaloso Vangelo “alla lettera” come diceva il Poverello d’Assisi. E qual’è ancora oggi ciò di più scandaloso che noi siamo chiamati ad annunciare all’uomo e alla donna nostri contemporanei se non che Lui, il Signore Gesù, l’unico vero Dio con il Padre e lo Spirito Santo è presente con tutta la pienezza della sua Persona divina insieme alla sua natura umana assunta, in quel po’ di pane e in quel po’ di vino su cui la Chiesa pronunzia le parole consacratorie? Senza questa fede precisa, come potremo poi annunziare all’umanità le alte esigenze di vita dei figli di Dio?
Questa fede non sembra forse essere una sfida al buon senso, alla ragione, alla scienza? Quando veramente noi crediamo nell’Eucarestia tutto il resto scivola via facile facile… Quanti ad esempio mi dicono: “Padre sa, io credo, ma la confessione… non riesco a capire perché dire i miei peccati ad un uomo…”. A questi tali normalmente rispondo così: “Ma tu credi nell’Eucaristia?”, la risposta è scontata! Ti rispondono di sì: sembra più facile credere nell’Eucaristia che nella Confessione! Ma non è così, non è così, normalmente la gente ti dice di credere, ma senza averci mai riflettuto abbastanza, senza mai essere andata in profondità. Quando cominci a spiegare che cos’è l’Eucaristia e loro cominciano a capirla, io continuo normalmente così: “Tu credi dunque nell’Eucaristia, che cioè un pezzo di pane che vedi e tocchi e mastichi come qualunque altro pane sia Gesù Cristo vivo e vero e non credi che lo stesso Gesù possa poi assolverti attraverso un povero uomo come te?” ed entrano in crisi.
A noi, quindi, come ai Giudei di Cafarnao la fede nell’Eucaristia si pone come scelta decisiva, primaria e fondante il nostro essere cristiani, a noi come a loro Gesù chiede: “Volete andarvene via anche voi?”, così come Giosuè introducendo il popolo santo nel possesso della terra promessa chiede ad esso una scelta precisa, radicale nei confronti di quel Dio che li aveva condotti fino a lì, scelta che inevitabilmente comporta un rifiuto di ogni altro idolo o falsa divinità: “Scegliete oggi chi volete servire!” (Prima Lettura).
Quando crediamo veramente all’Eucaristia non abbiamo difficoltà particolari ad accettare anche gli altri “linguaggi duri” della vita cristiana con le sue esigenze di santità, di eroismo, di coraggio per vivere il Vangelo del Perdono, il Vangelo del Servizio, il Vangelo della Purezza, il Vangelo della Bontà, tutto scivola via facile facile perché c’è Lui, Gesù Eucaristia incontrato settimanalmente (magari quotidianamente!) che sempre più dimora in noi e noi in Lui e piano piano “non viviamo più per noi stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi” (Canone Euc. IV). La fede autentica nell’Eucaristia reca con sé inevitabilmente il rifiuto d’ogni “linguaggio morbido” che vuole conquistare il cuore della persona per farla scivolare nell’adorazione dei falsi idoli di sempre racchiusi in quelle tre parole che intontendo l’uomo e la donna di tutti i tempi – avere, potere, godere -, li conducono ad allontanarsi da Gesù.
I più, di fronte alla “durezza” del linguaggio di Gesù, Lo abbandonarono, la storia si ripete nel tempo e la viviamo nell’oggi e di fronte alla tentazione di un “linguaggio meno duro” che continuamente ci accarezza, siamo tentati anche noi come gli apostoli di andarcene via, ma non possiamo farlo. Perché non possiamo farlo? Per lo stesso motivo che non l’hanno fatto loro, perché è il Padre che ci attira a Lui, che suscita in noi quella fede che, anche se piccola, fragile e traballante ci fa dire con Pietro: “Ma Signore, da chi potremo andare mai noi? Tu solo hai parole di vita eterna! Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio”.
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – perché noi rimaniamo con Gesù? Non può esserci che questa risposta: “Perché l’abbiamo conosciuto”, abbiamo conosciuto quell’amore con cui ci ha amato di cui ci ha parlato anche Paolo nella Seconda Lettura, un amore sconosciuto all’umanità perché assolutamente gratuito e fuori dai nostri piccoli schemi umani. Un amore che spinse l’Infinito Dio a farsi piccolo bambino, il Dominatore dei Secoli a sottomettersi a delle povere creature, il Giudice dell’Universo a farsi condannare a morte e tutto questo per noi…,“per me”!
Conquistati e affascinati dunque da quest’amore, nell’esperienza continua di esso, nutriti di esso nell’Eucaristia siamo chiamati a renderlo visibile a chi non lo conosce nella concretezza della nostra vita, amando così come Lui ci ha insegnato scandalizzando e stupendo quel mondo che non sa amare perché ancora “non ha conosciuto e creduto che Lui è il Santo di Dio!”.
Maria SSma nostra Madre ci aiuti a vivere sempre in quest’amore.
Amen.
j.m.j.
XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Il suo cuore è lontano da me”
Carissimi fratelli e sorelle,
dopo la lunga parentesi giovannea iniziata alla fine di luglio, riprendiamo oggi a seguire il Maestro secondo quanto ci ha riportato di Lui l’evangelista Marco.
Il tema generale della Liturgia della Parola di questa domenica verte sulla purezza del culto a Dio, cioè su ciò che è vera religiosità e ciò che non lo è.
La Prima Lettura ci introduce nel cuore della religiosità del pio israelita che era l’osservanza della legge di Dio, legge di vita data da Dio al suo popolo perché esso sia intelligente, saggio. Chi non osserva la legge di Dio, non fa un dispetto a Dio, ma agisce da stolto, cioè agisce senza intelligenza e quindi non agisce da uomo qual è. La legge di Dio quindi non è qualcosa di esteriore alla persona umana, è interiore, essa ne illumina le profondità e ne mostra le esigenze della sua dignità.
Nella Seconda Lettura l’apostolo Giacomo ci ricorda che ogni religiosità è vana se non ci conduce all’amore concreto verso il prossimo, specialmente verso chi ha più bisogno.
Nel Vangelo Gesù Maestro c’insegna che il primato va dato alla Parola di Dio che deve essere al di sopra di ogni tradizione o legge umana.
Ma cerchiamo ora con l’aiuto dello Spirito Santo di andare in profondità e cogliere qualcosa della Parola che tocchi la nostra esistenza, che la illumini nella conoscenza della verità, che la scuota dall’assopimento spirituale nel quale spesso siamo immersi, che la slanci con entusiasmo alla sequela del Signore Gesù che ogni domenica rinnova il suo invito a seguirLo sulla strada stretta e difficile (cf Mt 7,13-14), ma bella, troppo bella, del suo Vangelo.
“Ipocriti!” – dice il Maestro oggi ad alcuni farisei e scribi che erano attenti a criticare l’inosservanza di alcune pratiche ritualistiche comuni – lavarsi le mani prima di mangiare –, ma poi erano indifferenti a cose ben più importanti: “Filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!” (Mt 23,24) e citando loro Isaia, “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13), li mette davanti alla maliziosità, alla perfidia del proprio atteggiamento.
Carissimi fratelli e sorelle, vorrei che insieme ci fermassimo su queste parole di Gesù, sempre attuali, sempre vere, sempre forti…, non andando però a cercare in giro i destinatari di esse tra i nostri conoscenti, amici o parenti… chissà quanti ce ne sono venuti in mente al sentire la parola “ipocriti”…, ma come esse sono in realtà dirette a ciascuno di noi, dirette a voi… dirette a me…
Oggi più che mai le persone sono sensibili all’“ipocrisia”, sempre più spesso sentiamo esaltare tra noi la sincerità come contrapposizione all’ipocrisa, quanti in mezzo a noi amano definirsi persone sincere, ma sarà vero poi? E cosa s’intende poi con sincerità? Molte volte questa parola non vuol dire altro che spontaneità e nulla di più. C’è una differenza tra spontaneità e sincerità, la prima, la spontaneità, spesso non è altro che azione inconscia non ponderata e quindi senza il vaglio del giudizio della coscienza. In nome di una sincerità poco intesa talora si giustificano atteggiamenti, parole che offendono gli altri, quante volte abbiamo sentito frasi tipo questa, dopo che si era offeso qualcuno con parole dure: “Bhé, io dico quello che penso, sono sincera… sono sincero”, giustificando così un atteggiamento anticaritatevole!
Poi invece, ci sono anche alcune persone che comportandosi gentilmente con altri che sono loro antipatici o verso i quali nutrono dei risentimenti interiori, pensano di non essere sincere, perché vedono la sincerità come armonia interiore tra ciò che si sente nell’affettività, nell’emotività con quello che si fa esteriormente.
Non è così, la sincerità è l’armonia interiore tra i desideri profondi del nostro cuore e ciò che siamo esteriormente nelle azioni della nostra vita. Non è quindi l’armonia tra la sfera affettiva-emotiva e quella dell’agire, si tratta di andare più in profondità in noi stessi al di là delle emozioni del momento per cogliere ciò che biblicamente viene chiamato, e Gesù stesso lo chiama così, “cuore”. Se sono gentile e caritatevole con una persona che mi è antipatica o che mi ha ferito nell’intimo e verso la quale provo del risentimento, non manco di sincerità con lei perché sono gentile, sono sincero perché la mia azione è in armonia con la profondità del mio cuore che desidera e vuole amare quella persona anche se suscita nella mia affettività delle emozioni negative, e desidero e voglio amarla “perché se amo solo quelli che mi amano che merito ne ho?” (Mt 5,46).
La sincerità è dunque questa armonia tra la nostra interiorità più profonda e ciò che manifestiamo di noi con il nostro agire, potremo dire che la sincerità è l’armonia tra ciò che noi siamo in profondità e ciò che noi siamo in superficie.
Per contro l’ipocrisia è proprio questo contrasto tra ciò che diciamo di essere e ciò che facciamo. Una domanda è d’obbligo di fronte a questo Vangelo: “Chi di noi non è ipocrita, almeno un po’?”
Certamente i più tacciati di ipocrisia – come i farisei, gli scribi e i sacerdoti ebrei – siamo noi clero, non per nulla c’è anche il proverbio: “Da che pulpito viene la predica!”.
Ma come fare per superare e vincere la tentazione dell’ipocrisia che è sempre in agguato nella nostra vita? Cercherò in poche parole di tracciarvi un piccolo cammino che in realtà è grande.
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Prima di tutto bisogna, con l’aiuto dello Spirito Santo, cercare di andare in profondità in noi stessi, nel nostro cuore, cerchiamo di coglierne gli aneliti più profondi, i desideri più autentici i pensieri più belli, quelli che mi aprono il cuore, me lo elevano, me lo addolciscono, me lo dilatano, quei soavi sentimenti che mi fanno sentire più buono, più bello, più vero, più autentico. …………………………………………………………………………………
Come fare a far emergere tutto questo? Il buon Dio quando ci ha pensati e quando ci ha creati ha seminato nel nostro cuore, nel profondo del nostro essere tante cose belle e buone, bisogna scoprirle, ravvivarle, farle emergere, ma come? Tra i diversi modi ce n’è uno facile facile: “Guardare Gesù, ascoltare Gesù, stare con Gesù”, infatti è nell’incontro prolungato con Gesù nella preghiera, nell’adorazione dell’Eucaristia, nella lettura meditata del suo Vangelo che noi siamo toccati dallo Spirito di Gesù nel cuore e attraverso l’attrazione che lo Spirito opera nei nostri cuori verso il “più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3) scopriamo il nostro vero volto e ciò che siamo chiamati a essere nell’unione con Lui, figli buoni e bravi dello stesso Padre. - Nello stesso tempo scopriamo però che c’è una disarmonia tra tutta questa bellezza interiore che possediamo e ciò che facciamo e realizziamo nella vita. Il segreto della santità consiste proprio nel coraggio di entrare in profondità in quanto ci accorgiamo essere ipocrita, incoerente e quindi brutto, non degno di me, avvilente. Bisogna andare in profondità con freddezza, molti fuggono di fronte alla propria malizia, fanno finta che non ci sia, la coprono, la scusano, le cambiano il vestito. No, se non vuoi essere ipocrita, cioè se vuoi seguire sinceramente Gesù fino in fondo, devi vincerti in questo e avere il coraggio di guardare le motivazioni profonde delle tue azioni, anche le più piccole, con sincerità: la sincerità è innanzi tutto con se stessi, se non siamo sinceri con noi stessi, come mai potremo esserlo con gli altri? Se saremo sinceri scopriremo che dietro a tante nostre azioni c’è un cuore sporco, cioè non c’è quel cuore bello e buono di cui abbiamo parlato prima, ma ce n’è un altro che fa guerra al primo (cf 1Pt 2,11; Rm 7,23) c’è un pizzico di gelosia, di volontà di successo a tutti i costi, c’è invidia, c’è spirito di rivalità, di vendetta, c’è tanto egoismo e desiderio di comodità, c’è desiderio di godere qualcosa, c’è in definitiva incapacità di amare!
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Dal giorno del nostro Battesimo lo Spirito di Gesù è all’opera in noi per toglierci questo cuore sporco e trapiantarne uno pulito: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11-19-20), ma questo trapianto non avviene senza la nostra collaborazione che consiste in pratica nel potenziare al massimo in noi il desiderio di quel cuore di carne, bello, pulito, di vero figlio di Dio. L’importanza dei desideri belli nella vita spirituale è grande!
E, in secondo luogo, bisogna prendere coscienza del cuore di pietra, del cuore impuro che spesso batte o vuole battere nel nostro petto, prenderne coscienza con semplicità, senza paura, senza scandalizzarsi di noi stessi e di quanto bassi possiamo essere in fondo. Bisogna raccogliere questa malizia e bruttura nelle proprie mani e offrirla al Padre in unione all’offerta che ha fatto di sé una volta per tutte Gesù sulla Croce. Lì, appeso al legno Lui ha portato tutte le nostre malizie, brutture, peccati, lì Lui si è fatto brutto, talmente brutto da non sembrare più neanche un uomo (cf Is 53,3), perché noi fossimo fatti belli, si è fatto maledizione perché noi potessimo essere benedetti (cf Gal 3,13-14), si è fatto peccato perché noi potessimo essere fatti figli (cf 2Cor 5,21)! - Avere tanta pazienza, la perseveranza è frutto di pazienza, pazienza con noi stessi, con le nostre ricadute, con le nostre debolezze, senza mai stancarci di elevare gli occhi al cielo per desiderare quel cuore bello offrendo al buon Dio nostro Padre, giorno per giorno quel cuore brutto che ci ritroviamo ad avere nelle circostanze concrete della vita, senza mai disperarci, sempre confidenti e fiduciosi che alla fine Lui vincerà e me lo strapperà quel cuore brutto per metterci definitivamente il Suo. Quanto sbagliano coloro che si allontanano dalla confessione sacramentale perché stufi di confessare sempre le stesse cose! Ci vuole pazienza, la pazienza è anche frutto dell’umiltà che è consapevolezza di essere poveri peccatori chiamati a “grandi cose” (Lc 1,49), consapevolezza di essere piccoli, fragili e deboli e quindi sempre accolti da Colui che amò essere chiamato l’“Amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34)
Carissimi fratelli e sorelle, affidiamo a Maria SSma il nostro povero cuore bisognoso di purificazione e di santificazione, Lei ci ottenga dallo Spirito Santo quelle grazie di rinnovamento e di trasformazione interiore per essere fino in fondo e nella realtà di ogni giorno quei figli buoni, bravi e belli che tutti noi desideriamo intimamente e fortemente essere. Amen.
j.m.j.
XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Emise un sospiro e disse: «Effatà»”
Carissimi fratelli e sorelle,
prima di parlare del messaggio spirituale di questa domenica che emerge – come dovremmo già tutti sapere – dal nesso tra la Prima Lettura e il Vangelo (la Seconda Lettura invece nel Tempo Ordinario va per conto suo essendo la lettura continuata di un brano del N.T.), vorrei innanzi tutto mettere un accento particolare su questa Lettera di Giacomo che stiamo leggendo da domenica scorsa e continueremo a leggere ancora per altre tre domeniche. È una lettera importante, Giacomo è un uomo molto pratico e nel suo breve scritto di appena cinque capitoli ci dà una serie di insegnamenti semplici, concreti, pratici e nondimeno alti, forti, esigenti.
Domenica scorsa ci aveva invitato a non essere solo uditori della Parola e ci aveva ricordato che essere religiosi significa impegnarsi concretamente a fare del bene e a non lasciarsi contaminare dalle vanità mondane. Nel brano odierno Giacomo cala nel concreto il suo insegnamento con un esempio pratico che non ci deve sfuggire perché è quanto mai attuale e significativo anche per noi oggi. Qual è quest’esempio? In pratica Giacomo ci dice: “Quando tu incontri una persona ricca e potente sei gentile e accogliente, disponibile a servirla e a farle qualche favore? E quando incontri un povero disgraziato come ti comporti, ti comporti alla stessa maniera? Se non ti comporti alla stessa maniera non sei un buon cristiano”.
Eh – carissimi fratelli e sorelle – qui ce n’è per tutti, non è vero forse che siamo un po’ tutti così? Non dobbiamo lasciarci vincere dalla tentazione del dare per avere. Questa è un po’ una grossa tentazione per noi clero, soprattutto quando si è parroci immersi in tanti problemi materiali da risolvere: il tetto che viene giù, il muro da tirare su, il campetto da costruire, i poveri da aiutare…… e allora si ha bisogno di denaro, di permessi, di aiuto… Ed ecco così la tentazione di essere gentili e accoglienti con quel tale perché può dare un’offerta o può ottenerti quel permesso o favorirti in quella pratica…… e poi non si ha tempo per quella povera vecchietta che ha bisogno di una parola di conforto o per i tanti altri che bussano alla tua porta o che non vi bussano perché vedono che tu sei impegnato con altri più importanti di loro!
Che bello invece essere gentili con tutti, servizievoli con tutti, amorevoli e buoni con tutti, con il ricco, con il povero, con i piccoli, con i grandi perché in ciascuno si riconosce la dignità di figlio, di figlia di Dio. Che bello! Qui mi viene in mente quell’episodio della vita di S. Giuseppe Cottolengo, quando un giorno stava giocando a bocce con uno dei suoi “buoni figli”, così li chiamava lui i poveri portatori di handicap che accoglieva e accudiva. Mentre giocava con quel povero uomo lo vennero a chiamare perché lo stava cercando un cardinale, lui rispose così: “Fatelo aspettare perché devo prima finire la partita di bocce con questo mio amico”.
Detto questo, lasciamo ora Giacomo e volgiamoci interiormente verso il Signore Gesù che oggi realizza quanto era stato annunciato secoli prima dal profeta Isaia (Prima Lettura) che invitava il suo popolo a sperare nella salvezza di Dio, nella “vendetta” di Dio, vendetta in senso biblico vuole dire “giustizia” e non va inteso quindi nel suo senso del nostro linguaggio comune. Al popolo derelitto e affranto schiavo a Babilonia il Signore fa giungere attraverso il profeta la sua parola di speranza in un futuro di consolazione e di gioia significato dalla guarigione del cieco, dello zoppo, del sordo, del muto.
Il Signore Gesù inaugura questo tempo in cui Dio fa “giustizia” venendo incontro a tutte le persone affrante del mondo, non solo ai pii israeliti, ma ad ogni uomo risollevandolo dalla sua situazione di abbattimento e di solitudine, di schiavitù interiore e di impotenza. Marco ci dice che Gesù si trovava nella “Decapoli”, cioè nel territorio delle dieci città, siamo in terra pagana e qui gli portano un sordo-muto perché lo guarisse. La Chiesa da sempre ha colto nei miracoli di Gesù dei segni particolari della guarigione della persona umana in quelle profondità che trascendono la semplice sfera della sua fisicità e la coinvolgono nella sua complessa unità di anima e corpo. In particolare sin dagli inizi, la Chiesa ha visto, in questo miracolo raccontatoci da Marco, un riferimento specifico all’azione salvifica risanante e santificante di Gesù nei Sacramenti che sono gli strumenti con cui Egli tocca e sana gli uomini e le donne nell’oggi della Chiesa. Leggendo quindi in profondità quest’episodio del Vangelo noi vi troviamo luce di intelligenza per la comprensione dell’esperienza dell’incontro con il Signore Gesù nei Sacramenti.
Tutti voi vi ricorderete senz’altro che quest’episodio evangelico è ricordato dalla Chiesa ogni volta che si celebra il Sacramento del Battesimo. Dopo il Battesimo il sacerdote tocca le orecchie e la bocca del bambino o l’adulto che è stato battezzato dicendo: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede”.
Possiamo leggere quindi nella guarigione di questo sordo-muto l’immagine simbolica della guarigione, della salvezza, della redenzione, della santificazione della persona umana in genere e quindi le linee generali di come si realizza questo incontro salvifico oggi. Vediamone insieme la dinamica.
- “E gli condussero un sordo-muto, pregandolo di imporgli la mano…” – La salvezza di ogni singolo uomo, di ogni singola donna è legata a questo interessamento di altri, non è mai un fatto solitario, intimistico. È un fatto di comunità, di Chiesa. Pensate – carissimi fratelli e sorelle – se noi oggi siamo qui a ringraziare e pregare il Signore è perché qualcuno ha pregato per noi, ha pregato Gesù che ci guarisse, che ci salvasse, che ci facesse capire… Solo quando saremo in paradiso sapremo quante persone buone ci hanno aiutato con le loro preghiere e il loro amore.
- “E portandolo in disparte lontano dalla folla…” – Se da una parte abbiamo l’incidenza della comunità, dell’interessamento degli altri, dell’intercessione di qualcuno, della preghiera di chi ci vuole bene…, dall’altra abbiamo la necessità dell’estraniarci dagli altri, del metterci in disparte, in un luogo solitario (Mc 6,31) perché è nel deserto che Lui parla al cuore della persona (cf Os 2,16) …, è nella solitudine del cuore che si capiscono tante cose, soprattutto del bisogno che abbiamo di Lui, della sua luce, della sua grazia, della sua presenza d’amore…Se vogliamo incontrarci veramente con Gesù dobbiamo allontanarci dalla folla, allontanarci da ogni sicurezza, da ogni appiglio per capire bene che Lui solo è la salvezza, Lui solo è la vita, Lui solo è la realizzazione piena della persona…
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“gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua…” La salvezza della persona avviene per contatto fisico-vitale con Gesù. Gesù salva toccandoci! Il Vangelo è pieno di riferimenti simili, ad esempio:
Mc 1,41 – Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci!".
Mc 3,16 – Gesù impose le mani a pochi ammalati e li guarì
Lc 13,13 –… le impose le mani e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio
Mt 8,15 – Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo.
Mt 9,20 – Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello.
Gv 9, 6 – Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del ciecoBisogna permettere a Gesù di toccarci se vogliamo essere salvati. Questo significa rinunciare all’autosufficienza, al vanto di non avere bisogno di nessuno, per proclamare che abbiamo bisogno di Lui. Il gesto di toccare la persona è indicativo e significativo di amore, di solidarietà, di partecipazione, di comunione, di affetto, di familiarità, di confidenza: le persone estranee non si toccano tra loro perché sono estranee, solo le persone che si conoscono si toccano. Lasciarsi toccare da Gesù significa dunque entrare nella sua intimità e lasciar entrare Lui nella nostra.
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“Gesù emise un sospiro e disse: «Effatà» , cioè «Apriti!»” Il tocco di Gesù richiama il tocco creatore di Dio, in Lui è Dio che ci tocca nuovamente, il suo sospiro rimanda infatti al soffio creatore di Dio sul fango primordiale (cf Gen 2,7) e all’alitare del Risorto sugli apostoli (cf Gv 20,22)
La redenzione operata da Gesù è una nuova creazione che ha come finalità la nascita di una nuova creatura (cf Ap 21,5). - “E subito gli si aprirono gli orecchi…” Il non poter parlare né udire chiude la persona nell’isolamento più grande e quindi nella più grande sofferenza perché siamo stati fatti per comunicare e per vivere in comunione, prima di tutto con Dio e in Lui con ogni creatura. Il sordo-muto diventa così simbolo dell’uomo che si chiude a Dio e al suo amore per aprirsi all’infelicità eterna. La sordità spirituale a cui rimanda quella fisica del miracolato è il chiudere volontariamente le proprie orecchie alla voce di Dio che non cessa di parlarci sempre in vari modi: nel segreto della coscienza dove ci invita a fare il bene e fuggire il male…, nella Sacra Scrittura, soprattutto nel Vangelo attraverso la vita e le parole di Gesù…, attraverso la voce della Chiesa, attraverso le circostanze della vita e la voce di chi incrocia la mia strada… Quante volte il buon Dio ci parla e ci ha parlato attraverso la voce dei nostri genitori…, di qualche parente o vicino di casa…, o qualche amico o sconosciuto incontrato provvidenzialmente…, ma bisogna volerLo sentire. Quante volte nella vita comune abbiamo sentito persone dire frasi più o meno simili: “Che parli pure… tanto io non lo ascolto!”. Dio parla, parla sempre al punto che il suo nome è “Parola” ma chi lo ascolta? E anche tra chi Lo ascolta, quanti Lo ascoltano totalmente e pienamente? Non è forse vero che ascoltiamo quello che ci pare e facciamo finta di non sentire quello che non ci conviene? Quante parole forti di Dio scivolano via sull’ombrello della nostra pia indifferenza? Non è forse vero che spesso facciamo una cernita della Parola fuggendo da quelle scomode e fastidiose?
- “…si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”. Prima vengono guarite le orecchie e poi le corde vocali! Non possiamo infatti rispondere pienamente a Dio se non accogliamo totalmente la sua Parola. Risanati interiormente da ciò che ci impedisce di ascoltare la voce di Dio dal tocco guaritore di Gesù, Egli stesso ci dona la capacità di rispondere al Padre come vi rispose e vi risponde tuttora Lui stesso. La sua risposta è sempre la stessa, non cambia, è l’“Amen” del Figlio ubbidiente e bravo che Lui ci ha insegnato a dire dandoci l’esempio (cf 2Cor 1,19-20).
Ecco, concludiamo – fratelli e sorelle – lasciandoci presentare oggi al Signore Gesù da sua Madre, la Vergine Maria che attraverso la Chiesa estende la sua maternità a tutti noi, perché Lui guarisca le nostre sordità e i nostri mutismi spirituali e possiamo con la Chiesa tutta lodarLo e ringraziarLo e testimoniare a tutti la potenza del suo Amore che oggi ci ha toccato in questa Eucaristia che insieme – nella fede nell’amore – celebriamo a gloria del Padre nostro del Cielo.
Amen.
j.m.j.
XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Lungi da me, satana!”
Carissimi fratelli e sorelle,
nella lettura semicontinua che stiamo facendo in questo anno liturgico “B”, del Vangelo di Marco, siamo giunti ad uno dei suoi brani fondamentali, meglio forse sarebbe dire che siamo giunti al suo brano centrale, punto di confine tra la prima parte di esso e la seconda in cui espone la vita pubblica di Gesù, la terza parte sarà il racconto della sua passione, morte e risurrezione.
Nella prima parte del suo Vangelo, Marco presenta Gesù come il Messia potente in parole e opere, che parla con autorità dominando sulle malattie [guarisce gli infermi], sulla morte [risuscita i morti], sui demoni e sulla natura stessa [tempesta sedata]. Queste manifestazioni portentose suscitano attorno alla persona di Gesù interrogativi e perplessità. Marco, in questa prima parte del suo racconto, accentua fortemente il fatto apparentemente contraddittorio che Gesù preferisca sempre, dopo aver fatto qualche suo miracolo o esorcismo, che non si dica in giro la cosa, raccomandazione, di fatto, inutile. Gesù invita al silenzio dopo aver compiuto un prodigio, perché non vuole avallare le aspettative messianiche del popolo che attendeva un Messia forte e potente, liberatore politico e sociale d’Israele che avrebbe fatto rinascere la potenza terrena di questo popolo rinnovando lo splendore della dinastia davidica, soggiogando le nazioni, prima fra tutte Roma che attualmente dominava la Palestina e buona parte del mondo conosciuto di allora.
Il brano odierno ci trasporta nel momento in cui Gesù pone fine a questo suo atteggiamento – che gli esegeti chiamano con il termine di “segreto messianico” – e inizia a parlare apertamente di Sé come il Messia, ma non quel Messia che loro si aspettavano, deludendo così le attese e le speranze di tutti, primi fra tutti gli Apostoli stessi e, primo tra essi, Pietro. È passato un po’ di tempo dall’inizio della sua manifestazione pubblica al battesimo di Giovanni, forse due anni, e ora il Maestro incomincia a chiedere ai suoi Apostoli cosa pensasse la gente di Lui. Le risposte le abbiamo sentite: «Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti», quindi il Signore li interroga direttamente chiedendo cosa pensano loro di Lui.
Se trasponiamo questa domanda ai nostri tempi e ci chiediamo cosa pensa la gente di Gesù oggi, penso che le risposte sarebbero più o meno sulla stessa linea di quelle: Gesù viene visto come un grande uomo, un profeta, un grande benefattore dell’umanità, “uno dei profeti”. Gesù viene visto come “uno tra” altri: “uno” della serie di profeti per la gente di Galilea, in altri tempi Lo si vedrà come uno dei fondatori di religioni oppure come un grande maestro morale o, ancora, in tempi più recenti, come un grande rivoluzionario politico-sociale. Spesso viene inserito come il primo della lista, ma sempre “uno tra” altri.
Non può essere così per i veri discepoli del Signore, Gesù non può essere visto come “uno tra”, ma come “l’Unico” e così risponde per tutti noi Pietro: “Tu sei il Cristo”. Sì Gesù non è uno dei tanti uomini speciali della storia dell’umanità, noi non seguiamo un uomo speciale, un profeta portentoso, un maestro formidabile, no! Che tristezza vedere oggi tanti cristiani che parlano del loro Gesù livellandoLo ad un buon filosofo morale come Socrate o ai vari maestri delle diverse religioni come Budda, Maometto, Confucio, Krisna e altri ancora. Che tristezza vedere come sta passando nel cuore e nella mente di tanti cristiani una visione delle varie religioni come vie indifferenti che portano comunque a Dio, per cui Gesù viene visto solo come un indicatore di una delle tante vie possibili per arrivare a Dio: che tristezza! E magari poi con queste idee in testa si va pure a fare la comunione eucaristica, sarebbe meglio chiamarla comunione sacrilega, piuttosto!
Sì, per ogni vero suo discepolo Gesù è “il Cristo”, cioè “il solo”, “l’unico”, non “uno tra altri”, bensì “l’unico mediatore tra Dio e gli uomini” (1Tm 2,5), “l’unico Signore” (1Cor 8,6; 12,5), l’unico Salvatore: “in nessun altro, infatti, c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12) perché Lui è “sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,5), “il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13) e senza di Lui non possiamo fare nulla di buono nella vita (cf Gv 15,5).
Ma torniamo al brano del nostro Vangelo. Pietro, abbiamo visto, risponde per tutti noi: “Tu sei il Cristo” e da questo momento cessa il segreto messianico, Gesù cioè non tace più sul fatto che Lui è il Messia, ma comincia a spiegare apertamente ai suoi che Lui è sì il Messia, ma non quello che loro si aspettavano, perché Lui fra poco avrebbe dovuto “molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” realizzando così in pienezza le profezie sul “Servo sofferente” di cui ci ha parlato Isaia nella prima lettura.
Tale rivelazione viene subito rifiutata dal gruppo apostolico e Pietro, a nome di tutti, prende in disparte Gesù “e si mise a rimproverarLo”. Fermiamoci un attimo su questa scena: Pietro che prende in disparte Gesù e Lo rimprovera! Che scena…! Come sentiamo vicino a noi questo Pietro che non capisce e non accetta quel linguaggio così duro del suo Gesù che parla di umiliazioni e sofferenze. E che brutta figura che fa il nostro povero Pietro, lui aveva preso in disparte il suo Maestro per farGli notare che quelle cose che diceva erano proprio balorde e voleva evitare che il suo Capo facesse brutte figure con la gente, perché quelle cose lì che diceva non le avrebbe proprio accettate e Lui invece che fa? Attira l’attenzione di tutti e lo rimprovera pubblicamente e duramente chiamandolo addirittura “satana”: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Povero Pietro: chissà come ci rimase male! Ma era necessaria quella lezione perché non ci fossero mai malintesi in seguito e non si cercasse mai nella sua Chiesa di annacquare il suo Vangelo proponendolo senza croce e schiodato dalle alte esigenze di un amore necessariamente crocifisso.
Marco mette in evidenza come il Signore Gesù proclami con forza la scelta della croce dapprima a Pietro e al gruppo apostolico e subito dopo anche alla folla alla quale il Maestro dirà: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà».
Povero Pietro, poveri Apostoli, povere folle deluse di tutti i tempi che non amano proprio sentirsi proclamare un simile discorso, stentando a comprendere questo linguaggio così duro di Gesù: come è difficile comprenderlo! Ma, perché è così difficile capirlo? Ce lo rivela lo stesso Gesù, perché «noi non pensiamo secondo Dio, ma secondo gli uomini». E sì, i pensieri di Dio non sono i nostri né le sue vie sono le nostre (cf Is 55,8), bisogna che impariamo i pensieri e le vie di Dio, bisogna che andiamo a scuola di Dio e di questa scuola divina il Maestro, “l’unico Maestro” (Mt 23,10), è Gesù, Gesù Crocifisso per scelta d’amore.
Sì, infatti, Gesù non si è incontrato casualmente con la croce (come qualche pseudo-teologo sembra aver sognato ultimamente), la sua è stata una scelta, ponderata, desiderata e voluta di andare incontro a quella croce che Lui sapeva che Lo attendeva e di abbracciarla con amore forte e deciso. Chiediamoci perché, il perché di questa libera scelta. La risposta può essere solo questa: per amore, l’ha fatto per amore. Gesù è il Figlio di Dio e Dio Lui stesso e Dio tutto fa solo per amore, non ha né può avere altre motivazioni al suo agire. Egli ha preso quella Croce benedetta per amore. Per amore di chi? Del Padre che Lo ha mandato e di noi tutti il cui debito si accolla sulla sua carne saldandolo con la sua morte: “Non lassa questo dolce e innamorato Verbo, per nostra ingratitudine né per ingiuria né per strazi né vituperio, che Egli non corra all’obbrobriosa morte della Croce, siccome innamorato della salute nostra” (S. Caterina da Siena, Lettera 270).
La Croce di Gesù con tutte le sue sofferenze e umiliazioni è il pagamento del debito dovuto da noi tutti: Gesù paga Lui ciò che avremmo dovuto pagare noi per il peccato dei nostri progenitori, Gesù Crocifisso è quindi il “caprio espiatorio” (Lv 16), “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) che annulla “il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli, […] inchiodandolo alla croce” (Col 2,14). Ora ci sono due angolazioni con cui poter leggere la Croce e questo debito saldato da Gesù. La prima angolazione vede le sofferenze e umiliazioni della Croce di Gesù come il castigo dovutoci per i nostri peccati: Dio era stato offeso dai nostri peccati e occorreva una punizione che riparasse l’offesa, per cui il buon Gesù si è accollato sulle sue spalle quella Croce che invece doveva finire sulle nostre.
La seconda angolazione entra dentro la prima ed evidenzia come questo debito che avevamo con il buon Dio era un debito di amore, avevamo mancato all’amore e l’umanità era diventata incapace di ritornare a Dio l’amore ricevuto, il circuito dell’amore era stato interrotto ed eravamo incapaci di reintegrarlo e allora è venuto Lui, il Figlio di Dio, a riparare questo circuito sfasciato e si è fatto Lui ponte tra noi e il Padre perché potessimo restituirGli l’amore da noi ricevuto con l’amore nostro. Per cui quello che nella prima angolazione veniva letto come castigo perde, nella seconda angolazione, questo significato e ne acquista un altro, più forte, più bello, più prezioso perché la sofferenza di Gesù non è il castigo del Padre all’umanità peccatrice, ma il ritorno al Padre dell’amore dovutoGli: la sofferenza diventa così testimonianza di amore, di un amore tanto più grande e assoluto quanto più pesante e crocifiggente essa è. Gesù abbraccia la sofferenza della Croce testimoniando attraverso di essa al Padre il suo amore totale e assoluto, abbandonandosi a Lui nella morte, accettando di morire per dimostrare al Padre che Lo ama più della sua stessa vita mortale assunta.
Dovevamo dimostrare al Padre che Lo amavamo veramente e l’unico modo era quello di morire per amore, di accettare cioè di essere privati di tutti i suoi doni, rimanendo solo con l’amore per Lui, per questo Gesù vuole morire nudo, solo e abbandonato sulla croce. Gesù acconsente a morire nel modo più sofferente possibile per dimostrare al Padre l’amore più grande possibile e ci insegna così ad amare e in questo amore restituire al Padre l’amore che ci aveva donato, offrendoGli così l’amore nostro, e l’amore veramente nostro è tutto lì in quella capacità che abbiamo di rinnegare noi stessi, prendere la nostra croce e seguirLo.
Il passaggio dalla Croce di Gesù vista come castigo e quindi qualcosa di inevitabile da portare con pazienza e rassegnazione e possibilmente da evitare, alla Croce di Gesù vista come amore che ritorna al Padre, ci permette di entrare nel mistero della Croce con un cuore nuovo, ferito dall’amore e capace di trasformare ogni sofferenza in amore che si consegna e si dona entrando nel grande circuito dell’Amore che parte dal cuore del Padre e a Lui ritorna per mezzo del cuore del Figlio suo, cuore aperto da una lancia sulla Croce: Amore che scende e Amore che sale, Amore suo e Amore veramente nostro! Perché Gesù è veramente uomo come noi! Amore che una volta scoperto fa impazzire le anime d’amore (S. Giovanni d’Avila). Amore che il mondo non conosce e non può conoscere “perché non ha ancora conosciuto Lui” (1Gv 3,1).
Chiediamo alla Vergine Maria, nostra Madre e Maestra di vita spirituale, che ci insegni e ci aiuti a compiere questo passaggio nella nostra comprensione del mistero della Croce, passando dalla Croce vista come castigo o punizione, alla Croce vista come occasione di amare e ritornare così amore al Padre. Maria ci insegni e ci aiuti a trasformare le innumerevoli circostanze di fastidio, di sofferenza fisica, morale e spirituale della nostra vita, in amore che si consegna e sale al Padre dal nostro cuore ferito, nell’unione al cuore aperto e traboccante di Amore di Gesù Crocifisso.
Amen.
j.m.j.
XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
E preso un bambino lo pose in mezzo…
Carissimi fratelli e sorelle,
da domenica scorsa, nel nostro cammino di lettura del Vangelo di Marco, siamo entrati nella seconda parte di esso, nella quale il Signore Gesù, dopo essersi manifestato al mondo come profeta potente in parole e opere (prima parte) ora comincia a spiegare con chiarezza ai suoi che Lui sarà Messia sofferente e umiliato e non forte e potente e rivestito di gloria umana come pensavano un po’ tutti, Apostoli per primi. Ma gli apostoli non capiscono, l’atteggiamento di Pietro al primo annunzio della passione, il cui racconto abbiamo letto domenica scorsa, si allarga a tutto il gruppo apostolico che non capisce questo linguaggio di Gesù.
Marco ha messo in rilievo nel brano odierno come gli Apostoli non solo non capivano quello che Gesù diceva, ma che anche “avevano timore di chiedergli spiegazioni”. Inizia così quella crisi che minerà i loro cuori fino ad abbandonare completamente il loro Maestro (Mc 14,50). L’evangelista Giovanni nel suo Vangelo mostra un momento di questa crisi quando – dopo il grande discorso eucaristico alla sinagoga di Cafarnao – Gesù, vedendosi abbandonato da numerosi discepoli e vedendo gli Apostoli stessi alquanto perplessi, disse loro: “Volete andarvene via anche voi?”(Gv 6,67). In quell’occasione il forte legame affettivo che essi avevano con Lui li aiutò a non scappare come invece faranno tutti al momento dell’arresto, subito dopo aver affermato di essere pronti a morire con Lui (Mc 14,31).
La seconda parte del Vangelo di Marco viene scandita dagli annunzi che Gesù Maestro fa della sua prossima passione e Marco – con l’incisività del suo stile fresco e vivace – ci mostra come ad ogni annunzio della passione il gruppo apostolico non solo non comprende, ma si pone nettamente in contrasto con Lui. Infatti nel primo annunzio abbiamo già visto come Gesù abbia chiamato “satana” Pietro che Lo vuol zittire, nel secondo – che è quello che abbiamo proclamato nella liturgia odierna – mentre Lui annunzia umiliazione e prossima sua morte, loro “parlavano di chi fosse il più grande fra di loro”, e quando, alle porte dei Gerusalemme, Gesù Maestro farà loro il terzo annunzio, due suoi Apostoli – i due fratelli Giacomo e Giovanni – Gli chiederanno di potersi sedere uno alla sua sinistra e uno alla sua destra nel suo avvento messianico (Mc 10,35ss): non avevano proprio capito ancora nulla!
Quanta pazienza ha avuto il buon Gesù con loro, con quanta dolcezza si fermava a spiegare loro che la vera grandezza non è nell’avere e nel potere, ma nel servire, nel farsi piccolo per amore. E perché Lo capissero bene prese in braccio un bimbo e Lui che è il Signore Dio nostro disse loro: “Chi accoglie questo bambino nel mio nome accoglie me e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato”, invitando così i suoi Apostoli che volevano essere i primi e i più grandi a farsi piccoli come quel bimbo che si lasciava prendere in braccio da Lui e nel quale Lui stesso si identificava.
Quanto faticarono questi poveri Apostoli a capire! Si tratta del mistero di una sapienza che non ha nulla di umano, totalmente divina che richiede un capovolgimento totale di mentalità (cf 1Cor 1,17ss) che solo lo Spirito del Risorto permetterà di attuare. Quella sapienza di cui ci parla Giacomo nella seconda lettura, “che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”.
Ebbene – carissimi fratelli e sorelle – se questi poveri Apostoli hanno così faticato a comprendere Gesù e il mistero della sua Croce non pensiamo noi di essere esentati da questa fatica! Quando questo mistero ci coinvolge e ci tocca in prima persona succede spesso che entriamo in una profonda crisi spirituale e di allontanamento da Gesù. In realtà quando questo succede non è che ci allontaniamo da Gesù, ma ci allontaniamo da quella falsa idea che avevamo di Lui, per questo ogni crisi in tal senso è una purificazione nella conoscenza del vero Dio, ben vengano dunque queste crisi perché noi possiamo diventare dei cristiani più autentici!
L’autenticità del nostro essere cristiani viene verificata ogni giorno dalla nostra capacità di portare con amore la nostra croce in Lui, con Lui e per Lui ben sapendo che solo così entriamo nella vera vita. Certamente questo impone ai cristiani uno stile di vita e una mentalità nuova nettamente in contrasto con chi – tanti! – fuggono ogni croce e ricercano la vita lontano da ogni morte. L’amore alla Croce di Gesù non può non emarginare il cristiano da quel mondo che non conosce Gesù e la potenza della sua risurrezione (Fil 3,10) diventando contemporaneamente, senza bisogno di parlare, ma con il suo stesso stile di vita, accusatore della vanità e del peccato del mondo perché appunto si rifiuta di assumerne la mentalità e le massime.
Qui si apre tutta la tematica della prima lettura tratta dal Libro della Sapienza, che ci ha parlato della persecuzione del giusto perseguitato appunto perché giusto, perseguitato da chi non sopporta la sua vista perché da essa si sente accusato della propria insensatezza. A ragione ci dice s. Paolo che “chiunque vorrà vivere piamente in Cristo sarà perseguitato” (2Tm 3,12) perché il cristiano per natura sua è una persona insopportabile a chi ha scelto di non portare nessuna croce non volendo soffrire, ma vivere nella gioia e nella felicità, gioia e felicità che gli sfuggono di continuo perché sperimenta ogni giorno il vuoto, l’insoddisfazione e l’angoscia di perdere quanto crede di avere.
Ma occorre proprio che andiamo in crisi profonde e facciamo lunghi viaggi verso il vuoto per capire la croce di Gesù? No, certamente no. Ma qual è il segreto che mi apre ad una conoscenza più approfondita della sapienza della Croce? Il segreto è quello di non fare lo sbaglio che fecero gli Apostoli “che avevano timore di chiedergli spiegazioni”. Bisogna entrar dentro il mistero con l’apertura del nostro cuore e chiedere a Gesù luce, luce e amore perché possiamo capire ciò che umanamente non è comprensibile. Ma questo non attraverso qualcosa di astratto e lontano dalla nostro tran tran quotidiano. Bisogna calarsi con tutto se stessi in ogni piccola croce della nostra vita e chiedere a Lui luce e amore, luce per comprendere, amore per assumere e donarsi. Non bisogna aspettare la grande croce della vita che mi farà crollare per scoprire la sapienza della croce! Lì disseminate nella nostra giornata ci sono una miriade di piccole croci che il buon Dio ha seminato perché io le assumessi e le trasformassi in amore che si consegna e si dona. Iniziamo da oggi la ricerca di questa preziosità così grande e così tanto poco stimata e tanto fuggita!
Carissimi fratelli e sorelle, perché da oggi, in tutta questa settimana, come frutto di questa parola che Gesù Maestro ha fatto risuonare nei nostri cuori, noi non ci dedichiamo ad una piccola ricerca, la ricerca delle piccole croci che fuggo o che nascondo ai miei occhi. Forse sarà una persona alla quale non riusciamo a dare un sorriso o a fare una gentilezza perché ci è antipatica o ci ha offesi e allora noi l’abbiamo cancellata dalla nostra vita e dal nostro sguardo. Forse sarà quell’impegno che non assolvo perché mi dà tanto fastidio, eppure è un mio impegno! Forse sarà quella gelosia avara con cui gestisco il mio tempo solo per me e così poco per gli altri! Forse sarà quella piccola cosa che io so bene che non andrebbe fatta o andrebbe fatta meglio e io invece mi lascio prendere dalla pigrizia o dalla mia sensualità. Forse sarà quel blocco che sento nel mio cuore per quella situazione o per quella persona, blocco che non affronto mai e che nascondo a me stesso o forse sarà qualche altra cosa piccola o grande che io rifuggo perché ho assorbito quella mentalità mondana che rifugge da tutto ciò che crocifigge perché ancora non conosce l’amore di Gesù…
Noi invece abbiamo conosciuto l’amore di Gesù, quell’amore che si è manifestato proprio lì quando Lui salì su quella croce vi rimase inchiodato mentre tutti gli chiedevano di scendere giù da essa (Mt 27,40), ed è questa proprio la sapienza della croce che Gesù ci ha insegnato, ci ha insegnato a non fuggire la croce, ad abbracciarla, a morirvi sopra trasformando tutto in amore che si consegna e di dona al Padre e ai fratelli. Facciamo questa esperienza in questa settimana, andiamo alla ricerca delle croci nascoste per scoprirvi, abbracciandole, quel misterioso e potente Amore che il Padre vi ha nascosto e che solo la fede in Gesù Crocifisso e Risorto ci permette di scoprire e esperimentare.
Maria SSma ci stia accanto in questa ricerca, così come fu accanto a Gesù, lì ferma sotto la sua croce aiutandoLo, con la sua presenza di Mamma forte, a rimanere inchiodato a quel legno per amore nostro finché mani pietose non l’avrebbero staccato per riporLo in quel sepolcro che nessuna pietra, pur grande, poté chiudere per sempre.
Amen.
j.m.j.
XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno “B” Omelia
“Non glielo proibite…”
Carissimi fratelli e sorelle,
continuiamo il nostro inseguire il Maestro lungo quella strada che Lo porterà a Gerusalemme, dapprima in mezzo alle acclamazioni e quindi in mezzo a quel mare di dolore e di umiliazione con cui sarà sommerso nei giorni del suo patire e del suo consegnarsi alla morte perché noi avessimo la vita. Di questo viaggio oggi Marco ci propone un incontro del gruppo apostolico e una raccolta di detti del Signore. Giovanni riferisce a Gesù che lui e qualche altro Apostolo avevano incontrato un esorcista, uno che cacciava i demoni e glielo avevano impedito rimproverandolo perché lo aveva fatto nel Nome di Gesù e non era del loro gruppo. Gesù non fu contento di questo gesto dei suoi Apostoli e li ammonì di non farlo più. La Chiesa ha accostato a questo episodio quell’altro simile riportato dal libro dei Numeri quando Mosè non impedì di profetare a due che avevano ricevuto lo Spirito, ma che non erano presenti col gruppo quando egli aveva imposto loro le mani.
La tematica che affiora da questa Liturgia della Parola è una tematica importante, difficile da affrontare e ricca di conseguenze per la nostra vita personale e ecclesiale e nello stesso tempo è una tematica delicata che si presta a facili equivoci, vediamo insieme con l’aiuto dello Spirito Santo di poter dire qualcosa su tutto questo.
Vorrei subito mettere in risalto un elemento a mio giudizio decisivo per comprendere il messaggio della Parola. Sia Eldad che Medad – i due profeti che Giosuè non voleva far profetare – e sia l’anonimo esorcista del Vangelo stanno facendo qualcosa di buono: “Magari tutti fossero profeti” – disse Mosè a Giosuè – “non glielo impedite, nessuno può fare un miracolo nel mio nome e possa poi parlare male di me” – rispose Gesù a Giovanni.
Nessuno può arrogarsi il monopolio del bene, il bene va riconosciuto e incoraggiato da qualunque parte esso provenga, ma come è difficile questo riconoscimento e questo incoraggiamento!!! Quanto è difficile riconoscere e incoraggiare il bene che fanno gli altri!!!! A noi è più congeniale e semplice simpatizzare con una persona afflitta che è colpita da qualche male – poverina! – che compiacersi del bene che qualcun altro fa – chi si crede di essere! chissà sotto sotto cosa ci guadagna! ecc. Come è difficile compiacersi del bene altrui! Vorremmo sempre – in qualche modo – appropriarcene con un’etichetta che in ultima analisi indichi noi stessi e non altri, come benefattori di questa umanità.
È il tarlo della gelosia di cui parla Mosè nella prima lettura: “Sei tu forse geloso per me?”. La gelosia è un serpente nascosto che è presente nel fondo dei nostri cuori sempre pronto a morderci il cuore se noi non siamo così furbi da tenerlo sotto controllo e schiacciargli la testa ogni volta che s’affaccia, ben consapevoli che mai lo uccideremo del tutto, vigilando così sempre per non farci avvelenare la persona.
La gelosia! Il non sopportare che gli altri primeggino e siano qualcuno e qualcosa più di noi! Per gelosia Caino uccise suo fratello (1Gv 3,12) e ancor prima per gelosia di essere come Dio, Eva si lasciò sedurre dal serpente (Gen 3,5) e sarà ancora la gelosia a rodere i cuori dei farisei, degli scribi e dei sacerdoti fino a volerlo a tutti i costi uccidere Gesù.
La gelosia è sempre in agguato nei cuori e moltissime azioni della persona che apparentemente sembrano essere motivate da criteri di equità, giustizia o altro, in realtà sono motivate esclusivamente da gelosia: quella battuta, quel gesto, quell’ammiccamento, quel sorriso ironico, quello sbuffare, quella cattiveria, quell’impuntarsi, quelle chiusure, quegli sgambetti che abbiamo talvolta fatto agli altri e talvolta invece abbiamo subito, non provenivano forse da essa, da quella gelosia nascosta che cova in fondo al cuore avvelenandoci il sangue e la vita?
Far guerra alla gelosia non è cosa facile, perché bisogna accettare di essere gelosi e pochi vogliono accettare le proprie tenebre, eppure bisogna partire proprio da questa umile e sincera accettazione di essere gelosi, gelosi per natura, portati ad essere gelosi di tutto e di tutti, prenderne consapevolezza guardando in faccia la nostra gelosia per raccoglierla come il contadino raccoglie il suo fascio di grano per presentarla al Padre perché Lui ci facci nuovi nel suo Amore, ci tolga questo cuore geloso e ci dia un cuore buono che sappia amare e compiacersi del bene altrui, un cuore buono come quello di Gesù, o meglio ci dia il cuore stesso di Gesù per amare in Lui e come Lui e non essere più gelosi, ma questo è – purtroppo! – un trapianto normalmente lungo e doloroso…
Per combattere e vincere la gelosia non basta solo essere vigilanti nella consapevolezza di questa presenza tenebrosa in noi, occorre anche che ci esercitiamo a scoprire il bene e il bello degli altri e a valorizzarlo, incoraggiarlo, promuoverlo e compiacersi di esso. C’è tanto bene in mezzo a noi da incoraggiare, tante persone che fanno del bene e sono avvilite, scoraggiate, demoralizzate perché nessuno se ne accorge o perché, magari, si fa finta di non accorgersene, nessuno le stima e le apprezza, nessuno sorride loro. Ecco se la settimana scorsa la Parola ci ha invitato alla ricerca delle piccole croci che il Padre ha disseminato nella nostra quotidianità per assumerle e trasformarle in occasione di donazione e di amore, in questa settimana siamo invitati dalla Parola a scoprire, tra chi ci incrocia durante il nostro piccolo tran tran quotidiano, tutto il bene che Lui, il Padre buono, fa attraverso tante persone nascoste che hanno però un volto e un nome. Scoprirle per sorridere loro, per dire loro: “Guarda che mi sono accorto della tua fatica, della tua bontà, dell’amore con cui tu fai questo o quello e ti volevo ringraziare e incoraggiarti”. Ci sono tanti modi di dire queste cose, basta lasciarsi animare dallo Spirito Santo, sarà Lui poi che ci suggerirà i gesti e le parole con cui comunicare questa nostra gioia nel compiacersi del bene altrui.
Ma la gelosia è un vizio così profondo che ha variegati aspetti, c’è la gelosia che lavora a livello personale, famigliare e di gruppo, in ogni caso è sempre la persona che vuole in qualche modo emergere sopra gli altri. Ci sono persone così gelose nei loro rapporti personali che fanno veramente pena, che si rodono il fegato per avere quello che ha un altro e di più, ci sono genitori che sono così fieri dei loro figli che questi devono essere i primi e i più bravi di tutti e non devono essere di meno di nessuno quanto a vestiti e cose varie da possedere.
Poi c’è la gelosia di gruppo che trasforma le aggregazioni in piccole o grandi sette: noi siamo i migliori, i più belli, i più forti e i più bravi e nessuno è così bello, forte e bravo come lo siamo noi! Era un po’ questa la mentalità degli Apostoli che Gesù – come abbiamo ascoltato – ha cercato di correggere aprendoli ad un allargamento delle loro strette vedute, alla tolleranza e alla benevolenza.
Questa specie di gelosia colpisce volentieri anche i gruppi ecclesiali, le comunità parrocchiali, le comunità religiose, quando – anche senza affermarlo platealmente – di fatto ci si sente i più santi nella Chiesa e si guardano gli altri dall’alto al basso perché non sono santi come noi, dimenticandoci così che è proprio nel nostro sentirci poveri peccatori perdonati e accolti da Dio il fondamento della nostra appartenenza alla comunità dei salvati che è la Chiesa. Il Venerabile Padre Pio Bruno Lanteri – fondatore di noi padri Oblati di Maria Vergine – insegnava a noi suoi figli che bisognava che amassimo la nostra famiglia religiosa come un bambino amava la sua mamma e le altre famiglie come un bambino amava la regina! Quanta saggezza c’è in questo suo insegnamento!
Ma, vi dicevo, introducendo questa tematica, che è una tematica delicata, delicata perché questa tolleranza, questa apertura, questa benevolenza potrebbe essere scambiata per un superficiale bonismo qualunquista, un generico vogliamoci bene, benediciamo tutti, abbracciamo tutti dimenticandoci della nostra peculiare identità. No questo no! Non è questo il messaggio di Gesù. Per poter affermare il bene e incoraggiarlo da qualunque parte esso provenga devo prima essere capace di discernere ciò che è bene e ciò che è male, e nell’affermazione di un determinato bene fatto o vissuto dall’altro in un determinato aspetto, non posso dedurne un’affermazione di totale e assoluta bontà e veridicità dell’altro. Occorre discernimento, S. Paolo ai suoi Tessalonicesi dava una norma quanto mai importante e in linea con quanto stiamo cercando di dire: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1Ts 5,19-21): “tenete ciò che è buono”!
È questa capacità – carissimi fratelli e sorelle – che forse oggi più ci manca il saper riconoscere il bene e distinguerlo bene dal male! Oggi ci riempiamo un po’ tutti la bocca di questa parola tanto di moda nel mondo ecclesiale: discernimento e poi ci si dimentica troppo facilmente che il fondamento del discernimento cristiano – su cui si fonda ogni ulteriore discernimento evangelico – è la Legge di Dio, sono i Dieci Comandamenti e che dove i Comandamenti non sono vissuti non ci può essere bontà né bene al punto che oggi Gesù ci ha ricordato con un certa durezza che è meglio per la persona perdere un organo o un membro del suo corpo fisico piuttosto che finire tutti sani e belli all’inferno e all’inferno si finisce quando non si osservano i comandamenti del Padre suo che Lui ha iscritti nel profondo del nostro cuore umano.
Apertura, quindi sì, benevolenza sì, accoglienza sì, ma con quel sano discernimento che ci salvaguarda dalla perdita della nostra identità di battezzati, di cristiani, di figli di Dio, riconosciamo pure il bene dovunque esso si manifesta e collaboriamo per la promozione del bene con chiunque, senza per questo dimenticarci che abbiamo ricevuto da Dio, in quanto cristiani, la missione di rivelare al mondo Lui, il vero Dio, l’unico vero Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha donato il suo Spirito perché possiamo ammaestrare le genti e aiutarle a salvarsi, cioè a realizzare la pienezza del proprio essere nell’adesione di fede a Dio e alla sua paternità.
Maria SSma ci aiuti a penetrare il messaggio della Parola di questa domenica e ci sostenga con la sua materna intercessione nel nostro sforzo per concretizzarla nella nostra esistenza di ogni giorno.
Amen.
j.m.j.
XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto”
Carissimi fratelli e sorelle,
coloro che sono stati attenti alla proclamazione della Parola di questa liturgia avranno subito percepito l’importanza della tematica che essa apre e la grande difficoltà nella quale Essa ci pone. È infatti oggi particolarmente un “linguaggio duro” (Gv 6,60) quello che abbiamo ascoltato: l’indissolubilità del matrimonio!
Esso fu ritenuto un “linguaggio duro” anche ai tempi di Mosè e per questo questi permise di alleggerirne la durezza autorizzando il ripudio della propria moglie nei casi gravi, ma poi, pian piano, il ripudio venne allargato anche a qualunque pretesto.
Ma Gesù oggi ci invita a riflettere su questa “durezza” capovolgendo l’ingannevole prospettiva dalla quale normalmente questa tematica viene osservata. Infatti nel dialogo con i farisei che “per metterlo alla prova” chiedono il suo parere sulla questione del divorzio, che era una pratica permessa dalla legge mosaica, Gesù chiaramente afferma l’indissolubilità dell’unione matrimoniale rifacendosi al comandamento originario del Creatore di essere non più due, bensì “una sola carne”e spiegando ai farisei che il divorzio era stato permesso da Mosè “per la durezza dei loro cuori”.
Carissimi fratelli e sorelle, fermiamoci un attimo ad approfondire questa risposta di Gesù Maestro: “per la durezza dei loro cuori”! Allora non si tratta di una “durezza” del linguaggio di Dio, non si tratta di una legge di Dio “dura”, bensì di un cuore umano “duro”, un cuore umano indurito.
Allargando il discorso non solo a questa tematica, ma anche a tutte le altre che vengono percepite come “linguaggi duri” di Dio, possiamo dedurre da questa affermazione di Gesù Maestro che ogni volta che noi percepiamo come “troppo dura”, “troppo esigente”, “troppo difficile” e quindi inattuabile una “legge di Dio” è semplicemente perché è il nostro “cuore” ad essere indurito e non viceversa la sua Legge ad essere “dura”!
Quante volte ho sentito persone cristiane, persone che si dicono di fede, persone che normalmente fanno la comunione alla domenica che poi di fronte a problematiche simili ti dicono: “Ma padre, ma non è giusto che quella poveretta si rifaccia una vita?… Ma padre, non è giusto che quel poveretto – così giovane, ha appena trent’anni, che la moglie ha abbandonato per andarsene con quello là, si possa rifare una vita?”. Ecco, vedete di fronte a questi ragionamenti così coperti di umanità e di compassione, tutti siamo tentati di dire la classica frase che riempie la bocca di tanti: “Ma la Chiesa dovrebbe capire… la Chiesa dovrebbe venire incontro… la Chiesa……”.
Carissimi fratelli e sorelle – diciamo la verità – non è vero che questi discorsi hanno pure toccato e piegato il nostro cuore? Un giorno Gesù, vedendo che il suo linguaggio era stato recepito come troppo “duro” e molti suoi simpatizzanti l’avevano abbandonato, disse con semplicità ai suoi apostoli: “Volete andarvene via anche voi?” (Gv 6,67). Le porte della Chiesa sono sempre aperte per entrarvi – sempre! – basta bussarvi e dire la parola magica: “Sono un povero peccatore… sono una povera peccatrice… ho bisogno di essere perdonato… ho bisogno di essere perdonata… aiutatemi!” Ma, fate attenzione – carissimi fratelli e sorelle – le porte della Chiesa sono aperte anche perché si possa subito uscire, quando lo si desidera, e io mi chiedo: Che ci stiamo a fare nella Chiesa quando non cerchiamo più il perdono di Dio e l’aiuto per vivere in esso? Il guaio è che si vuole rimanere nella Chiesa e godere del perdono di Dio senza dichiararsi “povero peccatore”, “povera peccatrice”! Ma Dio non perdona nessuno che prima non si dichiara “povero peccatore”, “povera peccatrice”.
Vedete, in questa omelia non posso e non voglio affrontare tutta la tematica inerente al “divorzio”, sarei per forza di cose troppo lungo, ma vorrei solo darvi alcune provocazioni che spingano ciascuno di voi a riflettere, a riflettere nella fede su questa problematica così diffusa in mezzo a noi.
Ad esempio uno degli argomenti più preferiti oggi per tacciare la Chiesa di crudeltà e arretratezza non è forse la proibizione della santa Comunione a coloro che vivono situazioni matrimoniali irregolari? “Poverini” – si dice – non è vero? – “La Chiesa li emargina… “ ecc. E poi, talora, queste persone che si sentono emarginate dalla Chiesa fanno il giro dei confessori finché non ne trovano uno più “umano” e “benevolo”, più “buono” che permette loro di fare la santa Comunione senza troppi problemi perché sono solo delle vittime della vita, vittime delle circostanze avverse e vanno aiutate non emarginate.
Sapete, quando queste povere persone bussano alla porta del mio confessionale, mi fanno tanta compassione, tanta pena, perché capisco la pesantezza della loro situazione, la difficoltà tremenda della solitudine, la frustrazione immensa della mancanza di affetto, li capisco, anche Gesù li capisce e come se non li capisce e li ama, e come se non li ama! E così anche nel mio cuore nasce il desiderio di dire: “Ma sì, ecco, ora io ti assolvo e fa’ pure la Comunione… Gesù è così buono…”. Ma poi mi ricordo che lì in confessionale non c’è Armando, ma c’è padre Armando e padre Armando è stato costituito “prete” da Dio attraverso la sua Chiesa non per togliere le croci dalle spalle delle persone, ma per aiutarle a portarle con amore, anche se con fatica e allora non esce dalla mia bocca l’umana parola di consolazione che leva loro quel “peso”, ma esce la parola della fede che li invita alla conversione del loro cuore, ad avvicinarsi a Dio perché Dio si avvicini a loro, che li invita a pregare, a umiliarsi riconoscendo il proprio peccato e a chiedere perdono al buon Dio.
E anche se agli occhi dei tanti potrebbe sembrare questa una parola senza cuore, senza amore per la persona, una parola “troppo dura” e quindi insopportabile, in realtà, essendo parola che nasce dalla fede, è quella più ricca di amore per la persona perché è una parola di VERITÀ, e la verità spesso può far del male al cuore, ma il cuore non può guarire se immerso nella menzogna, il cuore guarisce solo quando accetta la verità e la verità è questa: Sono un povero peccatore… sono una povera peccatrice… Signore, ho sbagliato tutto, abbi pietà di me!
Ora, quando la persona si mette così davanti a Dio, volete che Dio non abbia pietà di lei? Volete che Dio non le venga in soccorso, Lui che è Padre buono? Volete che questo Padre buono non si commuova e abbracci quella persona che lo invoca così? Certamente sì, ma c’è un cammino da fare, c’è una strada da percorrere. Ecco il compito del prete, ecco il compito del confessore che non è sempre quello di dare l’assoluzione e invitare alla Comunione Eucaristica, no, il suo compito in questi casi sarà quello di aprire la persona al desiderio di salvezza nella consapevolezza del proprio peccato. Finché la persona non si sente peccatrice e non si giudica in peccato, finché la persona non giudica di aver sbagliato, ma che è la Chiesa a giudicarla male, finché la persona non riconosce il proprio peccato, ma si sente semplicemente e solamente vittima della vita, la Chiesa non potrà assolverla perché neanche Dio lo fa!
Quando invece la persona, toccata nel cuore dallo Spirito Santo, comincia a capire di essere nell’errore, di vivere nel peccato e comincia a rivolgersi a Dio chiedendo perdono, aiuto, salvezza, allora si aprirà davanti a lei una strada, un cammino. Una strada e un cammino che sono particolari e diversi per ciascuno, dove il buon Dio prende per mano e piano piano conduce quella persona verso la salvezza. Una strada nella quale dovrà camminare umilmente, senza pretese, senza arroganza, dove la Comunione Eucaristica avverrà quando sarà il momento, non subito, subito si potrà sempre fare la comunione spirituale, ma la Comunione Eucaristica no, quella avverrà quando con l’aiuto di Dio si saranno tolti tutti quegli impedimenti che ora non permettono questo gesto pubblico, ma quando essi saranno tolti, allora e solo allora nel dialogo con la Chiesa attraverso la mediazione del confessore si potrà giungere anche a fare la santa Comunione.
I tanti cristiani che non comprendono più né accettano il linguaggio della Chiesa vivono questo atteggiamento perché non si mettono più nella giusta prospettiva, l’unica che permetterebbe loro di aprirsi gli occhi, il cuore e la mente: la prospettiva dei figli di Dio. Siamo sul serio figli di Dio, abbiamo cioè una dignità, un retaggio, una gloria divina. E se se siamo figli di Dio e di un Dio così tanto buono, siamo anche ripieni della sua grazia che ci comunica il suo Santo Spirito, siamo figli di Dio, siamo anche capaci di una vita da figli di Dio, siamo capaci di vivere le virtù e siamo capaci anche di viverle eroicamente come tanti altri cristiani come noi ci hanno mostrato nella storia della Chiesa. E se il Vangelo e la legge di Dio che la Chiesa non cessa di far risuonare alle nostre orecchie, talora ci sembrano troppo ardue, troppo difficili, troppo pesanti è solo perché questa prospettiva di fede è decaduta, basta riedificarci un po’ nella fede e tutto acquisterà un aspetto e una luce diversa.
E la nostra fede – carissime fratelli e sorelle -, come ben ci ricorda la Lettera agli Ebrei che abbiamo proclamato in questa Liturgia, è fondata su quella santificazione che abbiamo ottenuto gratis per il grande amore del Padre che ha mandato il suo Figlio a farsi uomo come noi per morire in croce per noi. Forse, se ci fermassimo più spesso a guardare Gesù appeso in croce per noi, capiremmo di più tante cose e non ci sarebbe bisogno di tanti discorsi e tante faticose spiegazioni controbattute dalle false massime mondane di cui tanti sono purtroppo imbevuti, per capire la verità!
Carissimi fratelli e sorelle, non dimentichiamo mai che “cristiano” vuol dire seguace di Gesù Crocifisso, Gesù Crocifisso è il nostro Salvatore e il Maestro assoluto, Lui – ci ha ricordato la Lettera agli Ebrei – “non si vergogna” di chiamare noi suoi “fratelli” e noi non dobbiamo mai vergognarci delle esigenze di vita del nostro essere noi “fratelli” suoi, fatti figli in Lui dello stesso Padre.
Non vergogniamoci di proporre a questo mondo d’oggi, così ironicamente e arrogantemente incredulo, e di annunciare la croce di Gesù, la croce di Gesù da portare con amore anche quando sembra così facile e semplice disfarsene, la croce di Gesù da abbracciare con gioia anche quando è così faticosa portarla, la croce di Gesù su cui rimanere appesi, inchiodati anche quando è così facile scendervi e fuggire, la croce di Gesù come luogo del nostro sacrificio, come altare della nostra immolazione dove, morendo con Gesù, potremo aver vita in Lui che più non muore.
Guardiamola dunque con gli occhi della fede questa croce di Gesù, eleviamo il nostro sguardo verso di lei e lo Spirito Santo ci aprirà alla luminosità della vera sapienza che ci permetterà di capire quello che il mondo non può capire perché ha il “cuore indurito,” indurito dal peccato, dalla malizia, dalla superbia, dal desiderio smodato di riempirsi la vita di comodità e di cose svuotandosi così di Dio, alla continua ricerca di una felicità che gli sfugge e che mai potrà trovare se non si fermerà lì, davanti alla Croce di Gesù e dirà quelle parole magiche che aprono il Cuore di Dio: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono degno più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni” (Lc 15,18-19).
Ecco, concludendo, rivolgiamoci come sempre a Lei, alla nostra Madre del Cielo, a Maria SSma che ci aiuti, aiuti soprattutto i giovani e le giovani famiglie a non lasciarsi intontire la mente e indurire il cuore dalle massime del mondo e così poter guardare la realtà dell’amore tra l’uomo e la donna in quella semplicità, bellezza e santità con cui il buon Dio l’ha pensato e creato perché entrambi fossero felici.
Amen.
j.m.j.
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Una cosa sola ti manca…”
Carissimi fratelli e sorelle,
quanta ricchezza il buon Dio ci regala ogni domenica con il dono della sua Parola, che dono prezioso, alto, meraviglioso… Preparandomi per quest’omelia pensavo come sarebbe bello che ogni cristiano si preparasse bene a quest’incontro con la Parola della Domenica, leggendola prima, fermandosi in preghiera su di Essa, lasciandola calare giù giù nel cuore, permettendo alla Parola di penetrarci, di scrutarci, di far luce nelle nostre povere tenebre di piccoli esseri umani: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi» (Seconda Lettura).
Ma perché la Parola possa penetrarci nel cuore occorre il nostro permesso, la nostra autorizzazione, perché la Parola è sempre discreta e rispettosa della nostra libertà. Essa c’invita ad aprirci a Lei e a lasciarci penetrare da Lei e aspetta, aspetta che accogliamo l’invito e le apriamo la porta dell’anima… “La parola di Dio è viva ed efficace…” e quando anche una sola delle sue parole riesce a farsi largo nel nostro cuore, allora tutto è diverso, tutto acquista una nuova dimensione, una nuova luce: la dimensione di Dio, la luce di Dio, ma bisogna lasciarsi giudicare, lasciarsi scrutare, lasciarsi penetrare per bene dalla Parola accettando di uscire allo scoperto, abbandonando i nostri nascondigli accettando così di guardarci nella nostra nudità, “nudi” così come ci guarda il buon Dio, vincendo quell’intima vergogna che ci tiene nascosti a noi stessi, come tanti altri Adami o Eve che dietro quel cespuglio si nascondevano a se stessi più che a Dio che tutto vede (cf Gen 3,8).
Se ogni settimana avessimo questo tempo di grazia in cui ci incontriamo così con la Parola della Domenica, quanti benefici spirituali ne avremmo! Ma soprattutto come sarebbe più partecipata, più profonda, più ricca di significato la Liturgia della Parola, perché – vedete – la Parola risuona più forte nella sua “novità” quanto più Essa è meno nuova per noi, cioè quanto più è conosciuta, meditata, pregata, contemplata, quanto più risuona come parola “nuova” quando risuona ai nostri orecchi nella celebrazione liturgica, ci avevate mai pensato? Ecco perché a tanti la Parola e le omelie liturgiche non dicono nulla di nuovo o quasi, semplicemente perché non si sono ancora aperti alla Parola, non dedicano tempo alla meditazione e alla contemplazione della Parola, non conoscono la Parola e quindi non l’amano e così per loro la Parola non dice nulla di nuovo, mentre per chi la conosce di più e la ama, ogni volta che l’ascolta – in particolare nella sua proclamazione liturgica – tanto più quella Parola riudita è ”nuova” per lui o per lei.
Ecco, dopo questa premessa immergiamoci nel Vangelo di questa domenica a cui la Chiesa ha accostato – per armonia tematica – la lettura del brano del Libro della Sapienza che canta appunto la preziosità della sapienza stessa, che vale più di ogni altra cosa al mondo, più dei soldi, più della bellezza, più della salute stessa. Vale la pena che rileggiamo questo breve brano attribuito a Salomone, brano così bello, così forte:
“Pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne promana. Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile”
Quanto bisogno abbiamo della sapienza! Cos’è la sapienza? È quella intima luce di Dio che ci illumina dentro e ci solleva in alto permettendoci di guardare la nostra vita dall’alto di Dio, ridimensionando tutto con quella luce che mi permette di capire il vero valore delle cose, dando valore a ciò che ha valore senza lasciarmi ingannare dalla falsa luminosità dell’effimero, del vano, del superficiale, del temporaneo, situando la mia esistenza nell’orizzonte di quella vita eterna che sola può aiutarmi a non lasciarmi abbindolare la mente e il cuore da ciò che non ha valore e che passa e passa presto: “Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1Gv 2,17).
Carissimi fratelli e sorelle, sapeste come mi si amareggia il cuore quando sento – purtroppo spesso – anche noi cristiani dire frasi del tipo: “L’importante è avere la salute!” Non possiamo accettare queste frasi! L’importante non è avere la salute del corpo, perché se tu hai la salute del corpo ma non hai la sapienza a che ti serve quella salute? A sciupare la vita, la tua e quella degli altri! Se veramente conoscessimo l’importanza e il valore della sapienza quanto più pregheremmo – come Salomone – per avere la sapienza, come la cercheremmo e la desidereremmo!
Ma qual è il cuore della sapienza cristiana? Il cuore della sapienza cristiana è seguire Gesù. Lo ripeto perché è tutto qui: seguire Gesù. Il Padre buono del cielo ce lo ha tanto raccomandato: “Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo” (Mt 17,6), La Vergine Maria, la nostra Mamma di lassù e la Chiesa, nostra Madre di quaggiù, ce lo ripetono sempre al cuore: “Fate quello che lui vi dirà” (Gv 2,5). “Seguire Gesù”: è tutta lì la sapienza del cristiano!
Andare dove Lui vuol portarci, senza paura, camminare dietro a Lui che fa da battistrada, condividere la sua vita, le sue pene, le sue gioie, la sua umiliazione, la sua morte per essere partecipi anche della sua risurrezione.
Ma, forse, nella mente di qualcuno che m’ascolta sta nascendo una domanda: “Ma padre, questo va bene per lei, per i consacrati, per i frati, ma per noi semplici laici…”. Eh sì, vi capisco, non siamo stati – purtroppo! – abituati a concepire la nostra religione così, ma semplicemente come una tavola di cose permesse da fare e di cose proibite: basta osservare i comandamenti e siamo a posto!
Non è così, non è così! Noi non siamo il popolo dei “Dieci comandamenti” quello era il vecchio popolo di Dio, noi siamo il “nuovo popolo” che Lui si è acquistato con il sangue del suo Figlio (cf 1Pt 2,9). Attenzione, i Dieci Comandamenti sono sempre alla base – certamente! – il Figlio non li ha certo aboliti, ma ci viene richiesto qualcosa di più perché di più abbiamo ricevuto!
I Dieci Comandamenti ci riconducono alla concretezza dell’esistenza quotidiana dandoci un punto di riferimento fondamentale che c’impedisce di cadere nell’illusione. Quale “illusione”? L’illusione di vivere la sequela di Gesù, di vivere il Vangelo, di vivere nell’amore quando così non è. E può succedere che siamo “illusi” di essere dei buoni cristiani! Siamo “illusi” quando crediamo e diciamo di essere buoni cristiani, ma non osserviamo concretamente tutti i comandamenti di Dio perché ce ne siamo dimenticati casualmente qualcuno! No, non sono e non posso essere un buon cristiano così. I “Dieci comandamenti” rimangono la base prima del discernimento cristiano senza l’osservanza dei quali non posso essere nella verità di Gesù Cristo. Poi ci saranno anche gli altri criteri di discernimento cristiano, ma il primo e fondamentale rimane il Decalogo!
Guardate Gesù nel Vangelo di oggi, guardate cosa ci dice Marco quando quel tizio gli chiese: “Cosa devo fare per avere la vita eterna?” Gesù gli rispose: “Osserva i comandamenti!” e questi: “Ma li ho sempre osservati sin dalla mia giovinezza”. Carissimi fratelli e sorelle, fermiamoci un istante in contemplazione di questo dialogo di Gesù, entriamo dentro il cuore di Gesù, nei suoi sentimenti, nei suoi affetti, nelle sue emozioni mentre dialoga con quest’uomo. Entriamo anche nell’intimo di questa persona di cui non si dice l’età, ma che è stata sempre vista come un giovane, “il giovani ricco” appunto…
Che bella persona questo giovane, ci avevate mai pensato! Aveva sempre osservato i comandamenti di Dio, sempre, fin dall’infanzia, io mi chiedo chi di noi qui oggi può dire di avere fatto altrettanto? Di aver amato Dio così, sempre ubbidiente ai suoi comandamenti?
Ma ora quel giovane sentiva un’insoddisfazione profonda, sentiva che gli mancava qualcosa e chiede a Gesù quel qualcosa: “Cosa devo fare di più, questo l’ho già fatto e lo faccio, cosa mi manca?” E Gesù – ci ricorda Marco – “fissatolo lo amò”, cioè “lo guardò con amore”. Entriamo con il cuore in quello sguardo di Gesù per raccogliere in noi tutto quell’amore con cui lo guardò e gustarlo in profondità…
Carissimi fratelli e sorelle non pensate che oggi non ci siano più giovani così puliti, così semplici, così belli! Ce ne sono, ce ne sono, grazie a Dio, ce ne sono ancora e ci saranno sempre nel mondo perché il buon Dio c’è veramente e il segno che Lui c’è e proprio quello che anche oggi in mezzo a tanto marciume e malizia ci siano ancora giovani così, puliti, semplici, belli dentro!
Ma quel giovane del Vangelo che Gesù guardò con amore, poi non Lo seguì, non fece quanto Gesù gli aveva proposto e se ne andò via “triste” perché non fu capace di distaccarsi dalle cose di quaggiù, si fermò ai “Dieci Comandamenti” e si fermò quindi ad essere una persona buona che non fa del male a nessuno, che rispetta gli altri, che fa qualche opera buona, ma fondamentalmente una persona insoddisfatta e triste perché non ha seguito Gesù.
Vedete, carissimi, non tutti siamo chiamati da Gesù a lasciare tutto dando tutto ai poveri per seguirLo nella povertà e nella radicalità più assoluta, non tutti siamo chiamati a questo, ma tutti, ripeto tutti, siamo chiamati a chiederci nello Spirito Santo cosa voglia Gesù da noi. C’è un disegno su ciascuno di noi, un disegno d’amore che ci chiama a seguire Gesù per realizzare la nostra pienezza e la nostra gioia. È qui che scatta il Vangelo e la sequela di Gesù, è qui che entriamo nel Nuovo Testamento e superiamo i “Dieci Comandamenti” senza rinnegarli, ma vivendoli in una nuova pienezza, quella dei figli di Dio! Siamo cristiani se seguiamo Gesù e seguiamo Gesù pienamente solo se abbiamo saputo fermarLo lungo la via – come quel giovane – e abbiamo avuto il coraggio di chiederGli dove vuole portarci, quale strada dobbiamo prendere, per quale direzione avviarci mentre Lui ci guardava con amore.
Non possiamo dirci realmente cristiani se non abbiamo l’esperienza di questa domanda e la consapevolezza di una risposta, finché non troviamo questa risposta non possiamo non essere “tristi” perché la vera gioia della persona umana è nascosta lì in quella pietruzza sulla quale il buon Padre del cielo ha scritto il nostro “nome nuovo” (Ap 2,17), quello vero, quello che Lui ha pensato per noi dall’eternità quando nella sua fantasia divina ci aveva pensato prima ancora che la nostra mamma s’innamorasse del nostro babbo, “nome nuovo” che solo Lui, Gesù, può svelarci perché in Lui il Padre ci ha pensati e “in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4)
Ecco – carissimi fratelli e sorelle – come al solito concludiamo rivolgendosi a Lei, alla Vergine Santa, che fidandosi della Parola e rendendosi disponibile ad Essa, ebbe la gioia di scoprire quel nome con cui il Padre la chiamava dall’eternità e che tutte le generazioni benedicono e acclamano perché da Lei “Piena di grazia” (Lc 1,28) abbiamo avuto il nostro Salvatore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio che concepì per opera dello Spirito Santo a Nazareth, che diede alla luce a Betlemme, che inseguì per le vie della Palestina, che raggiunse lungo il Calvario, che accolse, freddo e morto, fra le sue braccia sotto la Croce, che accompagnò in lacrime al Sepolcro e che testimoniò risorto e vivo nel Cenacolo.
Amen.
j.m.j.
XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la vita!”
Mc 10,45
Vangelo: Mc 10,35-45
Carissimi,
oggi con tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle di fede sparsi nel mondo celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale pregando insieme perché si rafforzi l’opera missionaria della Chiesa in ogni parte del mondo. Una particolare colorazione di commozione viene data a questa Giornata dai recenti martiri di due missionari italiani: Don Andrea Santoro in Turchia e Sr Leonella in Somalia.
L’esempio di questi martiri così tanto vicino a noi, ci invita fortemente a prendere coscienza con forza e con entusiasmo della nostra personale vocazione alla santità.
Spesso quando incontro qualcuno, specialmente in confessionale, dico frasi del tipo: “Coraggio, fatti santo… fatti santa!” Normalmente nel viso delle persone affiora un sorriso perplesso: “Padre, ma lei scherza! Santo io…!” Allora io continuo il discorso: “Ma tu lo sai che Gesù ti vuole santo? E Gesù è Dio… Dio ti vuole santo…, da cosa dipende questo tuo sorriso scettico?
Vedete questo scetticismo dipende – normalmente – da un’equivoco intorno al concetto della “santità”. Infatti, quando parliamo di santità, normalmente tutti pensano a sant’Antonio, a san Francesco, s. Rita o altri personaggi eccelsi: queste sono figure di santità già realizzata, già compiuta, già arrivata alla meta; ma queste persone non sono nate così, hanno avuto il loro cammino, cammino in cui avranno potuto avere anche i loro momenti – anche lunghi momenti! – di debolezza, di fallimento, di peccato… basti pensare a sant’Agostino o a san Francesco, ad esempio. Vedete, noi non dobbiamo aspettare di essere già arrivati alla perfezione e pienezza della santità per rispondere alla chiamata alla santità.
In questo senso possiamo e dobbiamo essere “santi” subito, ora, adesso, certamente non di una santità di pienezza e di compimento, ma di una santità in divenire, di una santità di apertura del cuore, di una santità di desiderio, di una santità di confidenza e di abbandono nella misericordia di Dio, di una santità di disposizioni del nostro animo teso e orientato verso il Signore sommamente e primariamente amato. Di una santità che germoglia e cresce nell’esperienza continua di un viso che si lascia bagnare dalle lacrime di Dio, come novelli figli prodighi di una padre esageratamente buono (cfr. Lc 15,20)… è questa la nostra santità! È in quell’abbraccio di misericordia che veniamo fatti nuovi dentro, rivestiti di grazia e di splendore: ma io? Ma io che continuo a sbagliare? Ma io che prometto… prometto e poi ricado sempre nelle stesse miserie?
Carissimi fratelli e sorelle, ma quando capiremo che la nostra “santità” non consiste nella fedeltà del nostro amore verso Dio, ma nella fedeltà dell’amore misericordioso di Dio verso di noi? Se lo capissimo veramente, tutto cambierebbe nella continua esperienza di un amore troppo grande che non si lascia mai vincere da nessuna miseria umana perché è misericordia infinita.
Ma perché parliamo di santità oggi che è la Giornata Missionaria Mondiale? Semplicemente perché non ci può essere autentico spirito missionario senza autentico spirito di santità. Come possiamo avere l’ardire di pregare perché il Signore Gesù venga conosciuto e amato da chi non lo conosce, se noi stessi per primi non Lo amiamo e non Lo seguiamo con impegno ed entusiasmo?
E proprio di questo amore parla S.S. Benedetto XVI nel suo messaggio in occasione di questa giornata:
«Come scriveva l’amato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio, “l'anima di tutta l’attività missionaria: l’amore che è e resta il movente della missione, ed è anche l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono” (n. 60). Essere missionari significa allora amare Dio con tutto se stessi sino a dare, se necessario, anche la vita per Lui. Quanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici, pure in questi nostri tempi, Gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio! Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo. Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell’azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo.
Cari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale sia utile occasione per comprendere sempre meglio che la testimonianza dell’amore, anima della missione, concerne tutti. Servire il Vangelo non va infatti considerata un’avventura solitaria, ma impegno condiviso di ogni comunità. Accanto a coloro che sono in prima linea sulle frontiere dell’evangelizzazione – e penso qui con riconoscenza ai missionari e alle missionarie – molti altri, bambini, giovani e adulti con la preghiera e la loro cooperazione in diversi modi contribuiscono alla diffusione del Regno di Dio sulla terra» – S.S. Benedetto XVI – Messaggio per la GMM 2006, nn. 3-4
L’impegno dell’annuncio nasce dall’esperienza della fede vissuta, della fede in Gesù, “il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), che ha sofferto per me e che ha preso su di sé tutti i miei peccati, come ci ha ricordato oggi Isaia. Lì, appeso al legno Lui ha portato tutte le mie malizie, brutture, miserie, lì Lui si è fatto brutto, talmente brutto da non sembrare più neanche un uomo (cf Prima Lettura), perché io fossi fatto bello, si è fatto maledetto perché io fossi benedetto (cf Gal 3,13-14), si è fatto peccato perché io fossi fatto figlio (cf 2Cor 5,21)!
“Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia” come ci invita la seconda lettura di oggi, ed è da questa esperienza di persone toccate dalla misericordia di Dio, che hanno cioè esperimentato quanto è buono il Signore – troppo! – che nascerà nei nostri cuori il desiderio che anche altri nell’universo mondo possano conoscere questo AMORE, siano toccati da questo AMORE, esperimentino la potenza di questo AMORE che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
Questo AMORE potente e misericordioso di Dio che si è manifestato pienamente in Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). Per cui quanto più Gesù sarà oggetto dei nostri pensieri, delle nostre riflessioni, delle nostre meditazioni, ma soprattutto, quanto più Egli sarà oggetto della nostra contemplazione amorosa, tanto più crescerà in ciascuno di noi lo spirito missionario, perché se siamo poco apostolici, se comunichiamo poco il Vangelo, se non siamo impegnati seriamente nell’evangelizzazione del piccolo mondo della nostra quotidianità è perché non abbiamo ancora il nostro cuore colmo d’amore per Gesù. Per questo dobbiamo conoscere di più Gesù, dobbiamo assorbire il suo Vangelo, assimilarlo, assumerne il DNA, farlo diventare vita della mia vita, primo e ultimo senso di ogni mia scelta piccola o grande, acquistando un nuovo modo di essere, di relazionarmi, di pormi nel mondo: quello di Gesù, il Signore e Maestro, “il nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13) il Quale pur essendo Dio e pienamente tale volle farsi uomo per salvarmi e insegnarmi a vivere e a morire.
Gesù, Lui che pur essendo l’Onnipotente Dio si fa debole per me e bisognoso di tutto, anche del mio affetto! E così Lui che è Amore sussistente (cfr. 1Gv 4,8.16) si presenta a me affaticato, stanco, assetato, lì seduto al pozzo ad aspettarmi per mendicarmi amore (cfr. Gv 4,7). E ancora a me Lui grida: “Ho sete” (Gv 19,28) inchiodato al legno non dai chiodi, ma dall’amore che mi porta…!
Gesù, Lui che pur essendo ricco perché ogni cosa è Sua, di tutto di spoglia e sale sulla Croce per me…! Nudo e inchiodato, straziato e dissanguato, abbandonato e morto… e tutto questo per me!
Gesù, Lui che pur essendo il Padrone assoluto di tutto, si fa Servo per amore, servo mio… Lui, Dio, si fa mio “cameriere” per la Sua grande festa (cfr. Lc 12,37) nella Casa del “Padre suo e Padre nostro” (Gv 20,17)!
Poveri Giacomo e Giovanni, poveri Apostoli che, mentre Lui cercava di spiegarvi tutto questo, pensavate ad avere un posto più in alto degli altri! Quant’è difficile capire il Vangelo! Quant’è difficile capire quest’Amore! È un amore “troppo grande” (Ef 2,4), perché non è un amore umano, nessun uomo avrebbe potuto amarci così ed insegnarci ad amare così (cfr. Os 11,9), Lui lo ha potuto fare perché solo Lui è l’Uomo-Dio, l’“Unico” (1Tm 2,6) Salvatore di questo mondo che va alla deriva, ma che non affonda perché oggetto di una bontà senza limiti, di una misericordia immensa, di un amore troppo grande!
Ed è questo Vangelo che oggi e sempre la Chiesa annuncia a tutti gli uomini e a tutte le donne di tutti i tempi perché “siano in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Gesù che sorpassa ogni conoscenza, perché siano ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,18-19).
La Vergine Santa ci insegni e ci aiuti a lasciarci ogni giorno di più affascinare dal suo Figlio divino e dal suo Vangelo per essere in mezzo a questo nostro povero mondo suoi testimoni sempre più credibili.
Amen.
j.m.j
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Cosa vuoi che Io faccia per te?”
Carissimi fratelli e sorelle,
la Liturgia oggi accosta la guarigione di Bartimeo, il cieco di Gerico, al canto gioioso di Geremia – lui classicamente conosciuto come il profeta delle amare lamentazioni e della sventura – che profetizza il ritorno di un piccolo resto di esuli a Gerusalemme, resto formato da persone umili, povere, malate per le quali la bontà di Dio, a loro gioia, apre una strada nel deserto perché possano ritornare nella loro patria,.
La lettura continua che stiamo facendo in queste domeniche della Lettera agli Ebrei oggi ci regala questo passo in cui l’Autore, riflettendo sull’essenzialità del sacerdozio del Vecchio Testamento, ci parla della compassione che doveva avere il sacerdote verso il popolo perché rivestito lui stesso di debolezza in quanto povero uomo come tutti bisognoso anche lui della misericordia di Dio.
La compassione di Dio dunque che si manifesta oggi anche attraverso il miracolo di Bartimeo.
Quella di Bartimeo è una pagina importante di Marco, per comprenderla in pieno e nella sua giusta luce dobbiamo inquadrarla bene nell’insieme di tutto il suo Vangelo. Marco ha raccolto tutto il materiale riguardante la vita di Gesù e poi lo struttura, l’organizza in base a una sua idea teologica che sta alla base stessa di tutta la sua opera evangelica. Vedete, è come se ogni evangelista volesse comunicarci una foto di Gesù scattata da un’angolazione diversa, la visione globale delle quattro foto dei quattro evangelisti ci darà poi una visione piena, completa di Gesù. Ora, per comprendere questo miracolo di Bartimeo, dobbiamo entrare bene nell’angolo di visuale di Marco, nel suo intento teologico con cui tenta di comunicarci il mistero di Gesù, il Figlio di Dio.
Marco distende il suo Vangelo su un “viaggio”, un solo viaggio di Gesù da Nazareth a Gerusalemme, si tratta di una struttura letteraria più che storica in quanto ben sappiamo da Giovanni che Gesù fece più viaggi a Gerusalemme. Questo viaggio rappresenta anche il “viaggio della fede”, cioè attraverso le tappe fondamentali di questo viaggio siamo messi davanti al cammino di fede che Marco propone ai suoi lettori. Ora, in esso ci sono tre tappe fondamentali che segnano il cammino del credente. L’episodio di Bartimeo segna la conclusione della seconda tappa del cammino di fede del credente, per questo è un episodio molto importante, episodio chiave e simbolico, nel senso che il fatto storico del miracolo viene ad assumere anche altri significati nel quadro complessivo di questo Vangelo.
Vediamo insieme, velocemente, queste tappe. La prima parte di svolge dalla predicazione di Giovanni il Battista alla guarigione del cieco di Betsaida (Mc 1,1- 8,26), in essa assistiamo al racconto di come questo Gesù di Nazareth si fa conoscere, si manifesti come Messia forte e potente: parla con autorità, caccia i demoni, guarisce i malati, comanda alle forze della natura e fa risorgere anche i morti. Emerge qui quello che gli esegeti chiamano “il segreto messianico”: Gesù opera tutti questi portenti, ma c’è come un suo ritornello alquanto misterioso: “State zitti… non parlate di quello che ho fatto… non ditelo a nessuno…”. Perché se da una parte si manifesta con potenza di miracoli, dall’altra impone un silenzio che poi nessuno osserva? La risposta dovreste ormai saperla perché ne abbiamo già parlato in altre omelie (vedi omelie della IV e XXIV domenica del tempo ordinario). Gesù, infatti, è il Messia, sì, ma non quel Messia che tutti attendevano, glorioso e potente liberatore sociale e politico. Imponendo il silenzio dopo i suoi prodigi Gesù cerca di non incoraggiare quella visione sbagliata che avevano di Lui.
Dunque nella prima parte del Vangelo di Marco, Lui si fa conoscere, si manifesta e questa sua manifestazione si chiude con il racconto di uno strano miracolo, quello del cieco di Betsaida (Mc 8,22-26), vi ricordate? Quel cieco che viene guarito con due successivi tocchi di Gesù perché dopo il primo tocco non vedeva ancora bene: vedeva gli uomini come alberi che camminavano… di questo miracolato non si sa nulla oltre il fatto della guarigione difficoltosa: non si dice il suo nome, ma si dice che Gesù “lo rimandò a casa”, non seguì Gesù, se ne tornò a casa…Questo cieco guarito, ha un valore simbolico, egli rappresenta il cammino di fede del discepolo di Gesù che dopo averlo incontrato e conosciuto incomincia a vederci, cioè a credere, ma questa fede è ancora iniziale, incipiente, non è ancora una fede matura e forte: è la prima tappa del cammino di fede.
La seconda parte inizia con l’inchiesta che Gesù fa ai suoi discepoli (Mc 8,27), ricordate: “Chi dice la gente che io sia… e voi chi dite che io sia?” Da quel momento Gesù inizia a rivelarsi ai suoi più intimi, gli Apostoli, come il Messia sofferente. Questa parte viene scandita dai suoi tre annunci della prossima passione, ad ogni annuncio segue un atteggiamento negativo degli Apostoli che non capiscono questo linguaggio di Gesù perché sono tutti presi dalla loro idea di Messia glorioso e potente.
Bartimeo entra in scena subito dopo il terzo annunzio della Passione e chiude la seconda parte di questo Vangelo, come il cieco di Betsaida aveva chiuso la prima parte. Bartimeo rappresenta la controparte degli Apostoli che non capiscono e continuano a fare brutte figure. Egli rappresenta il discepolo che ha capito, il discepolo che di fronte ai tre annunci della passione del suo Signore ha capito che Lui è un Messia umile e mansueto e che seguirLo significa andare a morire con Lui! Quanta ricchezza nasconde questo Bartimeo, cerchiamo di entrarvi dentro.
Innanzi tutto il fatto che Marco dica il suo nome, è importante che venga ricordato per nome, del cieco di Betsaida invece non si diceva il nome, qui sì. Il nome della persona racchiude tutta la sua dignità e vocazione.
Il cieco di Betsaida fu condotto a Gesù da altre persone che pregarono Questi di guarirlo. Bartimeo, no, tutt’altro, nessuno lo porta da Gesù: è lui che grida a Gesù e quando lo vogliono zittire, lui grida più forte. Il discepolo di Gesù è una persona che ha con Gesù un rapporto personale, intimo: è chiamato per nome da Gesù e chiama per nome Gesù: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” Non possiamo dirci discepoli di Gesù senza questo intimo e personale rapporto, non possiamo essere solo persone portate da Gesù e non coinvolte in questo intimo e personale rapporto con Gesù, portate da una certa cultura, portate da un certo ambiente in cui si fanno cose scontate che però scontate non dovrebbero essere, come è scontato che quando il bimbo nasce lo si battezza, quando cresce gli si fa fare la Prima Comunione e la Cresima, quando è ora un bel matrimonio in Chiesa e quando è un’altra ora si cerca il parroco per il suo funerale…
Bartimeo è li a terra lungo la strada, cieco, senza nessuno che possa aiutarlo a vederci. Ecco la condizione fondamentale per diventare discepoli del Salvatore: essere qualcuno che sa di essere bisognoso di salvezza, bisognoso di redenzione. Bartimeo si mise a gridare aiuto a Gesù perché lo salvasse, l’esperienza di essere salvati nasce dall’esperienza del bisogno di un Salvatore. Quante volte mi sono chiesto perché aspettare di essere sul fondo, perché aspettare di naufragare, perché aspettare di essere travolto dagli eventi della vita per capire che abbiamo bisogno di “Uno” che ci salvi? Perché quando stiamo bene e tutto ci va bene ci dimentichiamo di gridare a Gesù e di dirgli: “Gesù, salvami”? Ci sentiamo autosufficienti, autonomi, crediamo di non aver bisogno di nessuno, perché ci sentiamo forti, sani, belli e tutto ci va bene…, ma poi basta un piccolo male al pancino e ci ricordiamo che non siamo noi a darci la forza, la salute e la bellezza e ci mettiamo a gridare aiuto…mentre basterebbe un pizzico di buon senso per capire che sempre abbiamo bisogno di Lui, non solo quando stiamo male!
Bartimeo grida e vorrebbero farlo tacere perché disturba, ma Lui grida più forte… Cosa vorrà mai dire questo? Mi sembra di leggere un rimando alle nostre vite ordinarie di comunità cristiana, quanti alle volte vorrebbero avvicinarsi alla comunità, a Gesù, ma sono proprio quelle persone più vicine a Gesù ad impedirglielo? Alle volte noi di Chiesa formiamo come una muraglia cinese che impedisce a tanti ad avvicinarsi a Gesù perché con la nostra persona nascondiamo Gesù agli altri e li allontaniamo da Gesù, mentre Gesù li vorrebbe vicino, noi li allontaniamo. Questo con tutte le buone intenzioni, senza malizia, senza cattiveria, con buona coscienza ma con effetti deleteri.
Non erano forse in buona coscienza quelli che volevano far star zitto Bartimeo? “Sta disturbando il Maestro, facciamolo star zitto, così non lo disturberà più!” Ma Gesù desiderava essere disturbato, questo non l’avevano capito. Alle volte le nostre pastorali sono tranquille e serenamente chiuse, non prevedono dei disturbi, non prevedono dei fuori programma, chi segue veramente Gesù non può mai mettersi un programma in tasca, Gesù infatti è tutto un Fuori Programma e un Fuori Schema, perché Lui è essenzialmente Amore e l’Amore non si fa chiudere da niente perché trascende tutto.
Ma se il rapporto con Gesù è intimo e personale, non è mai intimistico, esso matura e cresce nella comunità, l’incontro personale con Gesù, il rapporto personale con Gesù si realizza nella comunità, e attraverso la comunità, Gesù infatti manda a chiamare Bartimeo: “Chiamatelo!” Ecco il compito della comunità cristiana, aiutare le persone a sentire la voce di Gesù che chiama, non portarle o trascinarle da Gesù, ma invitarle ad alzarsi dalle proprie situazioni di miseria per andare da Gesù.
Perché l’incontro con Gesù sia salvifico occorre però lasciare il mantello, cos’era il mantello per un povero al tempo di Gesù? Era la sua casa e il suo rifugio, era la sua unica sicurezza. Gesù non ci salva se abbiamo nascosti dei mantelli… Gesù non ci salva dal naufragio della nostra vita se noi stiamo attaccati a qualche spezzone di barca o a qualche salvagente… Gesù non ci salva se noi pensiamo di poter nuotare con le nostre forze…Gesù mi salva solo quando io ho ben capito che non so nuotare e che non ho salvagente, allora e solo allora, appena sentirà il mio grido di aiuto – “Signore salvami!” (Mt 14,30) – Lui mi afferrerà la mano e mi tirerà fuori da qualunque mare che voglia sommergermi, ma la sua mano non si stenderà verso di me se vedrà che io faccio affidamento – anche minimo – a qualcos’altro o a qualcun altro a cui aggrapparmi!
Lasciato il mantello, Bartimeo, si presenta da Gesù e questi gli chiede: “Cosa vuoi che io faccia per te?”
Poche righe prima di questa domanda a Bartimeo, Marco, ci aveva riportato la stessa identica domanda di Gesù fatta a Giovanni e Giacomo: “Cosa volete che io faccia per voi?” (Mc 10,36) – conosciamo la risposta: Sedere uno a destra e uno a sinistra nel suo regno. Bartimeo dà invece la risposta giusta: “Fa’ ch’io veda, Signore!” Ma – voi direte – che cosa avrebbe dovuto chiedere un cieco se non di vedere? Carissimi fratelli e sorelle quante volte nell’incontro sacramentale con le persone, il sacerdote si accorge, percepisce come non è proprio scontata questa risposta! Quante volte si va da Gesù nel sacramento della confessione a chiedere perdono per cose insignificanti che ci creano però enormi sensi di colpa e non si chiede perdono invece per enormi peccati che si son fatti e facciamo senza alcun senso di colpa o scrupolo?
Saper entrare dentro noi stessi con sincerità per scoprire qual è il nostro vero male, qual è la nostra cecità più profonda e presentarla a Gesù perché io ci veda! Gesù non guarisce se non quello che noi chiediamo che ci guarisca, Egli infatti è discreto e ci lascia nelle nostre cecità se a noi ci piacciono tanto, non ci forza, non ci viòla, Lui è sempre lì che ci invita a lasciare il mantello e ad andare da Lui per essere guariti da tutti i nostri mali, ma dobbiamo presentarglieli con fiducia e con consapevolezza.
“La tua fede ti ha salvato!” Bartimeo ha avuto fiducia in Gesù, Gli ha presentato la propria cecità ed è stato guarito, e – cosa importantissima! – ora “segue Gesù lungo la via”. Il cieco di Betsaida fu rimandato a casa, non seguì Gesù, Bartimeo sì, segue Gesù lungo la via. Ma dove porta quella via? A Gerusalemme, al Calvario a una Croce, ecco dove porterà quella via.
Ecco perché Bartimeo è una grande figura, un grande personaggio, perché lui ha capito quello che non avevano capito gli Apostoli e diventa quindi il simbolo d'ogni persona che capisce il linguaggio di Gesù, il cuore di Gesù, l’animo di Gesù e accetta nella propria esistenza l’Amore misterioso del Padre che c’invita ad entrare con Gesù nel mistero della sua Croce morendo con Lui per poter risorgere con Lui.
Bartimeo rappresenta quindi la figura del cristiano adulto, del discepolo fedele e maturo che è tale perché ha creduto in Gesù e si è lasciato guarire da Lui, ora Bartimeo non può riprendere la vecchia strada, ora ha capito qual è la sua strada: seguire Gesù “lungo la via”, la sua via è quella della Croce. Bartimeo è il fedele maturo che ha ben capito gli insegnamenti del Maestro, che non chiede di sedere con Lui nella gloria, ma di morire con Lui sulla Croce perché solo morendo con Lui si vive con Lui. Bartimeo quindi ci introduce alla terza definitiva tappa del “viaggio della fede” che Marco ci propone: Gesù che si rivela come Figlio di Dio sul trono della Croce, trono ben diverso di quello che si attendevano gli Apostoli per sedervici accanto! E sarà poi un centurione romano, non un Apostolo, a cogliere per primo come “Costui veramente era figlio di Dio!” (Mc 15,39)
La Vergine Maria ci aiuti in questa settimana a seguire Gesù come tanti Bartimei che hanno avuto la gioia di essere stati chiamati e salvati dal suo Figlio Divino.
Amen. j.m.
XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Il primo è: Ascolta Israele”
Vangelo: Mc 12,28b-34
Carissimi fratelli e sorelle,
la Liturgia della Parola oggi ci propone, sia nella prima lettura che nel Vangelo, lo “Shemà Israel” (=Ascolta Israele), quel brano del Deuteronomio che ogni buon ebreo tutt’oggi recita ogni giorno in cui il fedele si propone di amare il Signore con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le proprie forze. Continuiamo poi la lettura semicontinua della Lettera agli Ebrei. Nel brano odierno Gesù viene presentato come Colui che ci rende possibile l’accesso a Dio, infatti avendo offerto una volta per tutte se stesso per noi, Egli ora sta lì presso il Padre, risorto e vivo, che intercede per noi.
Ma veniamo al nostro Vangelo. Uno scriba si avvicina a Gesù per porGli una domanda, in Matteo (22,35) e in Luca (10,25), lo scriba si avvicina a Gesù “per metterLo alla prova”, Marco non riporta questa motivazione e lo scriba sembra essere un ricercatore sincero della verità. La sua domanda va anche compresa nell’ambito del contesto religioso del tempo, infatti:
«I rabbini avevano raccolto la legge di Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa ("non devi"), tanti quanti i giorni dell'anno, ed erano considerati lievi. I rimanenti 248, in forma positiva ("devi"), tanti quanti le membra del corpo umano secondo la concezione di allora, ed erano ritenuti gravi. Con questi numeri si voleva indicare simbolicamente che l'uomo nella totalità della sua persona, nell'intero arco della sua esistenza e nello spazio della sua attività deve essere tutto proteso verso Dio e pronto ad attuare la sua volontà, espressa nella Legge. I maestri ebrei cercavano anche, nella serie interminabile dei precetti, di individuarne uno che in qualche modo li riassumesse tutti e così, osservandolo, si potesse osservare tutta la legge. Per es. il famoso maestro Hillel, di poco anteriore a Gesù, aveva sintetizzato il contenuto della Legge nel "Non fare al prossimo tutto ci che è odioso a te…" »
– Mons. Ilvo Corniglia
Vorrei in questa omelia focalizzare la nostra riflessione intorno a tre punti:
1° Ascolta – 2° Egli è l’unico – 3° Amerai
Ascolta
Se andiamo in profondità, in realtà è proprio questo il primo comandamento dato all’uomo da Dio: ascoltarlo, cioè cogliere la sua parola e capirla, perché se qualcuno parla è per essere ascoltato e capito. Una delle cose più frustranti della nostra esperienza umana è quella di parlare e non essere ascoltati, parlare ed essere disattesi, parlare ed essere snobbati, parlare e non essere capiti, parlare e essere fraintesi. E come a noi non basta essere ascoltati e capiti, ma desideriamo essere ascoltati e capiti con attenzione, con affetto, con stima della nostra persona, con gioia e non forzatamente, così, e ancora di più, infinitamente di più, Dio desidera essere ascoltato con attenzione, interesse e amore, perché Egli che è “Amore” (1Gv 4,8.16) ci parla per, con e nell’Amore e da noi desidera solo che cogliamo questo amore e corrispondiamo a questo amore.
Dio ci parla in diversi modi
- Dio ci parla attraverso il creato: tutto è stato fatto dalla Parola creatrice di Dio che disse e ogni cosa fu fatta (cf Gen 1,1ss; Sal 148,5). Ogni cosa quindi è, da una parte, qualcosa che mi parla di Dio perché da Lui ha origine e, d’altra parte, è essa stessa una parola di Dio per me.
- Dio ci parla attraverso le circostanze liete e tristi della nostra vita e del mondo: è Lui infatti che conduce la storia.
- Dio ci ha parlato attraverso la storia della salvezza, la Rivelazione che giunge a noi attraverso i due canali della Sacra Scrittura e della Tradizione viva della Chiesa. In essa ci ha parlato e ci ha detto tutto pienamente e perfettamente in Gesù: Gesù è la Parola del Padre. Gesù ci ha fatto conoscere tutto quello che era necessario conoscere per la nostra salvezza (Gv 15,15): sbaglia assai chi va in cerca di altre rivelazioni o visioni:
«Chi ora volesse interrogare Dio o chiedergli qualche visione o rivelazione, non solo farebbe una sciocchezza, ma anche offenderebbe Dio, perché non fisserebbe gli occhi unicamente su Gesù senza cercare altre cose o novità» – S. Giov. della Croce – Salita del monte Carmelo, II, 22, 5
- Dio ci parla nell’intimo dei nostri cuori dove Lui ha casa: ogni altra voce ci giunge dal di fuori di noi stessi, la voce di Dio è l’unica che ci giunge dal di dentro di noi stessi, Dio ci parla dal cuore e al cuore.
L’unico modo per cogliere questa voce di Dio che giunge a noi in questi e altri diversi modi, è quella di fare silenzio, il silenzio è la condizione del discernimento della Parola di Dio, Essa infatti non può essere colta nel frastuono, ma solo nel silenzio.
Egli è l’Unico
Il fatto che Dio sia per me veramente l’unico Dio, comporta come conseguenza l’unificazione della mia persona. Infatti, senza Dio accolto come l’unico Dio della mia vita, la mia identità personale viene dispersa e frammentata dalle sue varie ambizioni, voglie, desideri che pilotano la mia esistenza nei suoi vari ambiti. La frammentazione e la divisione è l’esperienza propria di chi non ha accolto Dio nella propria vita come l’«unico» e serve una molteplicità di idoli, cioè una molteplicità di punti di riferimento, di sicurezze, di scopi non riconducibili a Dio, ma solo a se stessi. Dio, invece, quando è creduto e accolto come l’«unico», diventa ed è realmente l’unico punto di riferimento assoluto, unico criterio, unico senso, unisco scopo, unico fondamento, unico principio a cui ricondurre ogni azione, ogni gesto, ogni comportamento, ogni scelta, ogni decisione, ogni pensiero, ogni ambito della nostra vita concreta. Credere e accogliere Dio come l’«unico» comporta l’unificazione di noi stessi, in quanto nulla può e deve essere sottratto alla relazione consapevole e vitale con Lui. È per questo che solo in Lui possiamo ritrovare la nostra identità, la nostra unità personale che è il centro soggettivo d’azione da cui parte ogni atteggiamento e comportamento della nostra persona. Senza Dio, dunque, non possiamo trovare noi stessi, in quanto la nostra persona è stata creata da Dio per entrare in questa intima relazione con Lui. L’uomo creato da Dio per Dio, una volta perso Dio ha perduto se stesso, disgregato se stesso.
Per cui, se io volessi rendermi conto se sono unificato o meno e, quindi, se adoro veramente l’«unico» Dio, basta che mi chieda a chi o a cosa posso ricondurre i vari ambiti della mia vita concreta: la famiglia, il lavoro, lo svago, le mie amicizie, le mie aspettative e desideri più profondi sono riconducibili ad un «uno»? ogni ambito è fine a se stesso o è riconducibile a Dio? Purtroppo il caso più comune è quello di avere una molteplicità di poli che diventano così i nostri idoli, adorati in se stessi per autoappagamento o autoesaltazione personale. Anche le cose più belle e sante possono diventare idoli: così la famiglia fine a se stessa diventa un idolo, e così il lavoro, lo svago, le amicizie e ogni altro ambito che non riconduco o che non posso ricondurre a Dio, come fondamento e finalità, diventa un idolo che servo e che asserva la mia vita. Ma il guaio è che tutto passa ineluttabilmente (1Cor 7,31; 1Gv 2,17) e, quindi, tutto ciò che non aveva e non ha il suo ancoramento in Dio – unico che non passa! – venendo necessariamente – prima o poi – a mancare e a crollare, mi lascerà vuoto, insoddisfatto e deluso. Tutto quanto invece avevo ed è ancorato saldamente in Dio, anche se passa, poiché Dio rimane per sempre, lo ritroverò in Lui in una nuova dimensione.
Amerai
Veniamo quindi al cuore di questo brano evangelico: il comandamento dell’amore assoluto, primario e radicale con cui l’uomo deve relazionarsi con Dio, amandoLo “con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le proprie forze”. Ma l’amore è comandabile? Se l’amore necessità di libertà come è possibile comandare di amare? Possiamo entrare nella comprensione di questo comandamento solo accogliendo il dato rivelato che l’uomo è stato creato da Dio “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,27) e poiché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16), se l’uomo vuole essere se stesso e conforme alla propria vocazione personale, deve necessariamente amare e poiché Dio lo ha amato per primo creandolo e redimendolo (1Gv 4,19), se l’uomo non ricambia quest’amore diventa un incredibile ingrato e gli ingrati sono proprio persone che non amano, perché chi ama è grato, solo chi non ama non ha gratitudine per chi lo ha beneficato. Per questo il peccato proprio e principale dell’uomo è l’ingratitudine radicale e assoluta, cioè il non-amore verso chi lo amato tanto, troppo e di più. Come potrà, infatti, mai essere felice un ingrato?
Ecco perché il buon Padre del cielo ci ha comandato di amarLo, perché sa che solo se rimaniamo nel circuito dell’amore ricevuto e donato, possiamo essere felici. Per questo ci ha mandato il suo Figlio: perché ci rivelasse la strada dell’amore vero e ci donasse anche un cuore nuovo capace di percorrerla. Gesù ci ha insegnato che amare è dare la vita, chi è attaccato alla propria vita non è capace di amare sul serio (Gv 12,25), ama solo chi accetta di perderla. E nessuno, poi, potrebbe amare nella verità se Gesù non ci desse anche la possibilità di avere un “cuore nuovo” (Ez 11,19), infatti il nostro è troppo piccolo, troppo misero, troppo egoista, troppo malizioso per essere capace di amare così come il Padre vuole e ci ha indicato in Lui. E proprio questo “cuore nuovo” il Signore Gesù, con il suo Santo Spirito, ha immesso in ciascuno di noi nel santo battesimo, come seme e germoglio, che può crescere e fruttificare solo nell’unione con Lui, nei sacramenti, nella preghiera e nella santità della nostra vita. Ed è proprio la concretezza della nostra quotidianità, il luogo dove questo “cuore nuovo” è chiamato a realizzare amore nella lotta, alle volte tremenda, con le forze del non-amore – striscianti e alle volte pressanti – presenti del nostro “uomo vecchio” il cui cuore stenta a morire (Ef 4,24; Rm 6,6; Col 3,9, ecc.).
Che aggiungere? La Vergine Maria, Madre del Divino Amore, nostra Madre e Maestra, ci introduca e ci assista nella Scuola dell’Amore che ha come unico Maestro il suo Gesù e come unica cattedra la sua santa Croce. Amen. j.m.j.
XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Ha dato più di tutti”
Carissimi fratelli e sorelle,
ci avviamo verso la fine di questo anno liturgico e già appare, nella Liturgia della Parola, l’accenno all’evento finale della storia di questo nostro mondo, che è il ritorno glorioso di Gesù, “senza più nessuna relazione col peccato” – come ci ha ricordato la Lettera agli Ebrei – ritorno che avverrà soprattutto per “coloro che l’aspettano per la loro salvezza”, salvezza intesa in senso pieno e totale come realizzazione piena del proprio essere e non semplicemente e solo come salvezza dall’inferno, dalla dannazione.
La prima volta è venuto in relazione al peccato: per prendere su di sé i nostri peccati e stracciare, con il suo corpo straziato e martoriato, “il documento scritto del nostro debito” (Col 2,14). La seconda volta verrà per consegnare il premio – che è Lui stesso – a coloro che “attendono con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,8).
Una domanda per scavare nel nostro spirito e vedere se troviamo l’acqua viva (cf Gv 4,14; 7,38) dell’amore o l’acqua stantia della tiepidezza: il ritorno di Gesù è oggetto di una mia reale amorosa attesa?
Lasciamo ora questo argomento in quanto avremo modo di riprenderlo nelle prossime domeniche di questo finale dell’anno liturgico e, soprattutto, poi, ne prossimo Tempo di Avvento, e veniamo al resto della Liturgia della Parola che oggi ha come suo centro due vedove: l'ospitalità della prima viene compensata dal miracolo di Elia (prima lettura) e l'umile generosità della seconda merita da Gesù un elogio che non ha l'eguale (Vangelo).
Ciò che accomuna le due vedove è sia la situazione di povertà: povertà affettiva perché private, con la morte, dall’affetto e vicinanza del marito e povertà effettiva, perché oltre tutto sono prive di beni materiali ed entrambe sono poverissime; sia la grande generosità d’animo: entrambe sono capace di dare tutto, e dando tutto, danno se stesse, si consegnano generosamente non tenendo nulla per sé fidandosi della Provvidenza del buon Dio.
Entrambe quindi ci danno una lezione di amore, di amore vero e l’amore è vero solo quando rende la persona capace di dare se stessa e non semplicemente delle cose, quando ciò che diamo tocca la nostra persona, allora e solo allora stiamo veramente amando. Finché stiamo dando il superfluo, il sovra più non abbiamo ancora verificato la nostra capacità di amare, essa si verifica e si attua solo nella donazione di qualcosa che ci tocchi, qualcosa quindi che non sia superfluo, cioè qualcosa che se ne possa fare a meno senza esserne toccato, bisogna che quel qualcosa che dono produca un vuoto in me, faccia sentire la sua mancanza. Quando noi siamo capaci di dare qualcosa che ci costa, allora stiamo amando sul serio e quella cosa che stiamo dando diventa segno di quell’amore più o meno grande che ha motivato il gesto, per cui la cosa donata diventa segno della persona stessa che nel dono dona se stessa. Certamente quanto più il dono costerà alla persona, quanto più la cosa donata era necessaria, quanto più amore occorrerà per donarla. Entrambe le nostre vedove dando tutto ciò che posseggono, danno se stesse, perché si privano di ciò che hanno per darlo agli altri: la vedova di Zarepta per far mangiare Elia, la vedova del Vangelo per dare gloria a Dio e così facendo manifestano l’amore più grande possibile: dare tutto se stessi per l’altro.
Entrambe realizzano questo gesto di amore nell’abbandonarsi a Dio, nell’affidarsi a Lui totalmente. L’amore vero comporta sempre necessariamente quest’abbandonarsi in Dio della persona che, amando, rischia sempre qualcosa, perde necessariamente le proprie sicurezze e rimane senza appoggi. Chi desidera sempre sicurezze e punti d’appoggio materiali non sarà mai capace di amare nella verità, perché ha una tremenda paura di rischiare se stesso. È questa paura che attanaglia il cuore di tanti oggi e che li blocca all’amore: avendo perso Dio come fondamento, come riferimento e come affidamento, rimangono incapaci di giocarsi, di rischiare perché hanno paura di perdere qualcosa e volendo quindi salvare se stessi ad ogni costo, vivono in se stessi il fallimento dell’amore, l’incapacità di amare e di realizzare amore. E ogni volta che si aprono all’amore, l’apertura è sempre con condizioni, a tempo più o meno indeterminato: finché va, finché mi torna comodo e non ci sono intoppi, finché ci guadagno qualcosa…, sempre pronti a riprendersi quanto si è dato all’altro con riserva e mai in modo assoluto e totale. Chi, invece, ama non ha paura di rischiare qualcosa e di perderla e ama solo chi è capace di donarsi senza condizioni e senza riserve.
Ma veniamo ora più in particolare alla pagina evangelica e vediamo cosa essa possa dire al nostro cuore.
Gesù è nel Tempio di Gerusalemme che insegna di guardarsi dai modi di fare superficiali, vuoti e ipocriti di molti scribi che ostentano boriosamente se stessi ricercando riconoscimenti e primi posti, sfruttando anche gli altri a proprio beneficio. In questo contesto Gesù si siede di fronte al tesoro del Tempio, al luogo dove i fedeli ebrei gettavano le loro offerte, si siede e guarda la gente che va a gettare la propria offerta.
Fermiamoci un istante a gustare questo sguardo di Gesù: c’era folla e Lui stava lì, da parte, seduto e guardava inosservato e disatteso dalle persone. È così tutta la nostra vita: non c’è un istante di essa che possa sottrarsi allo sguardo penetrante di Gesù. Tutta la nostra vita si svolge sotto il suo sguardo a cui nulla sfugge. Se si pensasse di più a questa verità quante cose belle si farebbero in più e quante cose brutte in meno: Lui c’è, c’è sempre, e guarda dal suo angoletto nascosto nel più profondo del cuore di ognuno, guarda la nostra vita: guarda i nostri pensieri, affetti, sentimenti, atteggiamenti, comportamenti, parole, ciò che facciamo e ciò che subiamo.
Gesù guarda, si compiace e si rallegra…oppure Gesù guarda e si rattrista amareggiato.
Gesù “sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte”. Chissà cosa pensava, Gesù, quando guardava questi ricconi che gettavano sonoramente i loro oboli perché li sentissero tutti e li ammirassero. Si tratta di un rischio reale e concreto per tutti. La ricerca del complimento, del compiacimento altrui, fare le cose solo in funzione dell’apparenza per suscitare plauso attorno a sé, il far bella figura, suscitare ammirazione e così credersi di essere qualcuno. I soldi, i troppi soldi, portano sempre con sé questo rischio. E Gesù sta lì e li guarda mentre loro, impastati di vanità e di superbia, offrono a Dio il loro superfluo.
Ma, ad un certo punto il Maestro chiama i suoi discepoli più intimi e addita loro, gioiosamente compiaciuto, una vedova che aveva donato due spiccioli e la loda affermando che lei, proprie lei, nella sua povertà aveva donato al Signore più di tutti, “poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
“Ha dato più di tutti”: Lui non guarda infatti l’esteriorità, la quantità di quanto di dona, Gesù guarda il cuore, guarda come dona il cuore, guarda se quel cuore è bello, aperto, generoso e allora gioisce perché vede l’amore e l’amore Lo fa gioire.
Se quella povera vedova “ha dato più di tutti”, significa anche che lei era la più ricca di tutti, possedeva un grande tesoro, quale? Il suo stesso cuore ferito dall’amore, un cuore capace di dare tutto e non tenersi nulla per sé. Un cuore così è padrone del mondo, non possedendo nulla possiede tutto perché possiede Dio (cf 1Cor 3,22-23).
Impariamo da questa vedova ad amare, ce lo chiede lo stesso Gesù, infatti, invitando gli Apostoli a guardarla, implicitamente ha invitato anche noi, oggi, a farlo, a guardarla con attenzione per scoprire la bellezza di quel gesto umile e nascosto, che fa’ gioire e glorifica Dio stesso.
Ma l’invito di Gesù è anche un invito a scoprire le tante e tante persone che in questo nostro povero mondo sanno dare tutto con amore e per amore. Nessun telegiornale parlerà mai di loro, sono troppo umili e nascoste, eppure sono tante, più di quanto si possa pensare e sono proprio loro che reggono il mondo, perché attirano su di esso lo sguardo compiaciuto e benevolo di Dio Amore.
La Vergine Maria, che di tutte queste persone è stata la prima e lì, all’Annunciazione, seppe consegnare tutta se stessa, senza riserve, all’Amore perché la fecondasse, ci aiuti ad aprire senza paura il nostro cuore alle esigenze più alte dell’amore, perché nella nostra vita possa sempre più trasparire la presenza ineffabile di quel Gesù che Lei portò fisicamente in grembo e diede alla luce a Betlemme, e che oggi, nella sua grazia, vive e regna nel cuore di chi, come noi, Lo ama. Amen. j.m.j.
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B Omelia
“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo”
Carissimi fratelli e sorelle,
approssimandosi la fine dell’anno liturgico che si concluderà domenica prossima con la Solennità di Cristo Re, la Chiesa ci invita a riflettere su quelle che sono le verità ultime, dalla Solennità dei Santi – possiamo dire – la Chiesa ci parla di quelli che chiamiamo Novissimi: morte, giudizio, purgatorio, paradiso, inferno, fine del mondo, giudizio universale.
Ma prima di entrare nel merito vorrei affrontare un punto difficile che emerge dall’odierno Vangelo: Gesù parlando ai suoi della fine del mondo dice una frase oscura: “Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”. A causa di questa frase alcuni rimangono fortemente perplessi sulla divinità di Gesù Cristo per il ragionamento che spontaneamente viene da fare dicendo: “Ma se Gesù è Dio come poteva non conoscere quella data?” Alcuni poi passano dalla perplessità alla negazione della sua divinità.
Allora è bene che noi conosciamo i criteri di lettura della Bibbia e quindi degli stessi Vangeli che ne sono il cuore. Il criterio fondamentale con cui noi cattolici leggiamo la Scrittura – non dobbiamo mai dimenticarcelo! – è la fede! Cioè noi leggiamo la Scrittura nella precomprensione del deposito della nostra fede, fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli. Per cui se un brano biblico sembrerebbe affermarmi una qualunque cosa che è nettamente contraria alla mia fede, io devo cercare altre possibili interpretazioni del brano e, se non ne trovassi, dovrei ammettere con umiltà di trovarmi davanti ad un passo oscuro, che non capisco e di fronte al quale faccio il mio atto di fede in quello che Santa Madre Chiesa mi ha trasmesso, rifiutandone categoricamente una interpretazione non conforme alla fede.
Ciò premesso, quale spiegazione conforme alla nostra fede potremmo dare a questo passo oscuro? Dobbiamo innanzi tutto partire dal dato di fede per cui noi crediamo che Gesù Cristo è Dio con il Padre e lo Spirito Santo e in quanto Dio non poteva non sapere qualcosa e quindi Lui sapeva benissimo quella data.
Ma allora Gesù Cristo avrebbe detto una bugia? Impossibile, Lui è la “Verità” (Gv 14,6)! Dio non può mentire né ingannare nessuno! E questo appunto perché Dio, infatti Dio, essendo perfettissimo, non può mentire perché se mentisse non sarebbe perfetto!
E allora? La Chiesa ha sempre interpretato questo passo difficile supponendo che Gesù poté affermare di non sapere in quanto in Lui sussistevano due conoscenze: una umana e una divina e quindi Lui in quanto Dio conosceva tutto, in quanto uomo doveva imparare, così come imparò a leggere e a scrivere, come imparò l’umile arte del falegname e tante altre cose. Quella data, dunque, da Lui conosciuta in quanto Dio, gli era ignota in quanto uomo. La coesistenza di queste due conoscenze è un mistero: è il mistero dell’incarnazione! Come può Dio essere anche vero uomo? Di fronte a questo mistero possiamo solo inginocchiarci e adorare!
Ma chiediamoci anche: Perché il Signore Gesù non ci ha rivelato quella data? Evidentemente perché il Padre non gli aveva dato questo compito e non glielo diede perché questa conoscenza non ci serviva, anzi averla sarebbe stato per noi terribile e controproducente. Pensateci un po’: cosa avrebbe significato per l’umanità conoscere che la fine del mondo sarebbe avvenuta, non so, magari nel 3589 d.C.? Sarebbero accadute due cose: per tutte le persone delle epoche precedenti quella data, si sarebbe persa l’atmosfera spirituale dell’attesa amorosa e per la generazione vivente a quella data, l’attesa si potrebbe tramutare in terrore, ansia e angoscia per molti e in ogni caso avrebbe messo quest’ultima generazione in una condizione di privilegio in quanto, sapendo la data della fine, avrebbero potuto anche prepararsi ad essa convertendosi a Dio e al suo Cristo che viene a chiudere la storia, e questo per la sola paura di finire all’inferno. Ma Dio vuole che noi ci avviciniamo a Lui per amore e non per terrore!
Chiarito tutto questo, volevo farvi osservare come sia la prima lettura tratta dal libro di Daniele, sia il discorso di Gesù riportato dal Vangelo di oggi sono espressi in un linguaggio apocalittico, si tratta di un genere letterario caratterizzato da immagini molto forti e terrificanti che parla di terremoti, catastrofi planetarie, eventi terrificanti. Questo stile letterario nacque nel terribile periodo della persecuzione greca, in tempo di oppressione e di martirio circa nel II° secolo a. C., si sviluppò poi nella persecuzione romana di Nerone e ha nel libro dell’Apocalisse di S. Giovanni la sua massima espressione biblica. Questo stile letterario voleva, tramite un linguaggio così vivo e sconvolgente, trasmettere ai fedeli che vivevano momenti di terrore, la certezza della signoria di Dio sulla storia, è quindi animato da una grande speranza e vuole infondere fiducia nell’intervento definitivo di Dio, rivelando (apocalisse=rivelazione) il vero senso della storia dell’umanità.
Cerchiamo ora di giungere a qualcosa di concreto per la nostra vita spirituale, mettendoci di fronte con fede e con amore alla Parola ascoltata che oggi ci ha ricordato come quel Gesù che ha donato la sua vita per noi sulla croce e che ora “si è assiso alla destra di Dio” (seconda lettura) un giorno ritornerà a chiudere la storia dell’umanità. Di fronte a questa affermazione della nostra fede, viene spontaneo domandarvi e domandare innanzi tutto a me stesso: Ma ci crediamo a questo? Crediamo veramente che Gesù tornerà a chiudere la storia? Ogni domenica lo affermiamo nel “Credo”, ma ci crediamo veramente?
Io spero di sì! E così dolce il pensiero che Lui tornerà! È venuto nell’umiltà del presepe, è vissuto nella povertà, è morto nudo e martoriato su un pezzo di legno per me. Se lo amiamo veramente come non gioire al pensiero che tornerà e tornerà non più così, ma nella potenza del suo splendore e della sua onnipotenza divina (cfr. 1Cor 15,23-28; Fil 2,10; Rm 14,11)? Come non gioire al pensiero che anche le ginocchia più recalcitranti dovranno piegarsi (1Cor 15,24)
Oggetto della speranza cristiana è rivedere il Signore andando “incontro a Lui sulle nubi del cielo” (1Ts 4,17). Vedete, i primi cristiani subirono la fortissima delusione di non vederLo venire, credevano infatti che il suo ritorno fosse imminente, interpretando male alcune frasi di Gesù nelle quali Egli sembra affermare questo. Una di queste frasi è quella odierna, quando Gesù dice che “non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute”. L’equivoco nacque dal fatto che nel discorso di Gesù s’incrociano la visione della distruzione prossima di Gerusalemme ad opera della potenza romana con quella della fine del mondo. Altri passi della Scrittura poi contribuirono ad acuire l’equivoco. Ad esempio: “Sì, verrò presto!” (Ap 22,20) o quella frase che Gesù stesso disse agli Apostoli nel cenacolo: “Ancora un poco e non mi vedrete; un po' ancora e mi vedrete” (Gv 16,16). Ma Gesù poteva affermare che sarebbe tornato presto perché “davanti al Lui un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2Pt 3,8).
E noi – carissimi fratelli e sorelle – possiamo dire che siamo i figli spirituali di quei cristiani delusi, perché al suo ritorno ormai non ci pensiamo più, non è vero forse? Sì, diciamo di crederci recitando settimanalmente il Credo, lo affermiamo anche dopo ogni consacrazione eucaristica quando diciamo: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”, ma siamo “sinceri” quando lo affermiamo? Il nostro sguardo, il nostro cuore, la nostra persona è proiettata verso quel giorno, sospiriamo quel giorno, preghiamo perché quel giorno venga presto?
Sì, che venga presto quel giorno! Il giorno quando – finalmente! – Lui trionferà, quando sarà inaugurato il suo Regno eterno d’amore e dove noi regneremo con Lui (cfr. Lc 22,30; Mt 25,34; Ap 2,26). Se veramente Lo amiamo non possiamo non fare nostro il grido della Chiesa che in ogni sua preghiera, in ogni sua celebrazione sospira verso quel giorno. La stessa Bibbia si conclude con questo grido di speranza, di attesa, di amore: “Lo Spirito e la Chiesa dicono: Vieni!” invitando ogni fedele ad unirsi ad esso: “Chi ascolta ripeta: Vieni!” (Ap 22,17), “Marana tha: Vieni, o Signore!” (1Cor 16,22).
La vivacità della speranza nel Suo ritorno è il termometro della nostra fede e la misura del nostro amore per Lui. Diamo a Gesù la gioia di vedersi atteso con amore, desiderato, sospirato, Lui viene infatti innanzi tutto “per coloro che lo attendono con amore” (2Tm 4,8). Quel giorno è principalmente il giorno della nostra festa e della nostra gioia! Non lasciamoci sviare dal linguaggio apocalittico che può essere da noi equivocato e indurci a sentimenti di terrore, di paura, di angoscia. No! Non può esserci paura e angoscia nel cuore di chi Lo ama!
Alcune volte mi sono sentito dire: “Sì, padre, lei ha ragione, ma come desiderare quel giorno quando nel cuore porto l’angoscia per il fatto che i miei cari non credono e vivono nel peccato? Che ne sarà di mio figlio che è miscredente?” Questi sono ragionamenti totalmente umani, apparentemente giusti che portano in sé però il limite di una piccola fede in quell’amore infinito che Lui ci porta e che quindi porta verso i nostri cari. E, come ci ricorda s. Pietro, “il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). A quell’amore misericordioso del Signore Gesù dunque noi affidiamo tutti i nostri cari e tutte le persone umane pregando e sospirando che Lui torni presto per inaugurare il Suo regno di giustizia, di pace e d’amore.
D’altra parte, mai dobbiamo dimenticarci che, se avvolta nel mistero è quella data del Suo ritorno e nessuno sa se ne sarà testimone, tutti sappiamo con certezza che la nostra vita è sempre incerta, potendo ogni ora, ogni istante essere l’ultimo di essa o di quella dei nostri cari. Per questo il desiderio di vedere presto il Signore nel suo ritorno glorioso e trionfante è la preparazione migliore alla nostra morte, giorno in cui Lui ci prenderà con sé per essere sempre con Lui (cfr. Gv 14,3).
Maria SSma che fra poco, nel prossimo tempo dell’Avvento, contempleremo Immacolata e in attesa del parto verginale, ci comunichi quell’ardente desiderio che pulsava nel suo Cuore, il desiderio di vedere il volto di Gesù, suo Figlio Divino e nostro Salvatore.
Amen.
j.m.j.
Solennità di N. S. Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno B Omelia
“Tu lo dici, Io sono Re!”
Carissimi fratelli e sorelle,
chiudiamo oggi l’anno liturgico con la Solennità di N. S. Gesù Cristo Re dell’Universo.
La liturgia di questo anno B ci propone la contemplazione di Gesù Re sotto la luce di due particolari riflettori.
La prima fonte di luce che illumina oggi questa festa di Cristo Re è la figura del “Figlio dell’Uomo”, immagine biblica inaugurata da Daniele. Questa figura di Daniele appartiene all’ambito, del Cielo, di Dio e da questi riceve il potere regale per instaurare il suo Regno che è Regno universale ed eterno che si contrappone come vincente sui vari regni umani che hanno oppresso Israele.
A quest’immagine si identificò Gesù in numerosi occasioni della sua vita anzi dai Vangeli sembra proprio che questo fosse il titolo preferito da Gesù che, spessissimo, parlando in terza persona parlava di sé come del “Figlio dell’Uomo”.
I quattro evangelisti riportano un totale di ben 78 volte in cui il Signore Gesù parla di sé come “Figlio dell’uomo”, di queste 78 volte ne ricordiamo due in particolare, due tra le più significative, la prima quando chiese a suoi apostoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’Uomo” (Mt 16,13), e l’altra quando durante il suo processo davanti a Caifa dirà: “D’ora in poi vedrete il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64).
Questa stessa immagine viene ripresa da Giovanni nella sua Apocalisse in cui la identifica nel Cristo Risorto e vivo, come abbiamo ascoltato nella prima lettura odierna:
“ Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto. Sì, Amen! Io sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!” (Ap 1,5-8)
La seconda fonte di luce che illumina la nostra festa odierna è l’episodio, riportato nel Vangelo di Giovanni che abbiamo appena proclamato, del dialogo tra Gesù e Ponzio Pilato. Dialogo nel quale Gesù si propone, senza mezzi termini come “Re”, ma Re di una dimensione non terrena, Re di un Regno che non è di questo mondo. Regno, cioè, che non ha le caratteristiche terrene di forza e potenza materiale, ma Regno spirituale, Regno dei cuori, Regno dei semplici, dei piccoli, degli umili, Regno dei figli di Dio.
Nel Vangelo di Giovanni solo nella Passione si parla di questo Regno e Gesù muore appunto perché “Re dei Giudei” come farà scrivere Pilato in tre lingue, romano, greco e ebraico, come motivazione della condanna a morte. E la croce viene vista in questo Vangelo come il trono glorioso di questo Re.
Negli altri Vangeli, invece, sono tanti, sin dall’inizio, i discorsi che Gesù fa intorno al Regno che Lui è venuto ad inaugurare. Marco e Luca parlano di questo Regno come del “Regno di Dio” (Mc 1,15; 4,11 ecc.; Lc 4,43; 6,20 ecc.). Matteo più attento alla delicatezza dell’uso ebraico di non pronunciare mai il nome santissimo di “Dio” – perché pronunciarlo sarebbe già come bestemmiarlo – ne parla come il “Regno dei cieli” (Mt 3,1; 4,17; ecc.) o come il “Regno del Padre” (Mt 13,43; 26,29).
Quando Gesù, il Maestro, parlava del “Regno del Padre” si capisce che evocava una realtà ben nota ai suoi uditori. Nell’insegnamento di Gesù, il Regno di Dio si presenta anzitutto come un intervento di Dio nel corso della storia.
Nella Storia della Salvezza noi vediamo come Dio voglia stabilire il suo Regno in mezzo agli uomini. “Regno” richiama “autorità” – “potere” – “dominio”, ora questo Regno di Dio non è però un Regno alla maniera umana, ma tutta sua: è “autorità” che non opprime ma che illumina, è “potere” che non schiavizza, ma libera; è un “dominio” che non schiaccia, ma innalza.
I PROFETI più antichi avevano visto questo Regno come il giudizio di Dio su Israele e i peccatori, i PROFETI più recenti vedevano questo Regno in un mondo ricreato che vive all’ombra della presenza di Dio. Gli autori APOCALITTICI descrivono lo stabilirsi del Regno secondo lo scenario di una catastrofe cosmica. Nei libri SAPIENZIALI il Regno di Dio è presentato come il frutto della sapienza divina che aveva messo la sua tenda in mezzo al popolo d’Israele. I SALMI del Regno hanno particolarmente sottolineato l’avvento futuro del Regno di Dio. È Dio stesso che stabilirà il suo Regno sulla terra. È Dio che regnerà, vestito di maestà; è Lui che giudicherà le nazioni e sarà gioia grande per chi Lo ama e terrore e angoscia per coloro che non vivono nel suo amore.
Ora, tutto questo, tutte queste idee sul Regno echeggiavano nel cuore degli ascoltatori di Gesù quando parlava del Regno del Padre suo.
Poiché Gesù è Dio, trovano dunque in Lui il compimento tutte le promesse divine: Dio che viene in persona per stabilire il suo Regno tra gli uomini. Il Nuovo Testamento annuncia il Regno come imminente in forza della morte e risurrezione del Cristo, o come già avvenuto nella sua persona, e pone l’accento sul suo carattere essenzialmente interiore, fondato sulla carità. Noi cristiani viviamo nell’attesa della manifestazione piena di questo Regno alla fine dei tempi.
Ora, Gesù ci ha parlato di questo Regno come:
* a un uomo che "uscì a seminare“ e sparse il suo seme dovunque ma crebbe solo sulla terra buona (Mc 4,1ss);
* a un uomo che “ha seminato del buon seme nel suo campo”, ma vede crescere in esso anche l’erba cattiva (Mt 13,24ss);
* “a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami” (Mt 13,31ss);
* “al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti" (Mt 13,33);
* “a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Mt 13,44);
* “a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra” (Mt 13,45);
* “a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci” (Mt 13,47ss);
* “un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,26ss)
* “a un re che volle fare i conti con i suoi servi” (Mt 18,23ss);
* “a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio”, ma gli invitati si scusano e non partecipano provocando l’ira del re che chiamerà così alla festa i poveri e gli ultimi (Mt 22,2ss);
* “a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna” (Mt 20,1);
* “a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo”, ma, “cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (Mt 25,1ss).
Gesù parla ancora del Regno come proprietà dei poveri e dei perseguitati: vostro è il Regno (Lc 6,20).
Ci dice ancora che difficilmente un ricco potrà entrarvi (Lc 18,25) e sarebbe meglio per noi tagliarci una mano un’arto e entrarvi monchi piuttosto che rimanervi fuori (Lc 9,43).
Ci ha detto ancora che per entrarvi è necessario una rinascita nell’acqua e nello spirito (Gv 3,5), e che questo Regno è dei piccoli e che se non diventeremo bambini non vi entreremo (Lc 18,17).
È un Regno che soffre violenza e solo coloro che si sforzano e si fanno violenza vi entreranno (Mt 11,12) e se cercheremo questo Regno con tutte le nostre forze, ogni cosa ci verrà data in più (Mt 6,33)
Gesù ci ha invitato a pregare il Padre perché questo Regno venga presto nella sua pienezza (Mt 6,10) e ci ha detto di non scoraggiarci perché questo Regno è già presente nel mondo (Lc 17,21) ed è un Regno aperto a tutti (Lc 13,28) e le sue porte si aprono immediatamente a chi con fiducia invoca il Suo Nome come Lo invocò il ladrone pentito che sulla croce disse: «Gesù ricordati di me quando sarai nel tuo Regno» (Lc 23,42).
Una domanda dobbiamo porci tutti al termine di quanto ascoltato: siamo uomini e donne del Regno? O meglio desideriamo appartenere veramente a questo Regno? Uomini nuovi e donne nuove che hanno nel cuore, nella mente, nell’anima il Signore Gesù, uomini nuovi e donne nuove che desiderano annunciare a tutti questo Regno, Regno di semplicità e di verità, di umiltà e di servizio, di purezza e gioia. Essere testimoni autentici, veri, credibili di questo Regno, ecco l’invito, ecco il desiderio, ecco la missione, ecco la vocazione che Gesù Re dona oggi a tutti noi: portare a tutti l’annuncio di gioia che il Regno di Dio è in mezzo a noi!
Maria SSma, che fu la prima a ricevere l’annuncio della realizzazione delle promesse del Padre e di questo Regno è il membro più eccelso perché da Lei è nato il “Re dei Re”, ci aiuti ad essere nel piccolo mondo della nostra quotidianità, un piccolo segno di speranza e di amore, un piccolo, ma autentico segno di questo Regno.
Amen. j.m.j.