S. Elisabetta della Trinità

 S. ELISABETTA DELLA TRINITÀ

 • Lett. 110   • Lett. 120   • Lett. 179   • Lett. 183   • Lett. 217   • Lett. 268

 • Elevazione alla SS. Trinità 

 • Ritiro Luglio 1906

 • Ultimo ritiro

MICHEL-MARIE PHILIPON
La dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità

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Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità

Lettera 110: Alla Signora Contessa De Sourdon del  25–7–1902

JM†JT

 

Carmelo di Digione, 25 luglio [1902] 

Carissima signora,

la sua buona lunga lettera mi ha procurato un gran dolore perché sento la profonda tristezza della sua anima. Ho pregato molto per lei nella comunione col Verbo della vita [1Gv 1,1], colui che è venuto a portare il conforto per tutti i dolori e che, nella vigilia della sua Passione, in quel discorso dopo la Cena in cui effonde tutta la sua anima, diceva, parlando ai suoi: «Padre voglio che abbiano in sé la pienezza della mia gioia» [Gv 17,13]

L’abbandono, ecco, cara signora, ciò che ci affida a Dio. Io sono molto giovane, ma mi sembra di avere qualche volta sofferto tanto. Allora, quando tutto s’ingarbugliava, quando il presente era così doloroso e l’avvenire mi appariva ancor più scuro, chiudevo gli occhi e mi abbandonavo come un bambino nelle braccia di quel Padre che è nei cieli.

Cara signora, consenta a questa piccola carmelitana che l’ama tanto di dirle qualche cosa da parte sua. Sono le parole che il Maestro indirizzava a S. Caterina da Siena: «Pensa a me, io penserò a te». Guardiamo troppo a noi stessi, vorremmo vedere e comprendere e non abbiamo abbastanza fiducia in Colui che ci avvolge nel suo amore. Non bisogna arrestarsi davanti alla croce e guardarla in se stessa, ma raccogliendosi nella luminosità della fede, bisogna salire più in alto e pensare che essa è lo strumento che obbedisce all’amore di Dio… Una cosa sola è necessaria; Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta [Lc 10,42]. Questa parte migliore che sembra essere il mio privilegio in questa tanta amata solitudine del Carmelo, è offerta da Dio ad ogni anima di battezzato. Egli gliel’offre, cara signora, in mezzo alle sue sollecitudini e preoccupazioni materne e creda che tutta la sua volontà è di condurla sempre più lontano in Lui. 

Si abbandoni a Lui con tutte le sue preoccupazioni e poiché mi considera un buon avvocato alla corte del Re, le chiedo di confidarmi tutto quanto le sta a cuore. Può immaginare se la causa sarà patrocinata caldamente!

Quando la cara mamma mi confidava le sue sollecitudini per la mia Guite, le dicevo di non pensarci, che ci avrei pensato io per lei, e lei vede che il buon Dio ha pensato per me. Vuole che rivolga  anche  a  lei la  stessa preghiera? ha risposto di sì, vero? Ieri ho visto la mia mamma felice che riconosceva ora quanto Dio è buono. Anche lei un giorno vedrà tutto rischiarato ed illuminarsi!

Il Signor Courtois è rientrato oggi e desidero vederlo per parlargli di lei. Voglia aver la bontà di ringraziare la signora d’Anthés della sua buona lettera così piena di fede. Avevo tanto pregato. Dio ha dei disegni che noi non comprendiamo sempre, ma dobbiamo adorare! Voglia pure dire a Miss tutta la mia unione. Sento la sua anima perduta nell’infinito di Dio, in faccia a quell’oceano che lo riflette così bene agli occhi dell’anima affamata di Lui!

Addio, cara signora, avvolgo nella mia preghiera Maria Luisa e Framboise e, se è d’accordo, le dò appuntamento in Colui che è tutto, chiedendogli di farle sentire le dolcezze della sua presenza e della sua divina intimità.                      

 Sr Elisabetta della Trinità

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Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità

Lettera 120: Alla signorina Maria Luisa Ambry

JM†JT

 

 Carmelo di Digione, 26 Ottobre 1902 

 

Carissima Maria Luisa,

sì, ho tanto pregato per lei e continuo a farlo ogni giorno. La preghiera è il vincolo delle anime, non le pare? Chiedo a Dio di consolarle Lui stesso il cuore della mia cara mamma Maria Luisa. Egli è il consolatore supremo e ci ama d’un amore che noi non potremo mai comprendere! Gesù ha pianto quand’era sulla terra, unisca le sue lacrime a quelle divine di Lui, adori con Lui la volontà del Padre che non ferisce se non perché ama. Si orienti con tutta l’anima verso l’eterna dimora della pace e della luce alla quale è volato il suo angioletto! Sapesse come le è vicino e come può vivere con lui in una dolcissima intimità! Sì, perché tutto questo mondo invisibile si avvicina a noi per la luce della fede e si stabilisce una vera comunione di vita tra quelli di lassù e quelli di quaggiù.

Penso che presto avrà una visita di Guite [sorella della Beata]. Me l’ha detto l’ultima volta che l’ho veduta ed era tanto contenta di venirla a trovare. Col cuore sarò anch’io in mezzo a voi. Quanti bei momenti abbiamo trascorso insieme, mai cara Maria Luisa! Io non tornerò più tra le sue belle montagne, ma c’è Uno nel quale la ritroverò sempre. Quando Lo prega, Gli parli della sua Elisabetta e si ricordi che sono anch’io lì, vicino a lei, non può immaginare che angolo di paradiso è il Carmelo! Nel silenzio e nella solitudine si vive qui sole con Dio solo. Tutto parla di Lui, tutto richiama e fa sentire la sua viva presenza! La preghiera è la nostra principale, dovrei dire la nostra unica occupazione perché, per una carmelitana, non dovrebbe cessare mai. Non la dimentico, le assicuro, durante quelle lunghe preghiere accanto a Lui.

Ora devo lasciarla per andare a Mattutino, ma la porto con me, nella mia anima, per cantare insieme con lei le lodi del buon Dio. È contenta? Le sto scrivendo dalla mia celletta che somiglia al paradiso. È il santuario intimo, tutto e solo per Lui e per me. Nessuno vi può penetrare all’infuori della nostra reverenda Madre. Com’è bella la vita tra queste mura, sotto lo sguardo del maestro, in un dolce cuore a cuore con Lui!

A Dio, vado a suonare la campana e ho solo il tempo di inviarle mille cose affettuose. Non mi dimentichi quando scrive a Labastide o al Mas. I miei ossequi al signor Giuseppe.

Unione sempre

Suor Elisabetta della Trinità

Sarei tanto felice se andasse a far visita al signor Canonico a nome mio e a dirgli di pregare per la sua carmelitana. Poiché vedrà prima di me la mia Guite, l’abbracci per me e le dica di fare lo stesso da parte mia alla mia cara maria Luisa.

 

Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità

Lettera 179: Alla Signorina Francesca De Sourdon del  25–7–1902

JM†JT

 

Carmelo, giovedì sera [1904] 

 

Sì mia cara, prego per te e ti tengo nella mia anima, accanto al buon Dio, in questo piccolo santuario tutto intimità, dove lo ritrovo ad ogni ora del giorno e della notte. Non sono mai sola: il mio Gesù è là, sempre orante in me, ed io mi unisco alla sua preghiera. Mi fai tanta pena, mia cara Francesca, perché vedo bene che sei infelice e unicamente per colpa tua, te l’assicuro. Stai tranquilla, non ti credo ancora fuori di cervello, ma solo indebolita di nervi e sovraeccitata, e quando sei così, fai soffrire anche gli altri. Ah, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il buon Dio l’ha insegnato a me! 

Tu dici che io non ho né preoccupazioni né sofferenze, ed è vero che sono quanto mai felice, ma se tu sapessi come si può essere del tutto felici pur in mezzo alle contrarietà! Bisogna sempre tenere lo sguardo rivolto al buon Dio. All’inizio, quando si sente tutto ribollire dentro, occorre fare degli sforzi, ma con la pratica della dolcezza, della pazienza e con l’aiuto del buon Dio, si viene a capo di tutto. Bisogna che tu ti costruisca come me una celletta dentro la tua anima. Penserai che il buon Dio è là e vi entrerai di tanto in tanto. Quando ti senti innervosita o ti assale la malinconia, corri subito nel tuo rifugio e confida tutto al Maestro. Se tu lo conoscessi, la preghiera non ti annoierebbe più. In realtà è un riposo, credimi, una distensione. È un andare con tutta semplicità da Colui che si ama, uno stare accanto a Lui come un bambino tra le braccia della mamma, un abbandono del cuor… Ti piaceva tanto un tempo sederti vicino a me e farmi le tue confidenze. È proprio così che bisogna andare a Lui. 

Se tu sapessi quanto è grande la sua comprensione, non soffriresti più. È il segreto della vita del Carmelo. La vita del Carmelo è una comunione con Dio dal mattino alla sera e dalla sera al mattino. Se non fosse Lui a riempire le nostre celle e i nostri chiostri, come tutto sarebbe vuoto! Ma noi lo scorgiamo in tutto perché lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato. Chiedo al buon Dio d’insegnarti tutti questi segreti e ti tengo sempre qui nella mia celletta, fai anche tu altrettanto per me nella tua e così non ci lasceremo mai.

Ti amo tanto, mia cara Francesca, e ti vorrei tutta buona e tutta nella pace dei figli del buon Dio

La tua Elisabetta della Trinità

La benedizione mi ha fatto tanto piacere, ringrazia M. Luisa da parte mia. Ho pregato tanto per il processo.

 

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Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità

Lettera 183: Al chierico Chevignard

JM†JT

 

 [Novembre 1904] 

Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare (Sal 15,8)

 

 

Reverendo,

le sono molto riconoscente dei suoi auguri per il mio onomastico e sono felicissima che la Chiesa abbia collocato i nostri Santi tanto vicini l’uno all’altro. Così mi è possibile offrirle oggi i miei voti migliori. S. Agostino dice che «l’amore, dimentico della propria dignità, ha sete d’elevare e ingrandire l’essere amato: la misura dell’amore è di amare senza misura» [la citazione non è di s. Agostino, ma di s. Bernardo da Chiaravalle, Liber de diligendo Deo, I, 1; 6, 16]. Domando a Dio di colmarla con questa misura senza misura, cioè secondo «le ricchezze della sua gloria» (Ef 3,16). Che il peso del suo amore la trascini fino a quella felice perdita di sé di cui parlava l’Apostolo quando esclamava: «Non vivo ormai più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). È questo il sogno della mia anima carmelitana, questo il sogno, credo, anche della sua anima sacerdotale. È soprattutto il sogno di Gesù, ed io gli chiedo di realizzarlo pienamente nella mia anima. Cerchiamo di essere per Lui in certo modo un’umanità supplementare in cui Egli possa realizzare tutto il suo mistero, ed io l’ho pregato di stabilirsi in me come Adoratore, come Riparatore, come Salvatore e non so dirle quanta pace mi dà il pensiero che Egli supplisce alle mie impotenze! Se io cado ad ogni istante che passa, Egli è pronto a rialzarmi e portarmi più avanti nella sua intimità, nell’abisso di quella essenza divina che abitiamo già per la grazia e nella quale vorrei seppellirmi a tali profondità, che nulla potesse più farmene uscire. È qui che la mia anima ritrova la sua e insieme con essa tace per adorare Colui che ci ha amati così divinamente.

Mi unisco alla sua commozione e alla gioia profonda della sua anima nell’aspettativa dell’Ordinazione e le chiedo di unirmi a lei in questa effusione di grazia. Dal canto mio recito ogni mattina l’ora di Terza per lei, affinché lo Spirito d’amore e di luce discenda «in lei per operarvi tutte le sue creazioni». Se le torna gradito, ci uniremo in una stessa preghiera, recitando l’Ufficio divino, durante quell’ora di Terza in cui sento una particolare devozione. Respireremo l’amore, l’attireremo sulle nostre anime e su tutta la Chiesa.

Mi ha pregato di chiedere per lei l’umiltà e lo spirito di sacrificio: la sera, facendo la mia «Via Crucis» prima di mattutino, ad ogni effusione del prezioso Sangue ero solita chiedere questa grazia per la mia anima; d’ora in poi la chiederò anche per la sua. Non le sembra che per arrivare all’annientamento, al disprezzo di se stessi e a quell’amore della sofferenza che erano al fondo dell’anima dei Santi, sia necessario sostare a lungo nella contemplazione della sua virtù attraverso un contatto continuo con Lui? Il Padre Vallée ci diceva un giorno che «il martirio è la risposta di ogni anima che ha una certa fierezza del Crocifisso». Mi sembra che si possa dire lo stesso dell’immolazione. Sforziamoci dunque di essere delle anime sacrificate! Vale a dire, delle anime sincere nel loro amore. «Egli mi ha amato e si è sacrificato per me»! (Gal 2,20).

A Dio, reverendo, viviamo d’amore, d’adorazione, d’oblio di noi stessi, in una pace tutta  gioia e confidenza, perché noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio! (1Cro 3,23).

Sr M. Elisabetta della Trinità r.c.i.

Il giorno 8 celebreremo nelle nostre anime una bella festa alla nostra Madre e Regina Immacolata, le do appuntamento sotto il suo manto verginale.

 

 

Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità
Lettera 217: Alla signora Angles – [Novembre 1905]

 

                                                                    JMJT

                                       Dio solo bastas

 

Carissima signora e sorella,

ho tanto gradito i suoi auguri e la ringrazio delle preghiere che ha fatto per la sua piccola amica del Carmelo. Da parte sua, le assicuro che essa le serba il ricordo più fedele in colui che è il vincolo indissolubile. Se sapesse quanto la mia anima è attaccata alla sua, oserei perfino dire quanta ambizione ho per lei! La vorrei totalmente data a Dio, pienamente unita a lui che l’ama di un amore così grande. Sì, cara signora, credo che il segreto della pace e della felicità sia quello di dimenticarsi, di disinteressarsi di se stessi. Questo non significa non sentire più le proprie miserie fisiche e morali. I santi stessi sono passati attraverso situazioni così crocifiggenti, ma non ne erano schiavi e sapevano liberarsene ad ogni istante. Ogni qualvolta ne avvertivano il peso, non se ne stupivano, ben sapendo di quale impasto fossero fatti, come canta il salmista [Sal 102,14] che però non manca di aggiungere: «Col soccorso di Dio sarò senza macchia e mi salverò dal fondo dell’iniquità che è in me» [Sal 17,24]. 

Cara signora, poiché mi permette di parlarle come ad una sorella amata, mi sembra che il buon Dio le chieda un abbandono ed una confidenza senza limiti. Nelle ore di maggior sofferenza in cui sente dei vuoti spaventosi, pensi che allora egli scava nella sua anima delle capacità più grandi di riceverlo, vale a dire, in certo qual modo infinite come lui. Si sforzi dunque di essere, per la volontà, tutta piena di gioia sotto la mano che la crocifigge, vorrei perfino dire, guardi ad ogni sofferenza e ad ogni prova come ad una prova d’amore che le viene direttamente da parte del buon Dio per unirla a lui. Dimenticarsi per quel che riguarda la sua salute, non significa trascurare di curarsi, perché questo è il suo dovere e la sua migliore penitenza, ma lo faccia con grande abbandono dicendo a Dio «grazie» qualunque cosa accada. Quando più si fa sentire il peso del corpo e affatica la sua anima, non si scoraggi, ma vada con fede ed amore da colui che ha detto: «Venite a me ed io vi consolerò» [Mt 11,28].

Per quanto riguarda il morale, non si lasci mai abbattere dal pensiero delle sue miserie. Il grande S. Paolo dice: «Dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia» [Rm 5,20]. Mi sembra che l’anima più debole, perfino più colpevole, sia quella che ha più margine di speranza e l’atto che essa compie per dimenticarsi e gettarsi nelle braccia di Dio, lo glorifichi e lo riempia di gioia più che tutti i ripiegamenti su se stessa ed ogni altro tentativo di scrutare le proprie infermità. Essa infatti possiede e porta in se stessa un Salvatore che la vuole purificare ad ogni momento. Ricordi la bella pagina del Vangelo dove Gesù dice al Padre «che gli ha dato potere sopra ogni carne al fine di comunicare la vita eterna» [Gv 17,2]. Ecco quello che vuole compiere in lei. Vuole in ogni momento che esca da se stessa e abbandoni ogni preoccupazione per ritirarsi in quella solitudine che egli si è scelta nel fondo del suo cuore. È sempre là, anche se lei non lo sente. L’aspetta e vuole stabilire con lei «un mirabile commercio», come cantiamo nella bella liturgia [Liturgia dell’Ottava di Natale], un’intimità di Sposo e sposa. Le sue infermità, le sue mancanze, tutto ciò che la turba, è lui stesso, mediante questo contatto continuo, che vuole eliminarle dalla sua anima. Non ha forse detto: «Non sono venuto per giudicare, ma per salvare?» [Gv 12,47]. Nulla deve sembrarle un ostacolo per andare a lui. Non dia troppo importanza al fatto di essere infiammata o scoraggiata. Passare da uno stato all’altro, è la legge dell’esilio. Quello che conta è che lui non cambia mai, che nella sua bontà è sempre piegato su di lei per unirla stabilmente a sé. Nonostante tutto il vuoto e la tristezza opprimenti, unisca la sua agonia a quella del Maestro nell’orto degli ulivi quando diceva al Padre. «Se è possibile, passi da me questo calice» [Mt 26,39]. 

Cara signora, forse le sembrerà difficile dimenticarsi. Invece è tanto semplice da non meritare alcuna preoccupazione. Le dirò il mio «segreto». Basta pensare a Dio che abita in noi come nel suo tempio. È San Paolo che lo dice [2Cor 6,16] e possiamo crederlo. A poco a poco l’anima si abitua a vivere nella dolce compagnia dell’ospite divino, comprende di essere un piccolo cielo in cui il Dio d’amore ha stabilito la sua dimora. Allora essa respira in un’atmosfera divina, direi perfino che non c’è più che il suo corpo sulla terra, e l’anima vive al di là di ogni nube e di ogni velo, in colui che non muta mai. Non dica che questo è troppo per lei, che è troppo miserabile. Questa, se mai, è una ragione di più per accostarsi a colui che è il Salvatore. Non è guardando alla nostra miseria che saremo purificati, ma guardando a colui che è tutto purezza e santità. S. Paolo dice che Dio ci ha scelto per essere conformi alla sua immagine [Rm 8,29]. Nei momenti più dolorosi, si ricordi che il Divino Artista, per rendere più bella l’opera sua, si serve dello scalpello, e rimanga in pace sotto la mano che lavora. Quel grande Apostolo che è S. Paolo, dopo essere stato rapito al terzo cielo, sentiva la propria infermità, e se ne lamentava con Dio che gli rispondeva: «Ti basti la mia grazia, perché la forza si perfeziona con la debolezza» [2or 12,9]. Non le sembra che tutto questo sia tanto consolante?…

Coraggio dunque, cara signora e sorella, l’affido in modo particolare ad una certa piccola carmelitana morta a 24 anni in odore di santità, che si chiamava Teresa del Bambino Gesù. Essa diceva prima di morire, che avrebbe passato il suo cielo a fare del bene sulla terra. La sua grazia è quella di dilatare le anime, di lanciarle sulle onde dell’amore, della confidenza, dell’abbandono. Diceva di aver trovato la felicità dopo aver incominciato a dimenticarsi. La invochi con me ogni giorno perché le ottenga quella scienza che fa i santi e che dà all’anima tanta pace e felicità!

A Dio, cara signora, questa settimana, essendo l’ultima prima della solitudine dell’Avvento, vedrò la mamma, Margherita e le bambine e non mancherò di salutarle tanto da parte sua. Le nipotine son proprio graziose e formano la gioia della loro cara nonna. Anche i piccoli di M. Luisa devono essere la sua gioia. Dica per favore alla buona M. Luisa che prego per lei e non dimentico i bei momenti di Labastide. I miei ossequi alla signora Maurel. Per lei, cara signora, creda al mio profondo affetto e alla mia unione in colui di cui S. Giovanni dice che è l’amore [1Gv 4,16].

La sua sorellina e amica

M. Elisabetta della Trinità r.c.i.

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Dalle Lettere di S. Elisabetta della Trinità

Lettera 268: Alla signorina Francesca de Sourdon

JM†JT

 

 [Ottobre 1906] 

 

Ecco finalmente Elisabetta che viene a mettersi con la sua matita accanto alla sua cara Francesca. Dico con la matita perché con il col cuore siamo vicine ormai da tanto tempo, nevvero?, e rimaniamo tutt’e due fuse insieme. Quanto amo i nostri appuntamenti della sera. È come il preludio di quella comunione che si stabilirà fra le nostre anime dal cielo alla terra. Mi sembra di essere china su di te come una mamma sul figlio della sua predilezione. Alzo gli occhi a guardare Dio e poi li riabbasso su di te come per esporti ai raggi del suo amore. Mia cara Francesca, non gli dico delle parole per te. Io sento ch’Egli mi comprende tanto più così, nel mio silenzio. Mia cara bambina, vorrei essere santa per poterti aiutare fin d’ora, in attesa di farlo lassù. Che cosa non soffrirei per ottenerti quelle grazie di forza di cui hai bisogno.

Ora vorrei rispondere alle tue domande. Cominciamo subito dall’umiltà. Su questo argomento ho letto, sul libro di cui ti ho parlato, delle pagine magnifiche. Il pio autore dice che nulla può turbare l’umile, che egli possiede la pace invincibile, perché s’è precipitato in un tale abisso che nessuno andrà a ricercarlo fin là. Dice anche che l’umile trova il gusto più grande della sua vita nel sentimento della sua impotenza di fronte a Dio. Mia cara piccola Francesca, l’orgoglio non è una cosa che si distrugge con un bel colpo di spada. Senza dubbio certi atti di umiltà eroica, come se ne vedono nella vita dei santi, gli danno un colpo se non mortale, almeno da affievolirlo considerevolmente, ma, fuori di questi casi, è ogni giorno che bisogna farlo morire. «Quotidie morior» – gridava S. Paolo [1Cor 15,31]. Muoio ogni giorno»! questa dottrina di morire a se stessi, mia cara Francesca, che del resto è la legge di ogni anima cristiana dacché il cristo ha detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a Me, prenda la sua croce e rinneghi se stesso» [Lc 9,23], questa dottrina dunque che pare così austera, è invece d’una soavità deliziosa quando si guarda al termine di quella morte, che è la vita di Dio messa al posto della nostra vita di peccato e di miseria. È ciò che S. Paolo voleva dire quando scriveva: «Spogliatevi dell’uomo vecchio e rivestitevi dell’uomo nuovo secondo l’immagine di Colui che l’ha creato» [Col 3,10]. Quest’immagine è Dio stesso. Ti ricordi della sua volontà così formalmente espressa il giorno della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza?» [Gen 1,26]. Vedi se pensassimo di più alle origini della nostra anima, le cose di quaggiù ci apparirebbero così puerili, che non avremmo altro che disprezzo per esse. S. Pietro scrive, in una delle sue Epistole, che «siamo stati fatti partecipi della natura divina» [2Pt 1,4] e S. Paolo raccomanda di conservare fino alla fine questo cominciamento del suo essere che Egli ci ha dato [cf Eb 3,14]]. Mi sembra che ‘anima che ha coscienza della sua grandezza, entri in quella santa libertà dei figli di Dio di cui parla l’Apostolo [Rm 8, 21], ciò che essa si trasferisca al di là di tutte le cose e di sé stessa. Mi sembra che l’anima più libera sia quella più dimentica di sé. Se mi si chiedesse il segreto della felicità, direi che sta nel non tenere più conto di sé, nel negarsi ogni momento. Ecco un buon modo di morire all’orgoglio. È come un prenderlo per fame. vedi, l’orgoglio si pasce dell’amore di sé. Ebbene, bisogna che l’amore di Dio sia così forte, da spegnere ogni amore di noi stessi. S. Agostino dice che ci sono in noi due città, la città di Dio e la città dell’io [cf La città di Dio, XIV, 28]. Nella misura che la prima cresce, la seconda sarà distrutta. Un’anima che vivesse nella fede, sotto lo sguardo di Dio, che avesse quell’«occhio semplice» [cf Mt 6,22] di cui parla il Cristo nel Vangelo, cioè quella purezza d’intenzione che non mira che a Dio, quell’anima, mi sembra, vivrebbe nell’utilità e saprebbe riconoscere i doni che egli le ha elargito perché l’umiltà è verità [cf S. Teresa d’Avila, Castello interiore, Quarte Mansioni, I, 6]. Non s’approprierebbe di nulla, ma tutto riferirebbe a Dio, come faceva la S. Vergine.

Cara Francesca, tutti i movimenti di orgoglio che senti in te, non divengono colpe se non quando la volontà se ne rende complice. Se manca questo consenso, puoi soffrire molto, ma non c’è offesa al buon Dio. Queste mancanze che ti sfuggono, come mi dici, senza quasi accorgertene, denotano senza dubbio un fondo d’amor proprio, ma tutto ciò, mia povera cara, fa parte in qualche modo di noi stessi. Quello che Dio ti domanda è di non fermarti mai volontariamente in un pensiero d’orgoglio qualsiasi. Questo è male. Che se poi ti accadesse qualche cosa di questo genere, non ti scoraggiare, perché è ancora l’orgoglio che ti indispettisce, ma devi mostrare la tua miseria come la Maddalena  ai piedi del Maestro [cf Lc 10,39, alcuni Padri della Chiesa avevano identificato Maria di Lazzaro con la Maddalena] e chiedergli che te ne liberi. È una gioia così grande per il buon Dio vedere un’anima riconoscere la propria incapacità. Allora, come diceva una grande Santa, l’abisso dell’immensità di Dio si trova di fronte all’abisso del nulla della creatura e Dio abbraccia questo nulla [cf Beata Angela da Foligno, Esortazioni in Il libro della B. Angela da Foligno].

Bambina mia cara, non è orgoglio pensare che tu non vuoi una vita facile. Credo davvero che Dio voglia che la tua vita scorra in una sfera in cui si respira aria divina. Credimi, ho una compassione profonda per le anime che non vivono che su della terra e delle sue banalità. Penso che sono delle schive e vorrei dir loro: «Scuotete questo giogo che pesa su di voi, che ne fate di questi ceppi che vi incatenano a voi stesse e a cose inferiori a voi?». Mi sembra che felici in questo mondo siano coloro che hanno abbastanza disprezzo e dimenticanza di sé per scegliere la croce come loro eredità. Quando si sa porre la propria gioia nella sofferenza, che pace deliziosa! «Compio nella mia carne quello che manca alla passione di Gesù Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» [Col 1,24], ecco che cosa costituiva la felicità dell’Apostolo! Questo pensiero mi perseguita e ti confesso che provo una gioia intima e profonda a pensare che Dio mi ha scelto per associarmi alla passione del suo Cristo, e questo cammino doloroso, che devo battere ogni giorno, mi sembra piuttosto la strada della felicità. Non ha mai vedute qualcuna di quelle immagini che rappresentano la morte nell’atto di tagliare la messe con la sua falce? Ebbene, questa è la mia condizione, così mi sento afferrare da lei. Per la natura è talvolta penoso e t’assicuro che se mi fermassi qui, non sentirei che la mai viltà e la mia sofferenza. Ma questo non  che lo sguardo umano e ben presto apro l’occhio della mia anima alla luce della fede e la  fede mi dice che è l’amore che mi distrugge, che mi consuma lentamente, e la mia gioia è immensa e mi abbandono a Lui come una preda.

Cara Francesca, per arrivare alla vita ideale dell’anima credo che bisogna vivere del soprannaturale, cioè non agire mai «naturalmente». Bisogna prendere coscienza che Dio si trova nel pi intimo di noi ed affrontare tutto con Lui. Allora non si è mai banali, neppure facendo le azioni più ordinarie perché non si vive in queste cose, ma si va al di là di esse. Un’anima soprannaturale non tratta mai con le cause seconde, ma solo con Dio. Com’è semplificata così la sua vita, come si avvicina alla vita degli spiriti beati, com’è resa libera da se stessa e da ogni cosa! Tutto per lei si riduce all’unità, quest’«unico necessario» [Lc 10,42] di cui il Maestro parlava alla Maddalena. Allora è veramente grande, veramente libera, perché essa ha incluso la sua volontà in quella di Dio.

Mia cara Francesca, quando si contempla la nostra eterna predestinazione, le cose visibili appaiono spregevoli. Ascolta S. Paolo: «Quelli che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» [Rm 8,29]. E non è tutto; vedrai, piccola mia, che tu sei del numero dei «conosciuti». «E quelli che ha conosciuto, li ha chiamati» – è il Battesimo che ti ha fatto figlia d’adozione e ti ha segnato del sigillo della Trinità Santa. – «E quelli che ha chiamato, li ha prue giustificati» – e quante volte tu lo sei stata attraverso il sacramento della Penitenza e tutti quei tocchi di Dio nella tua anima dei quali neppure hai avuto coscienza. – «E quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati» [Rm 8,30]. È ciò che ti attende nell’eternità, ma ricordati che il nostro grado di gloria sarà il grado di grazia nel quale Dio ci troverà al momento della morte. Permetti a Lui di compiere in te l’opera della sua predestinazione e per questo ascolta ancora S. Paolo che ti dà un programma di vita. «Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, edificati sopra di Lui, consolidati nella fede e crescendo in Lui nell’azione di grazie» [Col 2,6-7]. Sì, fogliolina della mia anima, cammina in Gesù Cristo, ti occorre questa via larga, non sei fatta per i sentieri di quaggiù. Sii radicata in Lui, e per questo sradicati da te stessa, facendo tutto come chi è pronto a rinnegarsi ogni volta che si trova a tu per tu con se  stesso. Sii edificata sopra di Lui, ben al di sopra di tutto ciò che passa. Così in alto tutto è puro, tutto è luminoso. Sii consolidata nella fede, cioè non agire che sotto la gran luce di Dio, mai secondo le impressioni o la fantasia. Credi al suo amore, alla sua volontà di aiutarti Lui stesso nelle lotte che devi sostenere, affidati al suo amore, a quel suo «eccessivo» amore, come lo chiama S. Paolo [Ef 2,4]. Nutri la tua anima dei grandi pensieri della fede che e rivelano tutta la sua ricchezza e il fine per il quale Dio l’ha creata. Se vivi in queste cose l tua pietà non sarà un’esaltazione nervosa come tu temi, ma sarà vera. È così bella la verità, la verità dell’amore! «Mi ha amato e si è immolato per me» [Gal 2,20], ecco, bambina mia, che cosa vuol dire essere nella verità.

E poi, infine, cresci nel rendimento di grazie. È l’ultima parola del programma, nell’altro che la sua conseguenza. Se tu cammini radicata in Gesù Cristo, consolidata nella tua fede, vedrai nel rendimento di grazie la dilezione dei figli di Dio. Io mi domando come possa non essere sempre gioiosa in ogni sofferenza e dolore l’anima che ha sondato l’amore per lei che è nel Cuore di Dio. Ricordati che Egli ti ha scelta in Cristo prima della creazione per essere pura e immacolata al suo cospetto nell’amore [Ef 1.4]. è ancora S. Paolo che parla così, per conseguenza non temere la lott, la tentazione. «Quando sono debole – gridava l’Apostolo – è proprio allora che divento forte perché abita in me la potenza di Dio» [2Cor 12,9-10].

Mi domando che cosa penserà la nostra reverenda Madre se vede questo giornale. Non mi permetterà più di scrivere, perché sono d’una debolezza estrema e mi sento venir meno ad ogni istante. Questa lettera sarà forse l’ultima della tua Elisabetta che ha impiegato tanti giorni a scriverla, e questo spiega la sua incoerenza. Eppure stasera non posso decidermi a lasciarti. Sono qui sola, alle sette e mezzo della sera; la comunità è a ricreazione ed io ho l’illusione di trovarmi già in paradiso dentro la mia celletta, sola con Lui solo, portando la mia croce col Maestro. Cara francese, la mia felicità cresce in proporzione della mia sofferenza. Se tu sapessi che sapore ha per l’anima il fondo del calice preparato dal Padre dei cieli!

A Dio, mia diletta, non posso più continuare. Nel silenzio dei miei appuntamenti tu indovinerai, comprenderai quello che ti ico. Ti abbraccio, ti amo come fa una mamma con la sua fogliolina. A Dio, piccola mia; che all’ombra delle sue ali [Sal 16,8] Egli ti protegga da ogni male!

Suor M. Elisabetta della Trinità

Laudem gloriæ

(questo qui sarà il nuovo nome nel cielo).

 

Un ricordo pieno di rispetto e tutto filiale alla tua cara mamma e il più tenero affetto a M. Luisa

 

Elevazione alla SSma Trinità

Beata Elisabetta della Trinità
18/07/1880   † 09/11/1906

 

Mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità; che nulla possa turbare la mia pace o farmi uscire da Te, mio Immutabile, ma che ogni istante mi immerga sempre più nella profondità del tuo mistero! Pacifica la mia anima, rendila tuo cielo, la tua prediletta dimora e il luogo del tuo riposo. Che qui io non ti lasci mai solo, ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nella adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.

 

O amato mio Gesù, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa del tuo Cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne!… Ma sento la mia impotenza e ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, d’invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua Vita. 

Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. 

O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e restare sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

 

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi sopra di me, perché si faccia nell’anima quasi un’incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento d’umanità in cui egli possa rinnovare tutto il Suo mistero.

 

E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra e non guardare in essa che il Figlio amato nel quale hai posto le tue compiacenze.

 

O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, mi consegno a Voi come ad una preda. Seppellitevi in me perchè io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l’abisso delle vostre grandezze.

Amen.

 

S. Elisabetta della Trinità r.c.i.
Laudem Gloriæ

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B. Elisabetta della Trinità

Ritiro: Come si può trovare il cielo sulla terra (luglio 1906)

Il breve scritto è strutturato come un ritiro di 10 giorni, con 2 orazioni (meditazioni) al giorno. Elisabetta lo scrisse per la sorella Margherita.
Ti consigliamo di seguire passo passo il testo non leggendolo d'un fiato ma rispettando la scansione in esso prevista. Il pensiero s'incentra sull'unione di Dio Trinità con l'anima, che tende a diventare sempre più intima e totale.

Primo Giorno

Prima orazione

«Padre, voglio che dove sono Io, siano con Me anche quelli che Tu mi hai dato, affinché contemplino la gloria che Tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24). Tale è l’ultima volontà di Gesù, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre suo. Egli vuole che là dov’è Lui, siamo anche noi, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e sempre in progresso. Importa perciò sapere dove dobbiamo vivere con Lui per realizzare il suo sogno divino. «Il luogo dov’è nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, l’essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana. È ciò che faceva dire ad Isaia: “Voi siete veramente un Dio nascosto» (Is 45,15)” (S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 1, 3). E tuttavia la sua volontà è che noi siamo fissi in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore, che siamo per così dire come l’ombra di Lui stesso. Per il battesimo – dice S. Paolo – «noi siamo stati innestati in Cristo» (Rm 6,5). E ancora: «Dio ci ha fatto assidere nei cieli in Cristo per mostrare ai secoli futuri le ricchezze della sua grazia» (Ef 2,6-7). E più avanti: «Non siete più degli ospiti o degli stranieri, ma siete della città dei santi e della casa di Dio» (Ef  2,19).

La Trinità, ecco la nostra dimora, la nostra casa, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire più. Il Signore l’ha detto un giorno: «Lo schiavo non dimora sempre nella casa, ma il figlio vi dimora sempre» (Gv 8,35).

Seconda orazione

«Dimorate in Me» (Gv 15,4). È il Verbo di Dio che dà quest’ordine, che esprime questa volontà. Dimorate in Me non per qualche istante, qualche ora che deve passare, ma «dimorate» in modo permanente, abituale. Dimorate in Me per essere presenti ad ogni persona e ad ogni cosa. Penetrate sempre di più in questa profondità. Questa è veramente la solitudine dove Dio vuole attirare l’anima per parlarle, come cantava il profeta (Os 2,14).

Ma per intendere questa parola piena di mistero, non bisogna fermarsi, per così dire, alla superficie, bisogna entrare sempre più nell’Essere divino mediante il raccoglimento. «Continuo la mia corsa», esclamava S. Paolo (Fil 3,14). Così noi dobbiamo discendere ogni giorno questo sentiero dell’abisso che è Dio. Abbandoniamoci giù per questa china con una fiducia piena d’amore. «Abisso chiama abisso» (Sal 41,8). È laggiù, in quelle profondità, che avverrà l’urto divino, che l’abisso del nostro nulla, della nostra miseria, urterà contro l’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio. È laggiù che troveremo la forza di morire a noi stessi e che, perdendo le nostre tracce, saremo cambiati in amore. «Benedetti coloro che muoiono nel Signore» (Ap 14,13).

Secondo Giorno

Prima orazione

«Il Regno dei cieli è dentro di voi» (Lc 17,21). Poco fa Gesù ci invitava a dimorare in Lui, nella sua eredità di gloria, ed ora ci rivela che non dobbiamo uscire da noi stessi per trovarlo. «Il regno dei cieli è al di dentro!…». S. Giovanni della Croce dice che «è nella sostanza dell’anima dove non possono arrivare né il demonio né il mondo, che Dio si dà a lei. Allora tutti i suoi movimenti diventano divini e, sebbene siano di Dio, son pure egualmente suoi perché N. Signore li produce in lei e con lei» (S. Giovanni della Croce, Fiamma “B”, str. 1, 9). Il medesimo Santo dice che Dio è il centro dell’anima (Fiamma “B”, str. 1, 10-14). Quando l’anima conoscerà Dio perfettamente, nella misura di tutte le sue energie, l’amerà e ne godrà interamente, allora sarà arrivata al centro più profondo che possa attingere in Lui. Prima di essere arrivata fin là, l’anima è già in Dio, che è il suo centro «più profondo», potendo andare più oltre.

Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, più intenso è l’amore, più essa entra profondamente in Dio e si concentra in Lui. Quando possiede un solo grado di amore, è già nel suo centro, ma quando quest’amore avrà raggiunto la sua perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro «più profondo».

È là che sarà trasformata a tal punto da divenire somigliatissima a Dio (Fiamma “B”, str. 1, 12-13). A quest’anima che vive «al di dentro» possono essere rivolte le parole del P. Lacordaire a S. Maddalena: «Non chiedete più del maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, perché Lui è la vostra anima e la vostra anima è Lui».

Seconda orazione

«Affrettati a discendere perché bisogna che oggi mi fermi nella tua casa» (Lc 19,5). «Il Maestro ridice incessantemente alla nostra anima queste parole che rivolgeva un giorno a Zaccheo. «Affrettati a discendere». Che cosa è mai questa discesa che esige da noi, se non il penetrare più a fondo nel nostro abisso interiore?» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo specchio dell’eterna salvezza, XII). Quest’atto «non è una separazione esterna dalla cose esteriori, ma una solitudine dello spirito» (cf Ibid), un liberarsi da tutto ciò che non è Dio. Finché la nostra anima ha dei capricci estranei all’unione divina, delle fantasie di sì e no, restiamo allo stato d’infanzia, non camminiamo a passi da giganti nell’amore, perché il fuoco non ha ancora bruciato tutta la scoria, l’oro non è puro, siamo ancora cercatori di noi stessi, Dio non ha consumato tutta la nostra ostilità a Lui. Ma quando il ribollimento della caldaia ha consumato ogni amore vizioso, ogni dolore vizioso, ogni viziosa paura, allora l’amore è perfetto e l’anello d’oro della nostra alleanza è più largo del cielo e della terra. Ecco la cella segreta dove l’amore colloca i suoi eletti. «Quell’amore ci conduce attraverso tutti i membri e i sentieri che lui solo conosce. Ci conduce senza ritorno e non faremo più la via percorsa (cf Mt 2,12)» (Beato Giovanni Ruysbroeck a cura di Ernest Hello, 157-159).

Terzo Giorno

Prima orazione

«Se qualcuno mi ama osserverà la mia parola e mio Padre l’amerà e verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora» (Gv 14,23). Ecco il Maestro che ci manifesta ancora il suo desiderio di abitare in noi. «Se uno mi ama!». L’amore, ecco ciò che attira, che trascina Dio alla sua creatura. Non un amore di sensibilità, ma quell’amore «forte come la morte e che le grandi acque non possono estinguere» (Ct 8,6-7). «Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace» (Gv 14,31). Così parlava il Maestro santo ed ogni anima che vuol vivere a contatto con Lui, deve vivere anch’essa questa massima, il beneplacito divino dev’essere il suo nutrimento, il suo pane quotidiano, deve lasciarsi immolare da tutte le volontà di Dio ad immagine del suo Cristo adorato. Ogni circostanza, ogni avvenimento, ogni sofferenza come ogni gioia, è un sacramento che le dà Dio. Così essa non fa più differenza tra le cose, le scavalca. Le oltrepassa per riposarsi, al di sopra di tutto, nel suo Maestro stesso. Lo innalza ben alto sulla montagna del suo cuore. Sì, più in alto dei suoi doni, delle sue consolazioni, più in alto delle dolcezze che piovono da Lui. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai se stesso, di non riservarsi nulla, ma di dare tutto a colui che si ama. Beata l’anima che ama nella verità. Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore!

Seconda orazione

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Ecco S. Paolo che viene a  darci una luce per rischiarare il sentiero dell’abisso. Siete morti! Che altro significa questo, se non che l’anima che aspira a vivere a contatto con Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, dev’essere separata, spogliata, allontanata da tutte le cose (quanto allo spirito)? Quest’anima trova in se stessa una semplice inclinazione d’amore che va verso Dio. Sebbene passino le creature, è invincibile rispetto alle cose che passano, perché resta al di sopra di esse, vivendo per Iddio. «Quotidie morior». (1Cor 15,31). Muoio ogni giorno. Diminuisco, rinunzio ogni giorno di più a me stessa perché Gesù cresca e sia esaltato in me. Rimango piccola piccola in fondo alla mia povertà. Vedo il mio nulla, la mia miseria, la mia impotenza. Mi riconosco incapace di progresso, di perseveranza. Scorgo la moltitudine delle mie negligenze, dei miei difetti, mi guardo nello specchio della mia indigenza. Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro. «Quotidie morior». Ripongo la gioia della mia anima (quanto alla volontà, non quanto alla sensibilità) in tutto ciò che può immolarmi, distruggermi, abbassarmi, perché voglio far posto al mio Maestro. «Non sono più io che vivo, ma è Lui che vive in me» (Gal 2,20). Non voglio più vivere della mia propria vita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la mia vita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi su di me, possa riconoscere l’immagine del «Figlio diletto nel quale ha posto tutte le sue compiacenze» (Mt 3,17).

Quarto Giorno

Prima orazione

«Deus ignis consumens». Il nostro Dio – scriveva S. Paolo – è un fuoco divoratore (Eb 12,29; Dt 4,24), cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso tutto ciò che tocca «le delizie di quest’incendio divino si rinnovano nel nostro intimo attraverso un’attività che non si ferma mai, è l’incendio dell’amore in mutuo eterno abbandono. È un rinnovamento che si compie ad ogni istante nel nodo dell’amore» (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 5). Certe anime hanno scelto quest’asilo per riposarvisi eternamente. Ecco il silenzio nel quale si sono in qualche modo perdute, liberate della loro prigione. «Navigano nell’oceano della Divinità senza che alcuna creatura sia loro d’ostacolo o di tormento» (… Hello, 74). Per queste anime la morte mistica, di cui ci parlava S. Paolo ieri, diviene così semplice, così soave! Pensano molto meno al lavoro di distruzione e di spogliamento che resta ancora da compiere, che a gettarsi nel focolare dell’amore che arde in loro, cioè lo Spirito Santo, quello stesso amore che nella Trinità costituisce il legame tra il Padre e il suo Verbo.

Entrano in Lui attraverso la fede viva e là, semplici e quiete, si lasciano da Lui trasportare al di sopra delle cose, dei gusti sensibili, nella «tenebra santa» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 2). Trasformate nell’immagine divina, vivono – secondo l’espressione di S. Giovanni – «in società» (1Gv 1,3) con le «Tre» adorabili Persone, in comunione di vita. Questa è la vita contemplativa. Contemplazione che conduce al possesso. «Questo possesso semplice è la vita eterna gustata nell’abisso senza fondo. È là che ci aspetta al di sopra della ragione, la tranquillità profonda dell’immutabilità divina» (cf Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 2; Lo specchio dell’eterna salvezza, XXIII).

Seconda orazione

«Sono venuto ad accendere il fuoco sulla terra e che altro desidero se non di vederlo divampare?» (Lc 12,49). È lo stesso divino Maestro che ci manifesta il suo desiderio di veder ardere il fuoco d’amore. In realtà tutte le nostre opere, tutti i nostri lavori non sono nulla davanti a Lui. Noi non possiamo dargli nulla né soddisfare il suo unico desiderio che è quello di riscattare la dignità della nostra anima. Nulla gli è tanto gradito quanto il vederla crescere e divenire grande. Ora nulla può elevarla tanto quanto il divenire in qualche modo uguale a Dio. Ecco perché esige da lei il tributo del suo amore. Infatti la proprietà dell’amore è quella di rendere uguale, per quanto è possibile, colui che ama a colui che è amato. L’anima in possesso di quest’amore appare su un piano di uguaglianza con Gesù dal momento che la reciproca affezione rende tutto comune tra di loro.

«Vi ho chiamati amici» perché ho manifestato a voi tutto quello che ho udito dal Padre mio (Gv 15,15). Ma per arrivare a questo amore, l’anima dev’essersi prima completamente liberata. La sua volontà dev’essere dolcemente perduta in quella di Dio in modo che le sue inclinazioni, le sue facoltà non si muovano più che in quest’amore e per quest’amore. Faccio tutto per amore, soffro tutto con amore. Tale è il senso di ciò che cantava David: «A te serberò tutta la mai forza» (Sal 58,10). Allora l’amore la riempie talmente e l’assorbe e la protegge così bene che essa trova dovunque il segreto di crescere nell’amore. Perfino attraverso le relazioni che con il mondo, in mezzo alle sollecitudini della vita, ha il diritto di dire: «unica mia occupazione è l’amore» (S. Giovanni della Croce, Cantico”B”, str. 28, 8-9).

Quinto Giorno

Prima orazione

«Ecco, io sono alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, entrerò da lui e mangerò presso di lui, e lui con Me» (Ap 3,20). Beate le orecchie dell’anima abbastanza sveglie, abbastanza raccolte per udire questa voce del Verbo di Dio. Beati altresì gli occhi di quell’anima che alla luce della fede viva e profonda possono assistere all’arrivo del Maestro nel suo intimo santuario. Ma che cos’è dunque quest’arrivo? «È una generazione, una nuova illuminazione, che non s’interrompe mai. Il suolo dal quale zampilla lo splendore e che è lo stesso splendore, è pieno di vita e di fecondità. Perciò la rivelazione della luce eterna si rinnova incessantemente nelle intime profondità dello spirito. Ecco, qui bisogna che cessino tutte le azioni della creatura e tutti gli esercizi di virtù, perché qui Dio genera se stesso nella parte più nobile dello spirito e qui non c’è altro che perpetua e intensa contemplazione di questa luce, a mezzo della stessa luce e dentro di essa. E l’arrivo dello Sposo è così veloce e repentino che, in realtà, Egli viene sempre e sta sempre dentro, e per di più con immense ricchezze; sta sempre venendo di nuovo personalmente, incessantemente, e con tale novità di splendore, come se non ci fosse mai stato prima. Il suo arrivo è un eterno Eccomi, fuori del tempo, e viene accolto con desiderio sempre nuovo e nuova gioia. La delizia e la gioia che lo Sposo porta con Sé quando viene, sono decisamente immense e infinite, perché sono Lui stesso. E per questo motivo, gli occhi con i quali lo spirito fissa e contempla lo Sposo sono sempre aperti e spalancati e non si chiudono mai. La contemplazione intensa, con la quale lo spirito fissa la misteriosa rivelazione di Dio, rimane fissa, e la capacità dello spirito verso lo Sposo che arriva, cresce tanto ch’esso ha la sensazione di essersi trasformato nella stessa vastità che sta contemplando. In questo modo Dio viene visto e compreso attraverso Dio, nel quale sta tutta la nostra salvezza e gioia»  (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo splendore delle nozze spirituali, III, 3).

 Seconda orazione

«Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in Me ed Io in lui» (Gv 6,56). «Il primo segno dell’amore è che Gesù ha donato alla nostra anima la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda. Una tale meraviglia d’amore non era mai stata capita prima. Ma è la natura dell’amore di donare e ricevere sempre, d’amare e di essere amato, e queste due cose si riscontrano in chiunque ama. 

Così l’amore del Cristo è avido e liberale: se lui ci dona tutto quello che ha e tutto quello che è, in cambio prende in noi tutto quello che noi abbiamo e tutto quello che noi siamo; e lui richiede da noi più di quello che noi siamo capaci di donare. La sua fame è smisuratamente grande; ci consuma per intero fino alla fine, talmente la sua avidità è immensa e il suo desiderio insaziabile: lui divora fino al midollo delle nostra ossa. Tuttavia noi ci concediamo volentieri a Lui, e più noi Gli concediamo, più Lui gusta le nostre attrattive. Ed anche se Lui ci consuma, non può mai essere sazio, poiché Lui è insaziabile e la sua fame è senza misura; noi siamo poveri, Lui lo sa: ma non ne ha cura, non esige di meno.

Per prima cosa prepara i suoi pasti e consuma nell’amore tutti i nostri peccati e i nostri difetti. Poi, dopo che siamo purificati attraverso il fuoco dell’amore, Lui piomba su di noi come l’avvoltoio sulla propria preda. Poiché Lui vuole trasformare e consumare la nostra vita piena di peccato nella sua vita tutta piena di grazia e di gloria, che è sempre pronto a donarci, purché noi consentiamo a rinunciare a noi stessi e ad abbandonare il peccato. Se noi potessimo vedere l’ardente desiderio che ha il Cristo della nostra salvezza, noi non saremmo capaci di trattenerci e ci avvicineremmo noi stessi a Lui. Sebbene le mie parole siano strane, quelli che amano mi capiscono bene. 

L’amore di Gesù è di natura così nobile che, consumando tutto, vuole nutrire. Se Lui ci assorbe interamente in Lui, di risposta lui ci dona Lui stesso. Bisogna che nascano in noi la fame e la sete dello spirito, che devono farceLo gustare con un godimento eterno, e a questa fame spirituale così come all’amore del nostro cuore dona l’alimento del suo Corpo. E di questo Corpo sacro, se noi lo prendiamo e consumiamo in noi con un’intima devozione, fluisce in tutto il nostro essere e nelle nostre vene anche il suo Sangue glorioso e pieno d’ardore. Noi siamo infiammati per Lui d’amore e di carità di cuore; corpo e anima, siamo impregnati di godimento e di gusto spirituale.  

È così che Lui ci dona la sua vita piena di saggezza, di verità e di insegnamenti, affinché noi Lo imitiamo in tutte le virtù; e allora Lui vive in noi e noi in Lui. Lui ci dona anche la sua anima con la pienezza delle grazie che possiede, affinché, stabilmente, noi possiamo sempre restare con Lui, in comunione d’amore, di virtù e di lodi di suo Padre. Infine, quello che oltrepassa tutto, ci offre e ci promette la sua divinità, per un giorno eterno. Ci si può sbalordire del fatto che esultano coloro che gustano ed sperimentano queste cose? 

Dal momento che la regina d’Oriente può contemplare la ricchezza, la maestà e la gloria del re Salomone, si sente svenire davanti a tale meraviglia, e completamente fuori di sé perde i sensi. Ma voi potete comprendere quanto tutta la ricchezza e la maestà di Salomone erano poca cosa in confronto alla ricchezza e alla gloria che è il Cristo stesso che Lui ci ha preparato nel santo Sacramento. Poiché se ci è possibile di ricevere tutto quello che appartiene alla sua umanità e quello che risiede tuttavia nel possesso di noi stessi, dal momento che veniamo a contemplare la sua divinità presente davanti a noi nel Sacramento, è un soggetto di tale ammirazione che noi dobbiamo elevarci nello spirito fino ad un amore superessenziale, poiché lo stupore e il trasporto ci farà svenire davanti alla mensa di Nostro Signore.

Ma è con devozione e amore di cuore che prendiamo nel cibo e che consumiamo l’umanità di Nostro Signore in noi stessi, perché l’amore attira a Lui tutto quello che ama, e con un amore tutto simile Nostro Signore ci attira e ci consuma in Lui, e ci riempie della sua grazia. Allora noi cresciamo, ci eleviamo al di sopra della ragione fino ad un amore divino che ci fa prendere e consumare spiritualmente il cibo celeste, e tendere d’amore puro verso la divinità. È allora che si incontra lo spirito, cioè l’amore senza misura, che consuma e trasforma il nostro spirito con tutte le sue opere, ci intrattiene con Lui verso l’unità, dove si gustano il riposo e la beatitudine.

Così dunque, divorare sempre e essere divorati, salire e scendere con l’amore, è la nostra vita nell’eternità. Ecco quello che pensava il Cristo quando diceva ai suoi discepoli: “Ho desiderato molto di consumare questa Pasqua con voi prima di soffrire” (Lc 22,15)» (Beato Giovanni Ruysbroeck, Lo specchio della divina salvezza, 7).

Sesto Giorno

Prima orazione

«Per avvicinarsi a Dio occorre credere» (Eb 11,6). È S. Paolo che parla così. Egli dice ancora: «La  fede è la sostanza delle cose che si devono sperare e la dimostrazione di quelle che non si vedono» (Eb 11,1). La fede cioè ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che per mezzo di lei prendono consistenza nella nostra anima e vi sussistono prima che ne godiamo. S. Giovanni della Croce dice che essa  ci serve di base per andare a Dio e che rappresenta il possesso allo stato d’oscurità, che essa sola  ci può dare dei veri lumi su Colui che amiamo e che dobbiamo accoglierla come il mezzo per arrivare all’unione beata. La fede riversa nella nostra anima tutti i beni spirituali (S. Giovanni della Croce, Salitai, II, passim.). Gesù Cristo, parlando alla Samaritana, indicava la fede, quando prometteva a tutti coloro che avrebbero creduto in Lui, di dar loro «una sorgente di acqua viva zampillante per la vita eterna» (Gv 4,16). Così dunque la fede ci dà Dio fin da questa vita, certamente coperto di quel velo di cui essa lo copre, ma sempre Dio stesso.

«Quando verrà ciò che è perfetto», cioè la chiara visione, «ciò che è imperfetto», vale a dire la conoscenza data dalla fede, «riceverà tutta la perfezione» (cf 1Cor 13,10). «Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e noi vi abbiamo creduto» (1Gv 4,16). Qui sta il gran atto della nostra fede. È il mezzo per rendere al nostro Dio, amore per amore. È il «segreto nascosto nel cuore del Padre» (Col 1,26), di cui parla S. Paolo. Noi lo penetriamo finalmente e tutta la nostra anima trasale. Allorché essa sa credere a «questo troppo grande amore che è su di lei» (cf Ef 2,4), si può dire quello che è detto di Mosè: «Era incrollabile nelal sua fede come se avesse visto l’invisibile» (Eb 11,27).

Non si ferma più ai gusti ed ai sentimenti, poco le importa di sentire Dio o di non sentirlo, poco le importa che le dia la gioia o la sofferenza. Essa crede al suo amore. più è provata, più la sua fede cresce perché sa andare al di là di tutti gli ostacoli per riposarsi nel seno dell’amore infinito che non può fare che opere d’amore. Così a quest’anima tutta vigilante nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo quella parola che Egli rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: «Va’ in pace, la tua fede di ti ha salvata» (Lc 7,50).

 Seconda orazione

«Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso (Mt 6,22). Che cos’è quest’occhio semplice di cui parla il Maestro se non quella «semplicità d’intenzione che raccoglie in unità tutte le forze disperse dell’anima e unisce a Dio lo spirito stesso? È la semplicità che dà a Dio onore e lode, che presenta ed offre a lui le virtù. Poi, penetrando e attraverso se stessa, attraversando e penetrando tutte le creature, trova Dio nella sua profondità. Essa è il principio e il termine delle virtù, il loro splendore e la loro gloria. Chiamo intenzione semplice quella che non mira che a Dio, a lui riferendo tutte le cose. È lei che colloca l’uomo alla presenza di Dio, è lei che gli dà forza e coraggio, che lo rende vuoto e libero da ogni timore, oggi e nel giorno del giudizio. È lo slancio interiore, il fondamento di tutta la vita spirituale, che mette sotto i piedi la cattiva natura, dona la pace e impone silenzio ai vani rumori che si fanno in noi» (Beato Giovanni Ruysbroeck, … Hello, 33-34). È lei che aumenta d’ora in ora la nostra divina rassomiglianza e poi, al di là di ogni intermediario, è ancora lei che ci trasporterà nelle profondità in cui abita Dio e ci darà il riposo dell’abisso. 

L’eredità beata che l’eternità ci ha preparato, sarà il dono della semplicità. Tutta la vita degli spiriti, tutta la loro virtù, consiste, insieme con la divina rassomiglianza, nella semplicità e il loro riposo supremo attinge il vertice della gloria nella semplicità. Così, nella misura del proprio amore, ogni spirito possiede una ricerca di Dio più o meno profonda, nella sua stessa profondità. «L’anima semplice, elevandosi in virtù del suo sguardo interiore, rientra in se stessa e contempla il proprio abisso, il santuario dove è sfiorata dal tocco della Trinità santa. Penetra così nella sua profondità fino a toccare il fondo che è la porta della vita eterna» (Beato Giovanni Ruysbroeck, … Hello, 36-37).

Settimo Giorno

Prima orazione

«Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione del mondo perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore» (Ef 1,4).

La Santa Trinità ci ha creato a sua immagine, secondo l’esemplare divino di noi stessi che portava nel suo seno prima che il mondo fosse, in quel principio senza principio di cui parla Bossuet dopo S. Giovanni: «In principio erat Verbum» (Gv 1,1), al principio era il Verbo. Si può aggiungere, al principio era il nulla, perché Dio nella sua eterna solitudine ci portava nel suo pensiero. «Il Padre contempla se stesso nell’abisso della sua fecondità e in virtù di questo atto stesso del comprendersi, genera un’altra Persona, il Figlio, il suo Verbo eterno. In Lui si trovava dall’eternità il prototipo di tutte le creature non ancora uscite dal nulla e Dio le vedeva e le contemplava, ciascuna nel suo proprio esemplare, in se stesso. Questa esistenza eterna che i nostri prototipi possiedono senza di noi in Dio, è la causa della creazione. La nostra essenza creata mira a raggiungere il suo principio. Il Verbo, lo splendore del Padre, è l’esemplare eterno sul quale sono modellate le creature nel giorno della loro creazione. Ecco perché Dio vuole che noi, liberandoci da noi stessi, tendiamo le braccia verso il nostro esemplare e arriviamo a possederlo, salendo verso di Lui al di sopra di tutte le cose. Questa contemplazione apre all’anima orizzonti insospettati e le consente di possedere, in certo modo, la corono a cui aspira» (… Hello, 67-69). Le ricchezze immense che Dio ha per natura, noi le possediamo mediante l’amore che fa vivere Dio in noi e noi in Dio. È in virtù di quest’amore immenso che siamo attratti dal fondo del santuario interiore dove Dio imprime in noi una certa immagine della sua maestà. È dunque grazie all’amore e in virtù dell’amore che possiamo essere immacolati e santi al cospetto di Dio, come dice l’Apostolo, e cantare con David: «Sarò senza macchia e mi guarderò dal fondo d’iniquità che è in me» (Sal 18,14).

 Seconda orazione

«Siate santi  perché Io sono santo» (Lv 19,2). È il Signore che parla così. «Qualunque sia il nostro genere di vita o l’abito che ci copra, ciascuno di noi dev’essere il santo di Dio» (… Hello, 113). Chi è il più santo? «È colui che ama  di più, che guarda maggiormente a Dio e soddisfa pienamente il suo sguardo» (… Hello, 157). Come soddisfare le esigenze dello sguardo divino se non restando semplicemente e amorosamente volti verso di Lui perché possa riflettere in noi la sua immagine, come il sole riflette attraverso un limpido cristallo? «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Tale fu il grande volere del Cuore di Dio. «Senza la rassomiglianza che viene dalla grazia, ci aspetta la dannazione eterna. Dal momento che Dio ci vede atti a ricevere la grazia, la sua libera bontà è pronta a farci il dono che imprime in noi la  sua rassomiglianza. La nostra attitudine a ricevere la grazia dipende dalla pienezza interiore con la quale ci muoviamo verso di Lui. Dio allora, portandoci i suoi doni, può donarci se stesso ed imprimere in noi la sua rassomiglianza spezzando le nostre catene e facendoci liberi» (… Hello, 48). La più alta perfezione in questa vita, dice un pio autore, consiste nel restare talmente uniti a Dio che l’anima con le sue facoltà e potenze sia tutta raccolta in Lui e tutte le sue affezioni, unificate nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore (Ibid). L’immagine di Dio impressa nell’anima è in realtà costituita dalla ragione, la memoria e la volontà. Finché queste facoltà non portano l’immagine perfetta di Dio non rassomigliano ancora a Lui, come nel giorno della creazione.

La forma dell’anima è Dio che deve imprimersi in lei, come il sigillo sulla cera, come la marca sul proprio oggetto. Ora questo non si realizza in pieno se la ragione non è completamente illuminata dalla conoscenza di Dio, se la volontà non è tutta incatenata all’amore del Bene sovrano, se la memoria non è totalmente assorbita nella contemplazione e il godimento della felicità eterna. Allo stesso modo che la gloria dei Beati non è altro che il possesso perfetto di questo stato, così è chiaro che il possesso incipiente di questi beni costituisce la perfezione in questa vita. Per realizzare quest’ideale, occorre tenersi raccolti dentro di sé, stare in silenzio alla presenza di Dio, mentre l’anima s’inabissa, si dilata, s’infiamma e si fonde in Lui con una pienezza senza limiti.

Ottavo Giorno

Prima orazione

«Quelli che Dio da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dalla carità di Gesù Cristo?» (Rm 8,29-31.35). Tale appariva allo sguardo illuminato dell’Apostolo il mistero della predestinazione, il mistero dell’elezione divina. «Quelli che ha conosciuto». Non siamo anche noi di questo numero?  Non può dire Dio alla nostra anima quello che diceva un tempo per bocca del profeta: «Passai vicino a voi e vi considerai. Ho visto che era arrivato per voi il tempo di essere amati; ho steso sopra di voi la mia veste e ho giurato di proteggervi, ho fatto alleanza con voi, e siete diventati miei» (cf Ez 16,8)? Sì, siamo diventati suoi mediante il battesimo. È ciò che vuol dire S. Paolo con quelle parole: «Li hai chiamati». Sì, chiamati a ricevere il sigillo della S. Trinità. nel medesimo tempo in cui, secondo le parole di S. Pietro, «siamo stati fatti partecipi della divina natura» (2Pt 1,4), abbiamo ricevuto «un principio del suo essere» (Eb 3,14).

… Poi ci ha giustificati per mezzo dei suoi sacramenti, col tocco diretto del suo Spirito nel raccoglimento intimo dell’anima. Ci ha pure giustificati per la fede (Rm 5,1) e nella misura della nostra fede, nella Redenzione operata da Gesù Cristo.

Infine, vuole glorificarci e per questo, dice S. Paolo, «ci ha resi degni di partecipare all’eredità dei santi nella luce» (Col 1,12). Ma saremo glorificati nella misura in cui  saremo conformati all’immagine del Figlio suo divino. Contempliamo perciò quest’Immagine adorata, teniamoci senza posa sotto la luce che da lei emana affinché s’imprima in noi. Poi andiamo a tutte le cose con quell’atteggiamento dell’anima col quale vi andava il nostro Maestro santo. Realizzeremo allora la grande volontà per la quale Dio ha deciso «in se stesso» di «restaurare tutte le cose in Gesù Cristo» (Ef 1,9-10).

 Seconda orazione

«Mi sembra che tutto sia una perdita dal momento che so quanto sia trascendente la  conoscenza del Cristo Gesù, mio Signore. Per il suo amore ho tutto perduto stimando tutte le cose come letame per guadagnare Cristo. Ecco ciò che voglio: conoscere Lui, aver parte alle sue sofferenze ed essere conforme alla sua morte. Proseguo la mia corsa sforzandomi di arrivare là dove mi ha destinato quando mi ha preso. Di questo solo mi preoccupo, di dimenticare quello che è dietro di me, di tendere costantemente a ciò che mi sta davanti. Corro dritto allo scopo, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato nel Cristo Gesù» (cf Fil 3,8-14), cioè non voglio più altro che identificarmi con Lui. «Mihi vivere Christus est – la mia vita è Cristo» (Fil 1,21).

Tutta l’anima ardente di S. Paolo passa attraverso queste righe.

Durante questo ritiro il cui scopo è quello di renderci più conformi al nostro Maestro adorato, meglio ancora, di fonderci così ben con Lui da poter dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me e quello che ho di vita in questo corpo di morte mi viene dalla  fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20), studiamo questo divino modello.

La sua conoscenza – dice l’Apostolo – «è così trascendente!» (Fil 3,8). Quali sono state le sue prime parole entrando in questo mondo? «Gli olocausti non vi sono più graditi, per questo ho preso un corpo. Eccomi, o Padre, per fare la vostra volontà» (Eb 10,5). Durante i suoi 33 anni, questa volontà fu talmente il suo pane quotidiano che al momento di riconsegnare la sua anima nelle mani del Padre, poteva dirgli: «Tutto è consumato» (Gv 19,30).

«Sì, tutte le vostre volontà sono state compiute». «Per questo vi ho glorificato sulla terra» (Gv 17,4). In realtà Gesù Cristo, parlando ai suoi apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano (cf Gv  4,32), diceva loro: «Io non sono mai solo» (Gv 8,16). «Colui che mi ha mandato è sempre con Me perché faccio sempre quello che a Lui piace» (Gv 8,29).

Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio. Se talvolta queste volontà sono più crocifiggenti, possiamo dire senza dubbio col nostro Maestro: «Padre, se possibile, che questo calice s’allontani da Me», ma subito aggiungeremo: «Non come voglio   io, ma come volete voi» (Mt 26,39).

Con calma e forza, insieme col divino Crocifisso, saliremo poi anche noi il Calvario cantando nel profondo delle nostre anime e facendo  salire verso il Padre un inno di ringraziamento perché quelli che camminano per questa via dolorosa sono proprio coloro ch’Egli «ha conosciuto e predestinato per essere conformi all’immagine del Figlio suo divino» (Rm 8,29), il Crocifisso per amore!

Nono Giorno

Prima orazione

«Dio ci ha predestinato all’adozione dei figli per mezzo di Gesù Cristo e in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia per la quale ci ha giustificati nel suo Figlio diletto nel quale abbiamo la redenzione per il suo Sangue, la remissione dei peccati, secondo le ricchezze della sua grazia che ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza» (Ef 1,5-8). L’anima, divenuta  realmente figlia di Dio, secondo la parola dell’Apostolo, è mossa dallo Spirito Sano stesso. «Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio» (Rm 8,14). E ancora: «non abbiamo ricevuto uno spirito di servitù per lasciarci ancora condurre dal timore, ma lo spirito d’adozione dei figli nel quale gridiamo: ‘Abba, Padre!’. In realtà lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio. Ma se siamo figli siamo anche eredi, dico eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati» (Rm8,15-17).

È per farci pervenire a quest’abisso di gloria che Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. «Guardate di quale carità ci ha gratificati il Padre concedendoci di essere chiamati digli di Dio, e di esserlo veramente!… Fin d’ora siamo figli di Dio e non si è ancora visto quello che saremo. Sappiamo che quando Egli si manifesterà, saremo simili a Lui perché lo vedremo così com’è, e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica come Lui stesso è santo» (1Gv 3,1-3). Ecco la misura della santità dei figli di Dio, essere santo come Dio, essere santo della santità di Dio.

E questo vivendo a contatto con Lui in fondo all’abisso senza fondo. «Al di dentro». L’anima allora sembra avere una certa somiglianza con Dio che, pur trovando la sua delizia in tutte le cose, non ne trova mai tanta quanta in se stesso. Infatti Egli possiede in sé un bene sovreminente davanti al quale tutti gli altri spariscono. Così tutte le gioie che l’anima incontra, sono per lei altrettanti avvertimenti che la invitano ad assaporare il bene di cui è in possesso ed al quale nessun altro può essere paragonato… «Il Padre che è nei cieli» (Mt 6,9)si trova in questo piccolo cielo che si è fatto al centro della nostra anima. è qui che lo dobbiamo cercare e soprattutto è qui che dobbiamo dimorare. Il Cristo diceva un giorno alla Samaritana che «il Padre cerca dei veri adoratori ‘in spirito e verità’» (Gv 4,23). Per dare gioia al suo cuore, siamo noi quei grandi adoratori.

Adoriamo «in spirito» cioè, teniamo il cuore e il pensiero fissi in Lui, lo spirito pieno della sua conoscenza mediane il lume della fede.

Adoriamolo «in verità», cioè, con le nostre opere, perché è soprattutto attraverso le nostre azioni che siamo veri. Ciò equivale a far sempre quello che piace al Padre di cui siamo figli. Infine, adoriamolo «in spirito e verità», vale a dire per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Egli solo è il vero adoratore «in spirito e verità». Allora, saremo i figli di Dio e conosceremo di scienza sperimentale quelle parole di Isaia: «Sarete portati al seno e vi accarezzerà sulla ginocchia» (Is 66,12). In realtà, tutta l’occupazione di Dio sembra essere quella di colmare l’anima di carezze e di segni d’affetto, come una mamma che solleva il suo bambino e lo nutre del suo latte. Oh! rendiamoci attenti alla voce del Padre nostro: «Figlio mio – Egli dice – dammi il tuo cuore» (cf Pr 7,1-3).

 Seconda orazione

«Dio che è ricco in misericordia, spinto dal suo eccessivo amore, quando eravamo morti per i nostri peccati, ci ha reso la vita in Gesù Cristo… Poiché tutti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio, vengono giustificati dalla sua grazia attraverso la redenzione che è nel Cristo Gesù, che Dio ha prestabilito propiziazione per i peccati, mostrando al tempo stesso che Egli è giusto e giustifica colui che ha fede in Lui» (Rm 3,23-26)

«Il peccato è un male talmente spaventoso che non è mai lecito commetterlo né per cercare un bene qualsiasi, né per evitare qualsiasi male. Ora noi abbiamo commesso un grande numero di peccati. Come possiamo non cader in adorazione quando ci gettiamo nell’abisso della misericordia divina e gli occhi della nostra anima si fermano su questo fatto che Dio ha eliminato i nostri peccati?» (… Hello, 169). Egli lo ha detto: «Cancellerò tutte le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati» (Ger 31,34). «Il Signore, nella sua clemenza, ha voluto che il peccato si risolvesse in danno del peccato stesso ed ha trovato il mezzo di renderlo utile per noi, convertendolo nelle nostre mani in uno strumento di salvezza. Ciò non deve diminuire in nessun modo il nostro terrore del peccato, né il dolore d’aver peccato, ma i nostri peccati sono divenuti per noi una sorgente di umiltà» (… Hello, 170).

Quando l’anima, «nell’intimo di se stessa, considera con occhi brucianti d’amore l’immensità di Dio, la sua felicità, e le sue prove d’amore, tutti i suoi benefizi che nulla possono aggiungere alla sua felicità, e poi torna a guardare se stessa, vede le sue  ribellioni contro questo Signore d’immensa potenza e prova orrore e disprezzo di sé. Non sa più come fare per detestare come vorrebbe le sue colpe. Allora non le resta che piangere  davanti a Dio, suo amico, lamentandosi con Lui che la violenza del disprezzo da cui è trascinata, non la umili tanto quanto sarebbe necessario. Si rassegnacosì alla volontà di Dio e trova la sua pace in questa abnegazione interiore, quella pace invincibile e perfetta che nulla turberà. Si è infatti precipitata in tale abisso che nessuno potrà ricercarla fin là» (…  Hello, 97-98). Se «qualcuno mi dicesse di aver toccato il fondo e perciò di essere del tutto immerso nell’umiltà, non lo contraddirei e mi sembra inoltre che essere gettato nell’umiltà sia lo stesso che essere gettato in Dio, perché Dio è il fondo dell’abisso. È per questo che l’umiltà, come la carità, è sempre capace di crescere» (… Hello, 99). Infatti «questo fondo pieno di umiltà è il vaso che occorre, il vaso capace della grazia, il vaso dove io la vuole versare» (… Hello, 99). Mai l’umile collocherà Dio troppo in alto o se stesso troppo in basso. «Ma ecco la meraviglia: la sua impotenza si cambierà in saggezza e l’imperfezione dei suoi atti, sempre insufficienti ai suoi occhi, si riempie del più grande sapore della vita. chiunque possiede un fondo di umiltà non ha bisogno di molte parole per istruirsi. Dio gli dice più cose di quelle che potrebbero essergli insegnate. I discepoli di Dio sono in questa posizione» (… Hel., 102).

Decimo Giorno

Prima orazione

«Si scires donum Dei! – Se tu sapessi il dono di Dio!» (Gv 4,10) diceva una sera (sic) il Cristo alla samaritana. Ma che cos’è questo dono di Dio, se non Lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice che «Egli è venuto nella sua casa e i suoi non l’hanno ricevuto» (Gv 1,11). S. Giovanni Battista potrebbe ancora dire a tante anime: «In mezzo a voi – in voi – c’è uno che non conoscete» (Gv 1,26). «Se tu sapessi il dono di Dio!»…

Vi è una creatura che conobbe questo dono di Dio, una creatura che non perdette neppure una goccia, una creatura che fu tanto pura e luminosa da sembrare la luce stessa. «Specul iustitiæ»: una creatura la cui vita fu così semplice e perduta in Dio che è quasi impossibile parlarne. «Virgo fidelis»: è la Vergine fedele: «colei che custodiva tutte le cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Si manteneva così piccola e raccolta alla presenza di Dio, nel segreto del tempio, che attirava su di sé le compiacenze della Trinità santa. «Poiché il Signore si è degnato di rivolgere lo sguardo alla pochezza della sua serva, tutte le generazioni mi chiameranno beata!» (Lc 1, 48). Il Padre, chinandosi sopra questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, ha voluto che fosse nel tempo la Madre di Colui di cui  Egli è il Padre nell’eternità. Allora intervenne lo Spirito d’amore che presiede a tutte le operazioni di Dio e la Vergine disse il suo Fiat: «Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Si compì allora il più grande dei misteri e, per la discesa del Verbo, Maria fu sempre la preda di Dio. Mi sembra che l’atteggiamento della Vergine, durante i mesi che trascorsero dall’Annunciazione alla Natività, sia il modello delle anime interiori, delle creature che Dio ha scelto per vivere al di dentro, nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quale pace, con quale raccoglimento Maria si avvicinava ad ogni cosa, faceva ogni cosa! Come anche le cose più banali erano da lei divinizzate! In tutto e per tutto la Vergine restava in adorazione del dono di Dio. e questo non le impediva di prodigarsi al di fuori, quando si trattava di esercitare la carità.

Il Vangelo ci dice che Maria percorse in fretta le montagne della Giudea per recarsi dalla sua cugina Elisabetta (Lc 1,39-40). La visione ineffabile che contemplava in se stessa non diminuì mai la sua carità esterna. Questo perché – come dice un pio autore – «se la contemplazione va verso la lode e verso l’eternità del suo Signore, essa possiede l’unità e non potrà perderla. Viene un ordine del cielo, ed essa si rivolge verso gli uomini, ha compassione di tutte le loro necessità, si china su tutte le loro miserie, bisogna che pianga e fecondi. Essa illumina come il fuoco, arde come la fiamma, assorbe e divora sollevando verso il cielo ciò che ha divorato. Quando ha compiuto la sua azione in basso, si eleva e riprende, ardendo del suo fuoco, la via verso l’alto!» (… Hello, 224).

 

   Seconda orazione

«Noi siamo stati predestinati da un decreto di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà perché siamo la lode della sua gloria» (Ef 1,11). È S. Paolo che parla così. S. Paolo istruisce per mezzo di Dio stesso. Come realizzare questo grande sogno di Dio, questo suo volere immutabile rispetto alle nostre anime? Come rispondere, in altre parole, alla nostra vocazione e diventare perfette Lodi di gloria della SS.ma Trinità? Nel cielo ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo, allo Spirito Santo, perché ogni anima è stabilita nel puro amore e non vive più della sua propria vita, ma della vita di Dio. Allora essa lo conosce – come dice S. Paolo – allo stesso modo che è da Lui conosciuta (cf 1Cor 13,12). In altri termini, il suo pensiero è il pensiero di Dio, la sua volontà è la volontà di Dio, il suo amore l’amore stesso di Dio. In realtà è lo Spirito d’amore e di forza che trasforma l’anima. È Lui che opera questa gloriosa trasformazione dell’anima, essendo stato inviato a noi per supplire alle nostre deficienze, come s’esprime ancora S. Paolo (Rm 8,26). Afferma S. Giovanni della Croce che l’anima abbandonata all’amore, per la virtù dello Spirito Santo, è quasi sul punto di elevarsi, fin da ora, a quel grado di perfezione di cui abbiamo parlato (cf S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 38, 2-3). Ecco ciò che chiamo una perfetta Lode di gloria.

Una Lode di gloria è un’anima che dimora in Dio, che lo ama d’un amore puro e disinteressato, senza ricercare se stessa nella dolcezza di quest’amore, che lo ama al di sopra di tutti i suoi doni come se nulla avesse ricevuto, fino a desiderare il bene dell’oggetto così amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente il bene di Dio, se non adempiendo la sua volontà? Quella volontà che ordina tutte le cose per la sua maggior gloria? L’anima di cui parlo deve perciò dedicarvisi pienamente e perdutamente, fino a non poter volere altro che ciò che vuole Dio.

Una Lode di gloria è un’anima di silenzio che si tiene come una lira sotto il tocco dello Spirito Santo per farne uscire delle armonie divine. Essa  sa che la sofferenza è una corda che produce dei suoni più belli ancora ed ama farsene il suo strumento per commuovere più deliziosamente il cuore di Dio.

Una Lode di gloria è un’anima che fissa Dio nella fede e nella semplicità, è uno specchio che lo riflette in tutto ciò che Egli è, è come un abisso senza fondo in cui Egli può fluire ed espandersi. Ancora, è come un cristallo attraverso il quale Egli può riflettere e contemplare tutte le sue perfezioni e il suo proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di appagare in lei il suo bisogno di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che ha, è in realtà la Lode di gloria di tutti i suoi doni.

Infine, una Lode di gloria è sempre occupata nel rendimento di grazie. Ognuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, ogni suo pensiero e aspirazione, nel tempo stesso che la radicano più profondamente nell’amore, sono come un’ecco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria dei Beati non cessano mai giorno e notte di ripetere: «Santo, Santo, Santo il Signore onnipotente, e si prostrano e adorano Colui che vive nei secoli dei secoli» (Ap 4,8). Nel cielo della sua anima, la Lode di gloria comincia già il suo ufficio dell’eternità. Il suo cantico è ininterrotto perché essa è sotto l’azione dello Spirito Santo che opera tutto in lei. Sebbene non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le permette di essere fissa in Dio senza distrazioni, canta sempre, adora sempre, è come passata tutta, per così dire, nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio.

Siamo anche noi, nel cielo della nostra anima, Lodi di gloria della SS.ma Trinità, lodi d’amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno il velo cadrà, saremo introdotti nei vestiboli eterni e lassù canteremo nel seno dell’amore infinito. Dio ci darà allora «il nome nuovo promesso ai vincitori» (Ap 2,17). Quale sarà? Laudem gloriæ. 

j.m.j

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S. Elisabetta della Trinità

Ultimo Ritiro di Laudem Gloriæ (agosto 1906)

Giovedì 16 agosto [1906]

Primo Giorno

 

«Nescivi – Non ho saputo più nulla» (Ct 6,12)». Ecco ciò che canta la sposa dei Cantici, dopo essere stata introdotta nella cella interiore. Mi sembra anche questo debba essere il ritornello di una Lode di gloria in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare fino in fondo all’abisso senza fondo per insegnarle a compiere l’ufficio che sarà il suo nell’eternità e nel quale deve esercitarsi fin d’ora, nel tempo che è l’inizio dell’eternità, in costante progresso.

«Nescivi! – Non so più niente», non voglio sapere più niente al di fuori della «conoscenza di Lui, della comunione alle sue sofferenze, della conformità alla sua morte» (Fil 3,10). «Quelli che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio divino» (Rm 8,29), il Crocifisso per amore. Quando sarò totalmente identificata con questo divino esemplare, tutta passata in Lui, e Lui in me, allora adempirò alla mia vocazione eterna, quella per la quale Dio mi ha scelta in Cristo «in principio», quella che seguirò «in æternum», allorché, lanciata nel seno della mia Trinità, sarò l’incessante Lode della sua gloria, «Laudem gloriæ eius» (Ef 1,12).

«Nessuno ha visto il Padre» (Gv 6,46), ci dice S. Giovanni, «eccetto il Figlio e coloro ai quali il Figlio l’ha voluto rivelare» (Mt 11,27). Mi sembra che si possa anche dire: «Nessuno ha penetrato il mistero del Cristo nella sua profondità, eccetto la Vergine». S. Giovanni e la Maddalena hanno letto molto a fondo in quel mistero. S. Paolo parla spesso dell’«intelligenza che ne ha ricevuta» (Ef 3,4). Ciononostante, come restano nell’ombra tutti i santi, quando si guarda agli splendori della Vergine!… È l’inenarrabile, «il segreto che lei custodiva nel suo cuore» (Lc 2,19), che nessuna lingua ha saputo rivelare, nessuna penna descrivere. Questa Madre di grazia andrà formando la mia anima perché la sua figliolina sia un’immagine viva e raggiante del suo Primogenito (Lc 2,7), il Figlio dell’eterno, Colui che fu la perfetta Lode della gloria del Padre suo.

Secondo Giorno

 

 «La mia anima è sempre tra le mie mani» (Sal 118,109). Sono le parole che risuonavano nell’anima del Maestro, ed ecco perché, in mezzo a tutte le sue angosce, Egli restava sempre il Mite, il Forte. La mia anima è sempre tra le mie mani… Che altro significano queste parole se non il perfetto possesso di sé alla presenza del Dio della pace, del Re Pacifico?

Vi è un’altra parola del Cristo che vorrei ripetere incessantemente: «Vi conserverò la mia forza» (Sal 58,10). La mia Regola mi dice: «La vostra forza sarà nel silenzio». Mi sembra perciò che conservare la propria forza al Signore, sia fare l’unità in tutto il proprio essere attraverso il silenzio interiore, riunire tutte le proprie potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore, avere quell’occhio semplice che permette alla luce di Dio di riflettersi sopra di noi. Un’anima che discute sul proprio io, che s’occupa delle sue sensibilità, che tien dietro ad un pensiero inutile, ad un qualunque desiderio, quell’anima disperde le sue forze, non è tutta ordinata a Dio… la sua lira non vibra all’unisono, e quando il Maestro la tocca, non può cavarne armonie divine. Vi è ancora troppo d’umano, è come stonata. L’anima che conserva ancora qualche cosa del suo dominio interiore, le cui potenze non sono tutte «incluse» in Dio, non può essere una perfetta Lode di gloria, non è in grado di cantare senza interruzione quel «canticum magnum» di cui parla S. Paolo [non è in S. Paolo, bensì in Ap 14,2-3]. Infatti non regna in lei l’unità e, invece di continuare la sua lode attraverso tutte le cose nella semplicità, è costretta a rimettere insieme incessantemente le corde del suo strumento che si allentano da ogni parte. Com’è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei Beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti!

Mi sembra che il Maestro guardasse a questo, quando parlava alla Maddalena dell’«unum necessarium» (Lc 10,42) [S. Elisabetta seguendo diversi autori del suo tempo identifica la Maddalena con Maria di Lazzaro]. Come l’aveva compreso la grande santa! L’occhio della sua anima, illuminato dalla luce della fede, aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità e nel silenzio, nell’unità delle sue potenze, «ascoltava la parola che il Maestro le diceva» (Lc 10,39). Essa poteva cantare: «La mia anima è sempre tra le mie mani» ed anche l’altra parola: «Nescivi». Sì, essa non sapeva più nulla al di fuori di Lui. Si poteva fare del chiasso o agitarsi intorno a le… «Nescivi». La si poteva accusare: «Nescivi»!… Né il suo onore né le sue cose esteriori possono più farla uscire dal suo sacro silenzio.

Lo stesso accade all’anima entrata nella fortezza del santo raccoglimento. L’occhio interiore aperto agli splendori della fede scopre il suo Dio presente e vivente in lei. A sua volta, essa rimane così presente a Lui nella sua bella semplicità che Egli la custodisce con cure gelosa.

Possono allora sopravvenire le agitazioni dal di fuori, le tempeste dal di dentro, su può colpirla nel suo punto d’onore: «Nescivi». E ancora S. Paolo: «Per il suo amore, ho tutto perduto» (Fil 3,8). Allora il Maestro è libero, libero d’invaderla, di donarsi a lei «secondo la sua misura» (Ef 4,7). L’anima così semplificata, unificata, diviene il trono dell’Immutabile perché l’unità è il trono della SS. Trinità. 

Terzo Giorno

 

 «Siamo stati predestinati con un decreto di Colui che fa tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la Lode della sua gloria» (Ef 1,11-12). È S. Paolo che ci mette a parte di questa elezione divina, S. Paolo che ha penetrato così a fondo il «segreto nascosto dai secoli nel cuore di Dio» (Ef 3,9). Ora egli ci illumina su questa vocazione alla quale siamo stati chiamati. Dio – egli dice – ci ha scelto in Cristo prima della creazione del mondo perché fossimo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità» (Ef 1,4). Se avvicino queste due presentazioni del piano divino, eternamente immutabile, ne concludo che, per adempiere degnamente il mio ufficio di Laudem gloriæ, devo tenermi in ogni cosa alla presenza di Dio, meglio ancora, come l’Apostolo ci dice, «nella carità» (Ef 1,4), cioè in Dio. «Deus charitas est» (1Gv 4,8.16). È proprio il contatto con l’Essere divino che mi renderà «immacolata e santa» ai suoi occhi…

Mi piace riferire tutto questo alla bella virtù della semplicità di cui un pio autore ha scritto: «Essa dà all’anima il riposo dell’abisso», cioè il riposo di Dio, abisso insondabile: preludio ed eco di quel sabato eterno di cui parla S. Paolo dicendo: «Noi che abbiamo creduto saremo introdotti in questo riposo» (Eb 4,3).

I glorificati godono questo riposo dell’abisso perché contemplano Dio nella semplicità della sua essenza. «Lo conoscono – diceva ancora S. Paolo – come sono da Lui conosciuti» (1Cor 13,12), vale a dire attraverso la visione intuitiva, lo sguardo semplice. È per questo che l’Apostolo prosegue: «Sono trasformati di splendore in splendore, mediante la potenza del suo Spirito, nella sua propria immagine» (2Cor 3,18). Allora essi divengono un’incessante Lode di gloria all’Essere divino che contempla in loro il suo proprio fulgore. Mi sembra che sarebbe dare gioia immensa al cuore di Dio esercitarsi nel cielo della propria anima in questa occupazione dei Beati ed aderire a Lui attraverso questa contemplazione semplice che ravvicina la creatura a quello stato di innocenza nel quale Dio l’aveva creata prima del peccato originale… «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Tale è il sogno del Creatore, potersi contemplare nella sua creatura e riflettere in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo puro e senza macchia. E non vi è forse in questo una specie di estensione della sua propria gloria?… L’anima, per la semplicità dello sguardo col quale fissa il suo oggetto divino, si trova separata da tutto ciò che la circonda, separata anche e soprattutto da se stessa. Allora risplende di quella «scienza della chiarezza di Dio» (2Cor 4,6) di cui parla l’Apostolo, in quanto permette all’essere divino di rispecchiarsi in lei e di comunicarle tutti i suoi attributi. In realtà quest’anima è la Lode di gloria di tutti i suoi doni e canta in tutto, anche attraverso le azioni più banali, il canticum magnum… il canticum novume questo cantico fa trasalire Dio fino nelle sue profondità. «La tua luce – possiamo dirle con Isaia – si leverà nelle tenebre e le tenebre diverranno come il mezzogiorno. Il Signore ti farà godere di un perpetuo riposo, t’inonderà dei suoi splendori, fortificherà le tue ossa. Sarai come un giardino sempre irrigato, come una fontana le cui acque non seccano mai… Ti leverò – dice il Signore – al di sopra di ciò che vi è di più elevato in questo mondo» (Is 58,10-11.14). 

Quarto Giorno

 

 Ieri S. Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di gettare lo sguardo nell’«eredità dei santi nella luce» (Col 4,6) per vedere qual è la loro occupazione e cercare anch’io, per quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro per adempiere il mio ufficio di Laudem gloriæ. Oggi è S. Giovanni, il discepolo che Gesù amava, che mi aprirà un po’ «le porte eterne» (Sal 23,7) affinché possa riposare la mia anima nella celeste Gerusalemme, «dolce visione di pace» (Inno dei Vespri dell’Ufficio della Dedicazione delle chiese). Anzitutto, Egli mi dice… «non vi sono luci nella città perché la chiarità di Dio l’ha illuminata e l’Agnello ne è la fiaccola» (Ap 21,23).

Se voglio che la mia città interiore abbia qualche conformità e rassomiglianza con quella «del Re dei secoli immortale» (1Tm 1,17), riceva la grande illuminazione di Dio, bisogna che spenga ogni altra luce e l’Agnello sia la sua sola fiaccola come nella Città Santa. Ecco la fede, la bella luce della fede che m’illumina. Essa sola deve rischiarare il mio cammino incontro allo Sposo. Il Salmista canta che egli «si nasconde in mezzo alle tenebre» (Sal 17,12). Poi sembra d’altra parte contraddirsi dicendo che «la luce lo circonda e lo avvolge come una veste» (Sal 103,2). Quel che risulta, per me, da questa contraddizione apparente, è che devo immergermi nella tenebra sacra, facendo la notte, il vuoto, in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il Maestro, e la luce che lo circonda come una veste avvolgerà anche me, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della sua luce, della sua sola luce «avendo la chiarezza di Dio». È detto di Mosè che egli era «incrollabile nella sua fede come se avesse visto l’Invisibile» (Eb 11,27) e mi sembra che tale debba essere l’atteggiamento di una Laudem gloriæ che voglia in ogni cosa proseguire il suo inno di ringraziamento. Incrollabile nella sua fede come se avesse visto l’Invisibile… incrollabile nella sua fede nell’ «eccesso d’amore»… «Noi abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi e abbiamo creduto» (1Gv 4,16).

«La fede – dice S. Paolo – è la sostanza delle cose che si devono sperare e la dimostrazione di quelle che non si vedono» (Eb 11,1).

Che importa all’anima, che si è raccolta entro la luce che questa parola crea in lei, di sentire o non sentire, di essere nel buio o nella luce, di godere o non godere? Essa si vergogna di fare differenza tra queste cose e quando si accorge di non essere ancora del tutto libera, si disprezza profondamente per il suo poco amore e volge subito lo sguardo al Maestro per farsene liberare.

Essa «lo esalta – secondo l’espressione di un grande mistico – sulla più alta cima della montagna del suo cuore», al di sopra delle dolcezze e delle consolazioni che provengono da Lui, perché essa ha deciso di oltrepassare tutto per unirsi a Colui che ama. Mi sembra che a quest’anima, incrollabile nelle fede in Dio-Carità, si possano riferire quelle parole del Principe degli Apostoli: «Poiché credete, sarete riempiti di una gioia incrollabile e gloriosa» (1Pt 1,8). ). 

Quinto Giorno

 

«Vidi una grande moltitudine che nessuno poteva contare… Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,9.14-17).

Tutti questi eletti che hanno la palma in mano e sono tutti immersi nella grande luce di Dio, hanno dovuto prima passare nella grande tribolazione, conoscere il dolore cantato dal salmista «immenso come il mare» (Lam 2,13). Prima di «contemplare a faccia scoperta la gloria del Signore» (2Cor 3,18) hanno preso parte agli annientamenti del suo Cristo. Prima di essere trasformati, «di splendore in splendore, nell’immagine dell’Essere divino» (Ibid), sono stati conformi a quella del Verbo Incarnato, il Crocifisso per amore.

L’anima che vuole servire Dio notte e giorno nel suo tempio, voglio dire il santuario interiore di cui parla S. Paolo quando dice: «Il tempio di Dio è santo e voi siete questo tempio» (1Cor 3,17), quest’anima dev’essere decisa a prendere parte, realmente, alla passione del suo Maestro. 

È un’anima riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime e per questo canterà sulla sua lira: «Mi glorio nella croce di Gesù Cristo» (Gal 6,14). «Con Gesù Cristo sono inchiodata alla croce» (Gal 2,19). «Soffro nel mio corpo ciò che manca alla passione di Cristo, per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). La Regina si è tenuta «alla vostra destra» (Sal 44,10). Tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa cammina sulla via del Calvario, alla destra del suo Re Crocifisso, annientato, umiliato, eppure sì forte sempre, sì calmo, sì pieno di maestà, che va alla passione per «far risplendere la gloria della sua grazia» (Ef 1,6), secondo l’espressione così forte di S. Paolo. Egli vuole associare la sua sposa alla sua opera di Redenzione e questa via dolorosa dove essa cammina, le appare come la strada della beatitudine, non solo perché vi conduce, ma perché il Maestro santo le fa comprendere che deve oltrepassare ciò che vi è d’amaro nella sofferenza per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora può servire Dio «giorno e notte nel suo tempio» e le prove di fuori e di dentro non possono farla uscire dalla sua santa fortezza dove il Maestro l’ha rinchiusa. Non ha più fame né sete perché, nonostante il desiderio della beatitudine che la consuma, si sazia del nutrimento che fu quello del Maestro, «la volontà del Padre» (Gv4,34). «Non sente più il sole cadere sopra di lei», cioè non soffre più di soffrire. Allora l’Agnello la può condurre«alle sorgenti della vita», là dove vuole, dove a lui piace. essa non guarda più i sentieri dove passa. Fissa semplicemente il Pastore che la conduce. Dio, chinandosi su quest’anima sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo Figlio «Primogenito fra tutte le creature» (Col 1,15), la riconosce per una di quelle ch’Egli «ha predestinato, chiamato, giustificato» (Rm 8,30) e si commuove nelle sue viscere di Padre pensando a consumare l’opera sua, cioè, a glorificarla trasferendola nel suo regno per cantarvi, nei «secoli senza fine», la lode della sua gloria). 

Sesto Giorno

 

«Poi guardai ed ecco l'Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo. Udii una voce che veniva dal cielo, come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono. La voce che udii era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe. Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va» (Ap 14,1-4).

Vi sono delle creature che fin da quaggiù fanno parte di questa generazione pura come la luce e portano già sulle loro fronti il nome dell’Agnello, a causa della loro rassomiglianza e conformità con Colui che S. Giovanni chiama «il Fedele, il Veritiero» (Ap 3,14) e si mostra rivestito di una veste tinta di sangue (Ap 19,13). Anche quelle creature sono «le fedeli, le veritiere» e le loro vesti sono tinte del sangue della loro immolazione continua. Il nome del Padre suo, perché Egli riflette al vivo in loro la bellezza delle sue perfezioni, fa risplendere nelle loro anime tutti i suoi attributi divini. Sono come altrettante corde che vibrano e cantano «il cantico nuovo».

Esse seguono l’Agnello dovunque va, non solo sulle strade larghe e facili a percorrersi, ma sui sentieri spinosi, in mezzo ai rovi. E questo perché sono vergini,cioè libere, separate, spogliate di tutto fuorché del loro amore. separate da tutto, principalmente da se stesse. Spogliate di tutte le cose tanto nell’ordine soprannaturale come in quello naturale. Quale evasione da sé, quale morte, tutto questo suppone! Possiamo dirlo con le parole di S. Paolo: «Quotidie morior» (1Cor15,31). Il gran santo scriveva ai Colossesi: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta in Dio con Gesù Cristo» (Col 3,3). Ecco la condizione: bisogna essere morti. Altrimenti, si può essere nascosti in Dio in certe ore, ma non vi si vive abitualmente in questo essere divino, perché la sensibilità, le ricerche personali e il resto ci riporteranno fuori. L’anima, che fisse il Maestro con quell’occhio semplice che rende tutto il corpo luminoso, è salvaguardata «dal fondo d’iniquità che è in lei» (Sal 38,9), del quale si lamentava il profeta. Il Signore l’ha fatta entrare in «quel luogo spazioso» (Sal 17,20)che non è altro che Lui stesso e dove tutto è puro, tutto è santo!… O beata morte in Dio! O soave e dolce perdita di sé nell’Essere amato che permette alla creatura di esclamare: «Non vivo più io, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20) e ancora: «Quello che ho di vita in questo corpo di morte, mi vien dalla fede del Figlio di Dio che mi ha amato e si è sacrificato per me!» (Gal 2,20). 

Settimo Giorno

 

«Cœli enarrant gloriam Dei» (Sal 18,2). Ecco ciò che narrano i cieli: la gloria di Dio. poiché la mia anima è in cielo dove io vivo nell’attesa della Gerusalemme celeste, bisogna che anche questo cielo canti la gloria dell’Eterno, nient’altro che la gloria dell’Eterno.

«Il giorno trasmette al giorno questo messaggio» (Sal 18,3). Tutte le luci, tutte le comunicazioni di Dio alla mia anima, sono questo «giorno che trasmette il messaggio della sua gloria al giorno». «Il decreto di Jahvé è puro – canta il salmista – e illumina lo sguardo» (Sal 18,3). Per questo, la mia fedeltà nel corrispondere a ciascuno dei suoi decreti, ad ognuna delle sue indicazioni interiori, mi fa vivere nella sua luce. Anch’essa è «un messaggio che trasmette la sua gloria». Ma ecco la dolce meraviglia. «Jahvé, chi ti guarda risplende» (Sal 33,6), esclama il profeta. L’anima che, attraverso la profondità del suo sguardo interiore, contempla in tutte le cose Dio nella semplicità che da tutto la separa, è un’anima «risplendente», è «un giorno che trasmette al giorno il messaggio della sua gloria».

«La notte lo annunzia alla notte» (Sal 18,3). Ecco una verità tanto consolante. Le mie impotenze, i miei disgusti, le mie oscurità, le mie stesse colpe narrano la gloria dell’Eterno. Anche le mie sofferenze dell’anima e del corpo narrano la gloria del mio Maestro.

David cantava: «Che cosa darò in cambio al Signore per tutti i benefici che ho ricevuto da Lui? Ecco: gli offrirò il calice della salvezza» (Sal 115,3-4). Sì, voglio prendere questo calice imporporato del sangue del mio Maestro e, nel rendimento di grazie, al colmo della gioia, mescolare il mio sangue a quello della Vittima santa! Così il mio sangue acquista in certo senso un valore infinito e può rendere al Padre una splendida lode. Allora la mia sofferenza è un messaggio che trasmette la gloria dell’Eterno. «Là (nell’anima che narra la sua gloria) Egli ha posto una tenda per il sole» (Sal 18,6). Il sole è il Verbo, è lo Sposo. Se questi trova la mia anima vuota di tutto ciò che non rientra in queste due parole, il suo amore e la sua gloria, allora la sceglie per farne la sua camera nuziale dove si slancia «come un gigante che si precipita trionfalmente nella sua corsa» (Sal 18,6-7) ed io non posso sottrarmi al suo calore. È questo fuoco divoratore che opererà la beata trasformazione di cui parla S. Giovanni della Croce, quando dice: «Ciascuno sembra essere l’altro e tutt’e due non sono che uno» (S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 12, 7), per essere Lode di gloria del Padre. 

Ottavo Giorno

 

«Non hanno riposo né giorno né notte dicendo: Santo, santo, santo il Signore Dio, l'Onnipotente, che era, che è e che sarà nei secoli dei secoli… e si prostrano e adorano e gettano le loro corone davanti al trono, dicendo: "Voi siete degno, o Signore, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza…» (Ap 4,8.10-11).

Come imitare, nel cielo della mia anima, questa occupazione incessante dei beati nel cielo della gloria? Come proseguire questa lode, questa ininterrotta adorazione? S. Paolo mi dà una luce su questo punto quando implora per i suoi che «il Padre li fortifichi in potenza mediante il suo Spirito quanto all’uomo interiore in modo che cristo abiti per la fede nei loro cuori ed essi siano radicati e fondati nell’amore» (Ef 3,16-17).

Essere radicati e fondati nell’amore, questa, mi sembra, è la condizione per adempiere degnamente il mio ufficio di Laudem gloriæ.

L’anima che penetra e dimora in queste «profondità di Dio» (Sal 70,16) cantate dal Re profeta e, per conseguenza, fa tutto «in Lui, con Lui, per mezzo di Lui e per Lui», con quella limpidezza dello sguardo che le dona una certa rassomiglianza con l’Essere semplice, quest’anima, attraverso ciascuno dei suoi movimenti, delle sue aspirazioni, come attraverso ciascuno dei suoi atti, per quanto ordinari essi siano, «si radica» più profondamente in Colui che ama. Tutto in lei rende omaggio al Dio tre volte santo. Diviene, per così dire, un perpetuo Sanctus, un incessante Lode di gloria.…

«Si prostrano, adorano, gettano le loro corone». Anzitutto l’anima deve prostrarsi, gettarsi nell’abisso del suo nulla e sprofondarvisi talmente che, secondo l’espressione stupenda di un mistico, trovi «la pace vera, immutabile e perfetta, che niente turba perché si precipita così in basso che nessuno andrà a ricercarla fin là» (Beato Giovanni Ruysbroeck, trad. Ernest Hello, De l’humilité, 98). Allora potrà «adorare». L’adorazione è una parola del cielo più che della terra. Mi sembra che si possa definire l’estasi dell’amore. È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’oggetto amato, che cade in una specie di deliquio, in un silenzio pieno e profondo. I silenzio di cui parlava David, quando esclamava: «Il silenzio è la tua lode». Sì, è la lode più bella perché è quella che si canta nel seno della beata Trinità. È anche «l’ultimo sforzo dell’anima che trabocca di vita e non può più parlare» (Lacordaire). «Adorate il Signore perché è santo» (Sal 98,9), sta scritto in un salmo. E ancora: «Lo si adorerà ancora a causa di Lui stesso» (Sal 71,15). L’anima che si raccoglie in questi pensieri, che li penetra con quel «senso di Dio» (1Cor 2,16) di cui parla S. Paolo, vive in un cielo anticipato, al di sopra di ciò che passa, al di sopra delle nubi, al di sopra di se stessa! Sa che Dio, che essa adora, possiede in sé ogni felicità ed ogni gloria e, «gettando la sua corona» (Ap 4,10) ai suoi piedi, come i Beati, si disprezza, si perde di vista e trova la sua beatitudine in quella dell’Essere adorato, in mezzo ad ogni sofferenza e dolore. Ha lasciato se stessa, è «passata» in un altro. Mi sembra che in questo atteggiamento di adorazione, l’anima rassomigli a quei pozzi di cui parla S. Giovanni delle Croce, che ricevono le acque scendenti dal Libano (S. Giovanni della Croce, Fiamma “B”, str. 3, 7), e si possa dire vedendola: «L’impetuosità del fiume rallegra la città di Dio» (Sal 45,5). 

Nono Giorno

 

«Siate santi perché Io sono santo» (Lv 19,2). Chi è dunque Colui che può dare un simile comandamento)?… Ha rivelato Lui stesso il suo nome, quel nome che gli è proprio e che Lui solo può portare. «Io sono – dice a Mosè – Colui che sono» (Es 3,14), il solo vivente, il principio di tutti gli altri esseri. «In Lui – dice l’Apostolo – abbiamo il movimento, l’essere e la vita» (At 17,28). Siate santi perché Io sono santo! È la stessa volontà, mi sembra, che si esprime nel giorno della creazione, quando Dio dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). È sempre lo stesso desiderio del Creatore di identificarsi con la sua creatura, di associarla a Sé. S. Pietro dice che «siamo fatti partecipi della natura divina!» (2Pt 1,4). S. Paolo ci raccomanda di «conservare questo principio del suo essere» (Eb 3,14) che Egli ci ha dato. Il discepolo dell’amore dice: «Siamo fin d’ora figli di Dio e non si è ancora veduto quello che saremo. Sappiamo che quand’Egli si mostrerà, saremo simili a Lui perché lo vedremo così com’è, e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica come Lui stesso è santo» (1Gv 3,2-3). Essere santo come Dio è santo, questa, sembra, la misura dei figli del suo amore. Non ha forse detto il Maestro: «Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste?» (Mt 5, 48). Parlando ad Abramo, Dio diceva: «Cammina alla mia presenza e sii perfetto» (Gen 17,1). Questo perciò il mezzo per arrivare alla perfezione che ci domanda il Padre nostro del cielo. S. Paolo, dopo essersi gettato nei suoi consigli divini, proprio questo rivelava alle nostre anime scrivendo: «Dio ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo perché fossimo immacolati e santi alla sua presenza, nell’amore» (Ef 1,4-5). Ed è alla luce di questo stesso Santo che voglio rischiararmi, per camminare, senza mai voltarmi indietro, su questa strada magnifica della presenza di Dio dove l’anima procede sola con Lui solo, guidata «dalla forza della sua destra» (Sal 19,7), «sotto la protezione delle sue ali, senza temere i rumori della notte o la freccia di giorno, il male che serpeggia tra le tenebre o l’assalto del demonio meridiano» (Sal 90,4-6).

«Spogliatevi dell’uomo vecchio secondo il quale siete vissuti nella vostra precedente vita – mi dice l’Apostolo – e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio, nella giustizia della santità» (Ef 4,22.24). Ecco il sentiero tracciato. Non si tratta che di spogliarsi del proprio io e rivestirsi come Dio vuole. Spogliarsi, morire a se stessi, perdersi di vista, mi sembra sia quello a cui guardava Gesù, quando diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e rinneghi se stesso» (Mt 16,24).

«Se vivrete secondo la carne – dice ancora l’Apostolo – morrete, ma se mortificherete, mediante lo spirito, le opere della carne, vivrete» (Rm 8,13). Ecco la morte che Dio domanda e di cui ha detto: «La morte è stata assorbita dalla vittoria» (1Cor 15,54). «O morte – dice il Signore – Io sarò la tua morte» (Os 13,14). È come dire: O anima, mia figlia adottiva, guarda Me e ti perderai di vista, sparisci tutta intera nel mio essere, vieni a morire in Me perché Io viva in te”!…). 

Decimo Giorno

 

«Siate perfetti come il Padre vostro è perfetto» (Mt 4,48). Quando il Maestro mi fa udire questa parola in fondo all’anima, mi sembra che mi domandi di viver come il Padre, in un «eterno presente», senza prima, senza poi, ma tutt’intera, nell’unità del mio essere, in questo «ora eterna». che cos’è questo presente? Ecco a rispondermi il profeta David: «Lo si adorerà sempre per Se Stesso» (Sal 71,15). Ecco l’eterno presente nel quale Laudem gloriæ deve restare fissa. Ma perché sia vera in questo atteggiamento d’adorazione, perché possa cantare: «Sveglio l’aurora» (Sal 56,9), bisogna che possa dire anche, con S. Paolo: «Per il suo amore ho perduto tutto» (Fil 3,8), cioè, per via di Lui, per adorarlo sempre, mi sono isolata, separata, spogliata di me stessa e di tutte le cose, sia nell’ordine naturale che in quello soprannaturale, di fronte ai doni di Dio. un’anima infatti che non è così distrutta e libera di se stessa, sarà necessariamente in certe ore banale e naturale, e questo non è degno di una figlia di Dio, d’una sposa del Cristo, d’un tempio dello Spirito Santo. Per premunirsi contro questa vita naturale, bisogna che l’anima sia tutta vigilante nella sua fede, con lo sguardo interiore tutto rivolto verso il Maestro. Allora, come cantava il Re profeta, essa«camminerà nella dirittura del suo cuore nell’intimo della sua casa» (Sal 100,2). Allora «adorerà sempre il suo Dio per Se Stesso» e vivrà a sua immagine in quell’«eterno presente» in cui Egli vive…

«Siate perfetti come il Padre vostro è perfetto». «Dio – dice S. Dionigi – è il grande solitario». Il Maestro mi chiede d’imitare questa perfezione, di rendergli omaggio con l’essere una grande solitaria. L’Essere divino vive in un’eterna, immensa solitudine dalla quale non esce mai, pur interessandosi ai bisogni delle sue creature. Egli, infatti, non esce mai da Se Stesso e questa solitudine non è altro che la sua Divinità. Perché nulla mi faccia uscire da questo bel silenzio interiore, è necessari sempre la stessa condizione, lo stesso isolamento, la stessa separazione, lo stesso spogliamento. Se i miei desideri, i miei timori, le miei gioie o i miei dolori, se tutti i moti originati da queste quattro passioni, non saranno perfettamente ordinati a Dio, non sarà solitaria, vi sarà rumore in me. È dunque necessaria la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere. «Ascolta, figlia mia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa del padre tuo e il Re sarà preso dalla tua bellezza» (Sal 44,11-12). Mi pare che questo appello sia un invito al silenzio: Ascolta, porgi l’orecchio… ma, per udire, bisogna dimenticare la casa del proprio padre, cioè tutto quanto concerne la vita naturale, quella vita di cui intende parlare l’Apostolo quando dice: «Se vivrete secondo la carne, morrete» (Rm 8,13). Dimenticate il proprio popolo è più difficile, mi sembra, perché questo popolo è tutto il mondo presente che fa parte, per così dire, di noi stessi. È la sensibilità, sono i ricordi, le impressioni, insomma il proprio io. Bisogna dimenticarlo, abbandonarlo. Quando l’anima è arrivata a questa frattura col mondo e si è disfatta di tutto il Re è preso dalla sua bellezza perché è la bellezza è l’unità. Così almeno è di Dio!… 

Undicesimo Giorno

 

«Il Signore mi ha fatto entrare in un luogo spazioso. Ha avuto della buona volontà per me» (Sal 17,20). … Il Creatore, vedendo questo bel silenzio che regna nella sua creatura, contemplandola tutta raccolta nella sua solitudine interiore, è rimasto preso dalla sua bellezza e l’ha fatta passare in quella solitudine immensa, infinita, in quel «luogo spazioso» cantato dal profeta, che non è altro che Lui stesso.

«Entrerò nelle profondità della potenza di Dio» (Sal 70,16). Parlando per mezzo del suo profeta, il Signore ha detto: «La condurrò nella solitudine e le parlerò al cuore» (Os 2,14). Ecco allora l’anima entrare in quella vasta solitudine dove Dio si farà udire. «La sua parola – dice S. Paolo – è viva ed efficace, più penetrante di una spada a due tagli, giunge fino alla divisione dell’anima e dello spirito, fino nelle giunture e nelle midolla» (Eb 4,12). Perciò è questa parola che compirà nell’anima il lavoro di spogliamento, com’è nella sua natura e nel suo scopo. Essa opera e crea quello che esprime e fa intendere, supposto naturalmente che l’anima consenta a lasciarsi plasmare. Ma l’ascoltare questa parola non è tutto, occorre custodirla e, custodendola, l’anima sarà «santificata nella verità». È il desiderio del Maestro: «Santificali nella verità: la tua parola è verità» (Gv 17,17). Non ha forse fatto questa promessa a chi custodisce la sua parola: «Il Padre l’amerà e verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora?» (Gv 14,23). Tutta la Trinità abita l’anima che ama nella verità, cioè custodendo la sua parola. Quando l’anima ha compreso la sua ricchezza, allora tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle da parte delle creature o anche da parte di Dio, non fanno che invitarla a rientrare in se stessa per gioire del bene sostanziale che essa possiede e che non è altro che Dio stesso. Ed ha così – dice S. Giovanni della Croce – una certa rassomiglianza con l’Essere divino (S. Giovanni della Croce, Cantico “B”, str. 39, 4).

«Siate perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5,48). S. Paolo mi dice: «Egli opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà» (Ef 1,11) e il Maestro mi chiede ancora di rendergli omaggio nel «fare ogni cosa secondo il consiglio della mia volontà» non lasciandomi mai governare dalle impressioni, dai primi moti della natura, ma possedendo me stessa mediante la volontà. Perché questa volontà sia libera, bisogna, secondo l’espressione di un pio autore «includerla in quella di Dio». Allora sarò mossa dal suo Spirito (Rm 8,14), come dice S. Paolo, non esprimerò che il divino, l’eterno e ad immagine del mio Dio immutabile, vivrò fin d’ora in un eterno presente.

Dodicesimo Giorno

 

«Verbum caro factum est et habitavit in nobis» (Gv 1,14). Dio aveva detto: «Siate santi perché Io sono santo» (Lv 19,2), ma restava nascosto nel suo essere inaccessibile e la creatura aveva bisogno che scendesse fino a lei e vivesse della sua vita affinché, mettendo i suoi passi sulle orme da Lui segnate, essa potesse risalire fino a Lui e farsi santa della sua santità. «Mi santifico per loro perché anch’essi siano santificati nella verità» (Gv 17,19). Eccomi in presenza del «segreto nascosto ai secoli e alle generazioni, al mistero che è il Cristo. È per noi – dice S. Paolo – la speranza della gloria» (Col 1,26-27) e aggiunge che a lui è stata concessa «l’intelligenza di questo mistero» (Ef 3,4). Dal grande Apostolo andrò dunque a farmi istruire per possedere quella scienza che, secondo la sua espressione «sorpassa ogni altra scienza: la scienza della carità di Cristo Gesù» (Ef 3,19). Per prima cosa l’Apostolo mi dice che «Cristo è la mia pace, che solo per mezzo di Lui ho accesso al Padre» (Ef 2,14.18) perché è «piaciuto a questo Padre della luce che ogni pienezza abitasse nel Figlio e in Lui stesso tutto fosse riconciliato, pacificando attraverso il sangue della sua croce tutte le cose esistenti, sulla terra o nei cieli» (Col 1,19-20). «Siete stati riempiti in Lui – prosegue l’Apostolo – con Lui sepolti nel battesimo e risuscitati con Lui per la fede nell’operazione di Dio… Con Lui vi ha fatto rivivere perdonando tutti i vostri peccati, cancellando il decreto di condanna che pesava su di voi. L’ha abolito attaccandolo alla croce, e spodestando i principati e le podestà, le ha trascinate prigioniere, dopo aver trionfato su di loro, in Se Stesso (Col 2,10.12-15) … per farvi santi, puri, irreprensibili al suo cospetto… (Col 1,22)». Ecco l’opera di Cristo di fronte ad ogni anima di buona volontà. È questo il lavoro che il suo immenso amore, il suo «amore eccessivo» (Ef 2,4) lo spinge a fare in me. Egli vuole essere la mia pace perché nulla possa distrarmi o farmi uscire dalla fortezza inespugnabile del santo raccoglimento. È qui che mi darà l’«accesso al Padre» e mi custodirà immobile e tranquilla alla sua presenza come se già mi trovassi nell’eternità. Mediante «il sangue della sua croce», pacificherà tutto nel mio piccolo cielo perché sia veramente il riposo dei Tre. Mi riempirà di Sé, sarò sepolta in Lui e con Lui rivivrò, della sua stessa vita: «Mihi vivere Christus est!» (Fil 1,21). Se cado ad ogni istante, nella fede, con piena confidenza, da Lui mi farò rialzare. So che mi perdonerà e cancellerà tutto con cura gelosa, soprattutto mi spoglierà e libererà di tutte le mie miserie, di quanto in me si oppone all’azione di Dio. Trascinerà con Sé tutte le mie potenze facendole sue prigioniere, trionfando di esse in Se Stesso. allora sarò tutta trasferita in Lui e potrò dire: «Non vivo più io, ma il Maestro vive in me» (Gal 2,20) e sarò santa, pura, irreprensibile agli occhi del Padre.

Tredicesimo Giorno

 

«Instaurare omnia in Christo» (Ef 1,10). È ancora S. Paolo che m’istruisce, S. Paolo che si è immerso nel grande consiglio di Dio e mi dice: «Egli ha deciso in Se Stesso di restaurare ogni cosa nel Cristo» (Ibid). perché possa realizzare personalmente questo piano divino, ecco ancora S. Paolo che viene in mio aiuto e traccia egli stesso il mio regolamento di vita. «Cammina in Gesù Cristo – egli mi dice – radicata in Lui, edificata sopra di Lui, consolidata nella fede, crescendo di continuo in Lui mediante l’azione di grazie» (Col 2,6-7). Camminare in Gesù Cristo mi sembra equivalga ad uscire da sé, perdersi di vista, staccarsi da se stessi per entrare più profondamente in Lui ad ognji istante che passa, così profondamente da esservi radicati e potere in ogni avvenimento, in ogni cosa, lanciare la bella sfida: «Chi mi separerà dalla carità di Cristo?» (Rm 8,35). Quando l’anima è fissa in Lui a tali profondità, quando le sue radici vi sono penetrate tutte, la linfa divina fluisce copiosamente in lei e tutto ciò che è vita imperfetta, banale, naturale, viene distrutto. Allora, secondo il linguaggio dell’Apostolo, «ciò che è mortale è assorbito dalla vita» (2Cor 5,4). L’anima, così spogliata di se stessa e rivestita di Gesù Cristo, non ha più da temere né i contatti di fuori né le difficoltà di dentro. Queste cose, lungi da esserle di ostacolo, non fanno che «radicarla più profondamente nell’amore» (Ef 3,17) del suo Maestro. In ogni cosa, verso ogni cosa, di fronte ad ogni cosa è pronta a «sempre adorarlo per Se Stesso». Essendo libera, spoglia di sé e di tutto, può cantare col salmista: «Mi assedi pure un esercito, non temo; sorga pure una battaglia, spero nonostante tutto, perché Jahvé mi nasconde nel segreto della sua tenda» (Sal 26,3.5) e questa tenda non è altro che Lui stesso. Ecco, mi sembra, che cosa intende S. Paolo quando parla di «essere radicati in Gesù Cristo». E che cosa significa «essere edificati sopra di Lui»? Il profeta canta ancora: «Egli mi ha elevato sopra una rupe e la mia testa si leva al di sopra dei nemici che mi circondano» (Sal 26,6). Questa, a mio parere, è la figura dell’anima «edificata su Gesù Cristo». Egli è la roccia su cui è innalzata, al di sopra di se stessa, ei sensi, della natura; al di sopra delle consolazioni o dei dolori, al di sopra di ciò che non è unicamente Lui. Lassù, nel suo pieno possesso, si domina e supera se stessa ed ogni cosa. Ora S. Paolo mi raccomanda di essere «consolidata nella fede», in quella fede che la tiene sempre sveglia sotto lo sguardo del Maestro, tutta raccolta alla luce della sua parola creatrice, in quella fede nell’«eccesso  del suo amore» che permette a Dio, come dice S. Paolo, di colmare l’anima «secondo la sua plenitudine» (Ef 3,19). Infine Egli vuole che «cresca in Gesù Cristo attraverso l’azione di grazie» (Col 2,7) nella quale tutto deve sfociare e trovare il suo compimento. «Padre, ti rendo grazie» (Gv 11,41). Ecco il canto che risuonava nell’anima del Maestro e del quale Egli vuole riudire l’eco nella mia. Ma sono convinta che «il cantico nuovo» capace di deliziare e cattivare il mio Dio al di sopra di ogni altro, è quello d’un’anima spogliata e libera di se stessa nella quale possa riflettere tutto ciò che è e fare tutto ciò che vuole. Quest’anima si tiene sotto i tocco della sua mano come una lira e tutti i suoi doni sono altrettante corde che vibrano per cantare giorno e notte la Lode della sua gloria. 

Quattordicesimo Giorno

 

«Mi sembra che tutto sia una perdita dopo che so ciò che ha di trascendente la conoscenza del Cristo Gesù, mio Signore. Per il suo amore ho perduto tutto, ritenendo tutte le cose come letame per guadagnare il Cristo, per essere trovato in Lui non con la mia propria giustizia, ma con la giustizia che viene da Dio mediante la fede. Quello che voglio, è la conoscenza di Lui, la comunione alle sue sofferenze e la conformità alla sua morte» (Fil 3,8-10). «Proseguo la mia corsa cercando di arrivare là dov’Egli mi ha destinato prendendomi. Tutta la mia sollecitudine è di dimenticare quello che resta dietro a me e di tendere costantemente verso ciò che mi sta davanti. Corro dritto allo scopo, al premio della vocazione celeste alla quale mi ha chiamato nel Cristo Gesù» (Fil 3,12-14). Di questa vocazione l’Apostolo ha spesso rivelato la grandezza. «Dio –egli dice – ci ha scelto in Cristo prima della creazione perché fossimo immacolati e santi alla sua presenza nell’amore» (Ef 1,4). «Siamo stati predestinati per un decreto di Colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà affinché siamo la lode della sua gloria» (Ef 1,11-12). Ma come rispondere alla dignità di questa vocazione? Ecco il segreto: «Mihi vivere Christus est!» (Fil 1,21); «Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus» (Gal 2,20). Bisogna essere trasformati in Gesù Cristo. È ancora S. Paolo che me l’insegna: «Quelli che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). Importa dunque che io studi questo divino Modello in modo da identificarmi con Lui e poterlo senza posa esprimere agli occhi del Padre. Quali sono le sue prime parole all’entrare nel mondo? «Eccomi, vengo, o Dio, per fare la vostra volontà» (Eb 10,9). Mi sembra che questa preghiera dovrebbe essere come il battito del cuore delal sposa: «Eccomi, o Padre, per fare la vostra volontà». Il Maestro fui così vero in questa prima oblazione! Tutta la sua vita, per così dire, non ne fu che una conseguenza. «Il mio cibo – amava dire – è fare la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Deve essere così anche della sua sposa, pur nel momento in cui la spada l’immola. «Se possibile, s’allontani da me questo calice, ma non come voglio io, ma come volete voi, Padre» (Mt 26,39). Allora, traboccante di gioia, andrà con suo Maestro ad ogni immolazione, rallegrandosi «d’essere stata conosciuta dal Padre» perché l’ha crocifissa insieme col Figlio suo. «Ho preso i vostri ordini perché fossero la mia eredità per sempre. Essi sono la delizia del mio cuore» (Sal 118,111). Ecco le parole che risuonavano come un canto nell’anima del Maestro e che devono avere un’eco profonda in quella della sua sposa. Proprio a causa di questa fedeltà di tutti i momenti a questi «ordini» esterni e interni, renderà testimonianza alla verità e potrà dire: «Colui che mi ha inviata, non mi ha lasciata sola. È sempre con me perché faccio sempre ciò che a Lui piace» (cf Gv 8,29). Restando sempre in questo intimo contatto col Maestro, potrà irradiare «quella segreta virtù» (Lc 6,19) che salva e libera le anime. Spogliata e liberata di se stessa e di tutto, potrà seguire il Maestro sulla montagna, per farvi con Lui «un’orazione divina» (Lc 6,12). Poi, attraverso il divino Adoratore, Colui che fu la grande Lode della gloria del Padre, offrirà incessantemente un’ostia di lode, cioè il frutto di labbra che rendono gloria al suo nome (cf Eb 13,15). Lo loderà come canta il salmista, «nell’espansione della sua potenza, secondo l’immensità della sua grandezza» (Sal 144,6). Quando poi verrà l’ora dell’umiliazione, dell’annientamento, si ricorderà di quella parola del Vangelo: «Jesus autem tacebat» (Mt 26,63) e tacerà  custodendo, «conservando tutta la sua forza al Signore» (Sal 58,10), la forza che «si attinge nel silenzio» (Regola Carmelitana). Quando verrà l’abbandono, la desolazione, l’angoscia, che strapparono al Cristo qualche grido: «Perché, Padre mi avete abbandonato?» (Mt 27,46), si ricorderà della preghiera del Maestro: «Che essi abbiano in loro la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13) e, bevendo fino alla feccia il calice preparato dal Padre, saprà trovare nella sua amarezza una soavità divina. Infine, dopo aver tante volte ripetuto: «Ho sete» (Gv 19,28), sete di possedervi nella gloria, griderà: «Tutto è consumato…, nelle vostre mani abbandono la mia anima» (Gv 19,30 e Lc 23,46). E il Padre verrà a prenderla per trasferirla nel suo regno dove «nella luce vedrà la luce» (Sal 35,10). «Sappiate – cantava David – che Dio ha meravigliosamente glorificato il suo Santo» (Sal 4,4). Sì, il santo di Dio sarà stato glorificato in quest’anima, perché Egli vi avrà distrutto tutto per «rivestirla di Se Stesso» (cf Rm 13,14) ed essa avrà praticamente vissuto la parola del Precursore: «Bisogna ch’Egli cresca ed io diminuisca» (Gv 3,30). 

Quindicesimo Giorno

 

Dopo Gesù Cristo, senza dubbio alla distanza che vi è fra l’infinito e il finito, viè una che fu anch’essa la grande Lode di gloria della SS. Trinità, che  rispose pienamente all’elezione divina di cui parla l’Apostolo. Essa fu sempre «pura, immacolata, irreprensibile» (Col 1,22) agli occhi del Padre tre volte santo. La sua anima è così semplice e i moti del suo spirito così profondi da non poterli avvertire. Sembra riprodurre sulla terra la vita propria dell’essere divino, dell’Essere semplice. Al tempo stesso è così trasparente e luminosa da scambiarla con la luce. Tuttavia non è altro che lo «Specchio» del Sole di giustizia, «Speculum Iustitiæ!…».

«La Vergine conservava queste cose nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Tutta la sua vita si può riassumere in queste poche parole. Viveva nel suo cuore, a tale profondità, che lo sguardo umano non la può seguire. Quando leggo nel Vangelo che Maria «percorse in tutta fretta le montagne della Giudea» (Lc 1,39) per andare a compiere il suo ufficio di carità presso la sua cugina Elisabetta, la vedo passare così bella, così calma e maestosa, tutta raccolta dentro di sé col Verbo di Dio!

anche la sua preghiera, come quella di Lui, fu sempre questa: «Ecce – Eccomi!». Chi? «l’ancella del Signore» (Lc 1,39), l’ultima delle sue creature, lei, la sua Madre! Fu così vera nella sua umiltà perché fu sempre dimentica, ignara, libera di se stessa e così poteva cantare: «L’Onnipotente ha fatto in me cose grandi. Orami le nazioni mi chiameranno beata!» (Lc1,48-49).

Questa Regina dei Vergini è anche Regina dei Martiri, ma è sempre «nel cuore» (Lc 2,35) che la trapassò la spada. In lei tutto accade al di dentro!… Come è bella a contemplarsi durante il suo lungo martirio, così serena in quella sua maestà che spira al tempo stesso forza e dolcezza. Aveva ben appreso dal Verbo stesso come devono soffrire coloro che il Padre chiama ad essere vittime, coloro ch’Egli ha deciso di associare alla grande opera della Redenzione, coloro ch’Egli «ha conosciuto e predestinato ad essere conformi al suo Cristo» (Rm 8,29) crocifisso per amore. Essa rimane là, in piedi accanto alla croce, forte ed eroica, e il Maestro mi dice: «Ecco tua Madre» (Gv 19,27). Così ne l’ha  data per Madre. Ora che è ritornato al Padre suo e mi ha collocato al suo posto sulla croce, perché «soffra nel mio corpo ciò che manca alla sua Passione, per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24), la Vergine è ancora là per insegnarmi a soffrire come Lui, per dirmi, per farmi udire quegli ultimi canti della sua anima che nessuno, al di fuori di lei, ha potuto percepire. Quando avrò detto il mio «consummatum est» (Gv 19,30), sarà ancora lei «Iaunua cœli – Porta del cielo» ad introdurmi negl ieterni tabernacoli, sussurrandomi le misteriose parole: «Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi, in donum Domini ibimus!…– Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore» (Sal 121,1). 

Sedicesimo Giorno

 

«Come la cerva assetata brama le sorgenti d’acqua viva, così l’anima mia anela a te, mio Dio. La mia anima ha sete del Dio vivente! Quando mi sarà dato di comparire alla sua presenza» (Sal 41,2-3). Frattanto come «il passero ha trovato un arbusto su cui posarsi, come la tortorella ha trovato un nido per collocarvi i suoi piccoli» (Sal 83,4) così Laudem gloriæ, in attesa di essere trasferita nella santa Gerusalemme «beata pacis visio» (Inno dei Vespri dell’Ufficio della Dedicazione delle chiese), ha trovato il suo rifugio, la sua beatitudine, il suo cielo anticipato dove incominciare la sua vita dell’eternità. «In Dio la mia anima resta silenziosa e da Lui attende la sua liberazione. Sì, Egli è la rupe su cui trovo la mia salvezza, la mia roccaforte e nulla potrà farmi paura!» (Sal 61,2-3). Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come Zaccheo, il Maestro mi ha detto: «Affrettati a scendere, perché devo fermarmi a casa tua» (Lc19,5). Affrettati a scendere, ma dove? Nel più profondo della mia anima, dopo aver lasciato me stessa. «Bisogna che mi fermi presso di te». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e lo Spirito d’amore, perché io «sia in società con loro» (1Gv 1,3), secondo l’espressione del discepolo prediletto. «Non siete più ospiti o stranieri, ma siete ormai della casa di Dio» (Ef 2,19), dice S. Paolo. Ecco come io intendo essere della casa di Dio:vivendo in seno alla beata Trinità nel mio abisso interiore, in quella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, di cui parla S. Giovanni della Croce (Cantico “B”, str. 40,3). David cantava: «La mia anima vien meno entrando nella dimora del Signore» (Sal 83,3). Mi sembra che questo debba essere l’atteggiamento di ogni anima che rientra nella sua dimora interiore per contemplarvi il suo Dio e per riprendere contatto vivo e profondo con Lui. Essa vien meno, in un divino dissolversi di fronte a quest’amore onnipotente, a questa infinita Maestà che dimora in lei. Non è affatto la vita che l’abbandona, ma è lei che disprezza questa vita naturale e se ne ritrae perché sente che non è degna della sua essenza così ricca, e va a morire e perdersi nel suo Dio. Com’è bella questa creatura spoglia e libera di se stessa! È in grado orami di «disporre ascensioni nel suo cuore» (Sal 83,6) e di passare da questa valle di lacrime (cioè di tutto ciò che è meno di Dio)al luogo che è la sua meta, quel «luogo spazioso» (Sal 30,9) cantato dal salmista, che è, mi sembra, l’insondabile Trinità: «Immensus Pater, immensus Filius, immensus SpiritusSanctus» (Simbolo di S. Atanasio). Essa sale… s’eleva al di sopra dei sensi, della natura, di se stessa, va al di là di ogni gioia e di ogni dolore, passa attraverso le nubi per non riposarsi se non quando sarà penetrata «nel segreto» di Colui che è il suo amore e che le dona Se Stesso, «il riposo dell’abisso». E tutto questo senza essere uscita dalla sua santa fortezza. Il Maestro le ha detto: «Affrettati a scendere» (Lc 19,5). È ancora senza uscire di là che vivrà ad immagine dell’immutabile Trinità, in un eterno presente, adorandola sempre per se stessa e divenendo, attraverso uno sguardo sempre più semplice ed unitivo, «splendore della sua gloria» (Eb 1,3), in altre parole, l’in cessante lode di gloria delle sue perfezioni.

j.m.j.